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21 febbraio 2013

Infanzia e poesia - Kindheit und Poesie

«Immaginiamo un bambino del dopoguerra che gioca in uno spiazzo sterrato desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti. Questi segni gli parlano di una guerra che non ha conosciuto e i suoi occhi guardano verso il cielo nello spasimo di amarne la trasparenza. Sarà così per sempre, come lo è stato per me: abitare le tracce di un ignoto disastro e offrire ogni cosa ad una vertigine vuota e distante. Così il sogno della poesia. Un atto di fedeltà ad un Angelo bruciato e la fedeltà altrettanto rigorosa a una terra desolata e secca. Il bambino è cresciuto, le macerie della sua infanzia sono ancora lì, cifre di un conflitto che il mito può illuminare ma non redimere. Allora il mito non può che essere debole, come la montaliana “creatura di un attimo” che la poesia lascia intravedere, angelica sembianza di una salvezza che è sempre a venire. Ecco, le ragioni della poesia si riducono a questa adesione alle cose morte e scheletrite, un atto d’amore pietoso che può almeno confortarle con la luce del mito, della sua mitezza. Oggi, nell’epoca delle rovine, la poesia è più che mai il canto dell’Amico, del bambino che gioca in uno spazio desolato e vorrebbe congiungere il cielo alla sua terra ferrigna e scalcinata. Parlo della bellezza, ed anche dell’orrore: la poesia conosce da sempre questa soglia, questo confine. Accogliere tutto, e inginocchiarsi davanti a tutto: chi non vede la terra, la sua polvere e il suo cemento, non vede nemmeno la trasparenza del cielo. L’infanzia, ripostiglio di bambole dell’anima di piombo, scena di angeli e paure: tempo della gioia e della sventura, del pianto e delle madri, barlume di parole dettate da una voce che ordina. Tempo dell’obbedienza, di un rigore tragico e destinale, di corse eroiche e sanguinanti. Il mito, appunto, di un’infanzia custodita nel fondo del linguaggio come luogo primordiale della sua voce più dolorosa ed esatta: quella dei poeti, dei “più dicenti”, come li ha chiamati Heidegger. Questo dettato, la sua parola erratica e mai perduta, mantiene la poesia sui bordi di una vertigine tragica e gioiosa, nella responsabilità di quel dire esigente che è il poetico. Un ripostiglio, un solaio di bambole sottili e inerti in cui si raduna, come diceva Rilke, ciò che esistendo disgiungiamo. Forse è in questi stanzini di buio e di pianto che abbiamo appreso ad amare angeli impossibili, davanti a questi immobili contenitori dell’umano dove la precarietà sembra annullata nella rigida fissità della morte. E chi conserva dentro di sé quei bambolotti, il mistero di poveri angeli intravisti e invocati come sembianze di vita mischiata con la morte, conserva anche la debolezza che lo farà inginocchiare davanti alla tragica e gioiosa armonia di terra e di cielo: in una parola la poesia».
Roberto Carifi, Infanzia e poesia - Nel ferro dei balocchi
*****


Quanto Benjamin c’è in queste parole. Quanto aggirarsi dell’ “angelo” sulle macerie del tempo. Il viaggio a ritroso alla ricerca dei simboli dell’infanzia coincide con lo sguardo dell’angelo della storia: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato». (Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 9).
L’infanzia è il luogo della nostalgia ma anche della deflagrazione emotiva. Il poeta è un bricoleur che nella pratica del verso assembla relitti di un sentire acerbo e irrisolto, e il suo tentativo di rendere produttivo e ‘organico’ uno strato tanto fluido quanto indecifrabile viene immancabilmente respinto.
La sintassi dell’infanzia, tempo mitico di ogni essere umano, sfugge continuamente a ogni riorganizzazione significativa. Il piacere del ritorno alle immagini e agli oggetti che si sono preservati dalla “maledizione dell’essere utili” è subito frustrata da una sorta di consapevolezza alienante, l’essere qui e ora che impedisce di essere là, il compromesso con la maturità ordinata e forzata del giudizio critico che ci porta a isolare come poco affidabile la suggestione proveniente da un mondo chiuso in sé, un po’ hortus conclusus un po’ giardino alchemico per iniziati.
E tuttavia senza questa estraneità, senza questo esproprio dal passato non ci sarebbe neppure lo slancio del volgersi indietro (ich kehre gern zurück, dice Gershom Scholem in Gruss vom Angelus), non ci si sentirebbe attratti a osservare quei frammenti dispersi eppur vitali né se ne saprebbe cogliere la devastazione dolorosa alla luce del nostro vissuto, al quale già tendevano i loro misteriosi richiami, prima che ce ne allontanassimo.

Entrare nella casa del poeta è come alzare la cortina che ci separa dall’ingresso in un tempio orientale. Lo studio affollato di statue del Buddha è un antro di una sacralità propizia a celebrare il rito della poesia.
La raccolta Infanzia (Raffaelli editore, 2012) comprende poesie che Carifi ha composto tra il 1980 e l’ ’83, attorno ai trentadue anni.
Questi versi scivolano nel lettore come oracoli o come la corrente di un fiume, si fanno avvicinare con la medesima devozione con cui il fedele mette in movimento le “ruote della preghiera” in un santuario buddhista. L’evocazione suscita uno sguardo doloroso e affascinato su stagioni, giochi, giardini, cancellate, mura, cortili, un cosmo primitivo denso di immaginari e recuperi in cui il poeta si aggira in preda a uno smemoramento fiabesco, dove tutto sembra preludere a una qualche epifania.
(Di Claudia Ciardi)



Roberto Carifi, Infanzia, Raffaelli editore, 2012


Benjamin micro-narratore

di Giulio Schiavoni
«In particolare anche queste conferenze radiofoniche [il riferimento è alle Rundfunkgeschichten tenute da Benjamin tra il ’29 e il ’32 alle radio di Berlino e Francoforte] confermano la centralità dell’interesse benjaminiano per le problematiche pedagogiche e per il mondo non ancor deformato dell’infanzia e della fantasia creatrice, posto al centro delle proprie costellazioni simboliche e recuperato con stupore e reverenza in chiave materialistica e antiidealistica dopo la delusione nei confronti delle “Jugendbewegungen” evidenziatasi in prossimità della Prima Guerra Mondiale, al punto che si potrebbe idealmente ravvisare nel percorso figurale benjaminiano un passaggio d’interesse “dalla Jugend alla Kindheit”, ossia dalle potenzialità della Gioventù a quelle dell’Infanzia. (Gli sforzi di penetrare concettualmente tale universo sono documentati anche dalla Strada a senso unico e dall’Infanzia berlinese intorno al 1900), dagli articoli pubblicati da Benjamin sulla “Frankfurter Zeitung” nella prima metà degli anni Venti e dalla sua attenzione per l’opera di Proust, il luogo in cui egli ha visto intrecciarsi nella maniera più perfetta il mondo dell’adulto a quello del bambino».

Walter Benjamin, Burattini, streghe e briganti. Illuminismo per ragazzi (1929-1932)
Il Melangolo, 1993

Titolo originale/ Original title: Rundfunkgeschichten für Kinder, Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main, 1989

«Bighellonare e contemplare (das Flanieren) è come leggere la via […]. La precipitazione degli altri vi purifica come un bagno nella schiuma del mare». Così Franz Hessel fotografa la sensazione di girare a piedi per Berlino. La metropoli, all’inizio degli anni ’20, è una fabbrica per l’immaginazione, irresistibile agli occhi dell’artista che l’attraversa. Uno strano magnetismo scorre a fiotti tra le sue vie, un misto di inquietudine e seducente vivacità sembra posarsi sulle sue architetture a un ritmo contagioso, lasciando senza fiato.  
Potsdamer Platz è stata per almeno un trentennio il simbolo della “città in movimento”. Dal Café Josty si poteva avere un colpo d’occhio sull’intero spazio, di cui scattanti uomini d’affari e signore slanciate dai loro graziosi cappellini rappresentavano un inesauribile corteo rituale. Questo movimento vorticoso, questa energica continua corrente di persone, andava incanalandosi lungo i binari del tram per convergere attorno al semaforo-orologio della piazza, eccentrica struttura di pentagono immolata a una scansione quasi onirica del traffico e del tempo. E proprio nel nodo di geometrie e forme irrisolte che da sempre intridono gli sfondi della metropoli sta l’enigmatica sensualità dei labirinti berlinesi, in cui si tiene a battesimo il più invidiabile degli smarrimenti speculativi.
Lo stesso Robert Walser, che tanto amava alimentare la sua scrittura di uno struggente disorientamento, si fece rapire volentieri dalla frenesia della Potsdamer, e proprio lì, un giorno, nel solito ubriacante via vai di teste incontrò Walther Rathenau. Vi è al riguardo un bel passo del ritratto che W. G. Sebald gli dedica ne Il passeggiatore solitario (Le promeneur solitaire. Zur Erinnerung an Robert Walser, cf. pp. 51-54 dell’edizione italiana), oltre alla descrizione che Walser dà di questa circostanza nel suo romanzo Il Brigante.
Spazieren in Berlin di Franz Hessel, con cui abbiamo cominciato il nostro articolo, è una delle grandi opere destinate ad arare un altro fecondo immaginario, quello dell’amico filosofo e scrittore, Walter Benjamin. Franz, padre di Stéphane, autore del pamphlet che ha invitato le giovani generazioni a indignarsi con i responsabili dell’attuale crisi economica, era un osservatore attento e sensibile, non a caso affascinato da Proust, nel quale pure Benjamin vedeva un grande bricoleur delle età storiche e umane. L’opera di Proust è il caleidoscopio che permette di esplorare l’interiore, “das Innen”, la prima tessera dipinta con cui il bambino filtra le proprie associazioni mentali per comprendere la realtà che lo circonda, come Benjamin non manca di sottolineare in una delle sue più toccanti poesie, dove i ricordi dello “Heim” consacrato all’infanzia si sovrappongono a quelli delle amicizie giovanili. Anche Berlino ha i suoi passages nei manifesti pubblicitari e nelle insegne abbaglianti dei grandi magazzini, ovunque contrasti cromatici e giochi di luce che fanno largo ai deliri visionari di Heinrich Kley, le cui bizzarre creature siedono sulle cuspidi di imponenti facciate neoclassiche, alfieri di fumose diagonali e misteri beffardi impigliati nel sottosuolo delle stazioni metropolitane. Di queste atmosfere si ritrovano alcuni intensi fotogrammi proprio nei discorsi radiofonici di Benjamin. Le Rundfunkgeschichten, tenute tra il 1929 e il ’32, rappresentano per certi versi un revival nostalgico di “storia della metropoli”, uno spaccato del floruit della “vita berlinese” che volge alla fine insieme all’esperienza weimariana, e anche un tentativo di recuperare i frammenti di un vissuto che rischia di essere disperso, insieme al suo valore insostituibile di testimonianza. Da studioso impegnato nella salvezza di frammenti di storia, attitudine che si spinge fino alla conservazione di oggetti considerati di utilità marginale, quali ad esempio i giocattoli o i libri per bambini, Benjamin intende sottrarre alla regola del mercato quelli che ha felicemente definito i “relitti di un mondo di sogno”. A tale riguardo, nell’articolata introduzione ai discorsi radiofonici, Giulio Schiavoni osserva: “Materiali che si direbbe costituiscano un humus ancora fertile, ponendosi come reliquie di una tramontata ingenuità, e che – nella prospettiva benjaminiana – paiono come albergare quella promesse du bonheur che tanti adulti hanno smarrito o tradito.” (p. 19)
La collaborazione con la radio di Berlino e di Francoforte, oltre a metterne in evidenza le notevoli doti di comunicatore rivela per intero il suo progetto pedagogico, che vuole sottrarre i ragazzi alle mire di un processo educativo interessato e consumista, dal quale “la delicata e chiusa fantasia del bambino viene intesa, senza scrupoli di sorta, come domanda psicologica nel senso di una società produttrice di merci, e nella quale con squallida disinvoltura l’educazione viene considerata come lo sbocco coloniale per lo smercio di beni culturali.” (p. 16; in tedesco si veda W. Benjamin, Kolonialpädagogik, 1929)
Per Benjamin è fondamentale, in una fase storica che offre molti allettamenti e altrettanti messaggi confusi e nevrotizzati, fornire ai più giovani, nella maniera meno invasiva e autoritaria, quegli strumenti necessari allo sviluppo di una solida e indipendente capacità critica. Solo diventando osservatori coscienti infatti saranno in grado di percepire a pieno il ruolo di attori sociali che l’ingresso nell’età matura li chiamerà a ricoprire. Benjamin formula in termini straordinariamente attuali la responsabilità dell’educatore nella formazione di individui consapevoli e preparati ad essere cittadinanza e umanità attiva e impegnata.

(Di Claudia Ciardi, 2011)

Sulle atmosfere della Berlino del primo trentennio del ‘900 e le sue collisioni artistiche si veda la voce dedicata al Café des Westens: http://it.wikipedia.org/wiki/Caf%C3%A9_des_Westens
Interessante spazio di discussione (in lingua inglese) dove una comunità di appassionati si confronta sui libri ispirati dal “mood” di Berlino, con un'attenzione particolare agli anni ’20 e ’30 - Books about Berlin: http://www.toytowngermany.com/lofi/index.php/t68483.html


Si veda anche:
Claudia Ciardi -  Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald - Helios mag

Georg Heym - Ci invitarono i cortili (Die Höfe luden uns ein) a cura di Claudia Ciardi in collaborazione con Angela Staude Terzani, Via del Vento edizioni, dicembre 2011



Franco Benesperi, settimanale «La Vita», 27 - 1- 2013

13 febbraio 2013

Espressionismo in Toscana – ‘Expressionismus’ in Tuscany


Alfiero Cappellini,
Pittura come necessità,
Via del Vento edizioni,
Collana Le Streghe,
dicembre 2012,
4,00 

ISBN 978-88-6226-070-1

«La generazione di artisti che ha iniziato ad esprimersi in Italia nella seconda metà degli anni Venti ha dovuto fare i conti con i forti condizionamenti che la situazione politica, sociale, culturale, andava determinando dopo la felice stagione delle ‘avanguardie storiche’, futurismo e metafisica, che hanno segnato in modo indiscusso la storia dell’arte del Novecento, non solo nazionale. Gran sacerdote e propagatore, specie in Toscana, del clima di restaurazione in arte ritenuto necessario a smorzare la temperie di avanguardie, fu Ardengo Soffici che, forte della credibilità conquistata all’inizio del secolo per aver fatto conoscere in Italia la nuova pittura francese, Cézanne, Picasso, il cubismo, e dopo aver avversato il futurismo per poi abbracciarlo lui stesso, si faceva allora fautore, a partire dal 1918- ’19 del ritorno ad una figurazione d’impianto tradizionale. Questo soprattutto in opposizione alle esperienze d’avanguardia di matrice espressionista che si stavano diffondendo nel nord Europa, ritenendo lui inconciliabili e antitetiche quelle che secondo la sua semplificazione erano le due fondamentali correnti dell’arte europea: quella italiana, di matrice greco-romana e mediterranea, e la gotica, di matrice nordica».

[…]

«Cappellini, pur avendo preso atto dell’Insegnamento di Soffici (testo che scrive su «Il Ferruccio» del 3/ 2/ 1934), di fatto inseguiva invece la sua modernità nel tentativo di rinnovare il linguaggio soprattutto nella tematica del paesaggio con una pittura d’impronta sostanzialmente espressionista, esiti a cui perverrà in forma più evidente a partire dal 1945».

[…]

«L’espressionismo di Cappellini, così distante dal ‘realismo magico’ di Agostini e Bugiani, non è comunque approdato alle estreme conseguenze di una ricerca, che pure ha avuto esiti altri e anche molti discepoli. Tra questi il grande astrattista Fernando Melani che nel 1945, attratto dalla personalità dell’amico Alfiero, decise di dare una svolta alla sua vita dedicandosi esclusivamente all’arte: i moltissimi quadri ‘cappelliniani’ dipinti in quei pochi anni gli serviranno però solo per impadronirsi dei mezzi pittorici, poi distruggerà tutte quelle opere per incamminarsi in un sentiero completamente astratto. Le lunghe e accese discussioni tra i due sulla teoria dell’arte non li mossero dalle loro posizioni, e il tempo che mancherà al Cappellini, prima con la malattia poi per il definitivo congedo, gli impediranno, se mai ne avesse avuto la convinzione profonda, di seguire il discepolo nella strada che questi, come un monaco, risolutamente aveva già imboccato».

Fabrizio Zollo


                                                                      *****

«Il ritratto è una poesia a rime obbligate e l’artista di genio ha sempre bisogno di andare oltre gli obblighi.
L’artista – quello vero – che arriva a creare opere di bellezza che resteranno testimonianze luminose attraverso i secoli, è un eterno tormentato. Dico eterno perché questa razza di artisti, si perpetua, rinascendo ad ogni generazione. È un eterno tormentato poiché l’ideale da raggiungere è sempre superiore a ciò che si realizza. Ad ogni opera compiuta il suo spirito resterà insoddisfatto dandogli sgomento e sofferenza; e questo fino alla sua morte o fino all’indebolimento delle sue facoltà creative».

[…]

«Dire oggi che un lavoro di un buon artista moderno può reggere al confronto di un lavoro di un buon artista antico è per alcuni una eresia. Ciò deriva dal fatto che costoro più che guardare al valore intrinseco del lavoro, guardano l’esteriore e l’esteriore confrontano. Ma è necessario capire, ormai una volta per sempre, che l’esteriore nel senso in cui viene guardato da questi – diciamo così profani – non ha nessuna importanza. Non conta se la tecnica da statica che era è diventata mossa, se il quadro da finito e curato in tutti i particolari è diventato affrettato e vivo. Quello che conta è saper comprendere se le espressioni e le ragioni prime dell’arte son risolte nel quadro o nella statua, nella musica, nell’architettura e nella poesia. Se le ragioni prime vi sono, saranno quelle che faranno l’opera d’arte; al contrario inutile che vi sia esteriorità perfetta anche superiore a quella degli antichi maestri. Partire da un presupposto tecnico del tutto contrario da quello da cui partivano gli antichi, non impedisce a coloro che realmente sono artisti, di arrivare a conclusioni dello stesso valore».

[…]

«…fino ad allora avevo preso conoscenza, attraverso le riproduzioni, di ciò che facevano i pittori contemporanei e per la cultura mi ero già incontrato con Nietzsche, il quale ebbe molta influenza sulla mia prima formazione artistica.
Più tardi abbandonai, non senza fatiche e patimenti, alcune altezze inebrianti raggiunte per mano al grande filosofo-poeta tedesco, per mettermi davanti a me stesso, alle mie possibilità – mi dicevo – e ciò invece mi servì ad entrare nel vivo della tradizione italiana».

[…]

«Sebbene un sogno che sembra fosse in me fino da bimbo, ed esistesse prima che ne avessi coscienza, mi porti a pensare alla mia ambizione di fare il pittore, come ad un’azione liberatrice dello spirito, tutta inserita in un’angelica visione, la realtà è stata ben altra, e di una durezza che a ripensarla a distanza di anni, è quasi paurosa».

[…]

«So che il resto dei miei anni li dedicherò ancora alla pittura, ed in ultima analisi, al raggiungimento di un ideale di felicità, perché ancora penso che l’arte, cioè il credere in qualcosa che va oltre i limiti della nostra conoscenza, inserendosi nell’ordine spirituale delle cose, debba essere felicità».

[…]

«…il progredire della scienza con la disgregazione dell’atomo, coi satelliti che vanno a esplorare le zone mai viste dall’uomo. Anche tutto questo trasformarsi nella realtà ha messo l’attento artista in una condizione di crisi. Allora mi è venuto da pormi la domanda: “Nel mondo in cui si vive oggi, che fa questi enormi passi avanti, si può continuare a riflettere pittoricamente ciò che la società produce seguitando ad esprimersi attraverso la figurazione, il figurativo? Ed è venuto un momento nel quale mi sono detto “no, non è più possibile!”. Allora ho avuto un altro periodo, diverso da quello mistico-religioso. Ho fatto un altro passaggio: un passaggio alla pittura senza oggetti, alla cosiddetta ‘pittura astratta’. Però anche quando ho fatto l’astratto, quasi generalmente, l’ho fatto con motivi esatti, partendo da fatti precisi. Uno dei primi quadri astratti l’ho dipinto quando, sia russi che americani, mandarono i satelliti nella stratosfera. Allora si parlò di “pulviscolo”, dalla stratosfera si sentirono certe specie di rumori, ecc. ed il primo quadro astratto l’ho impostato su questo problema, l’ho accostato a questo mondo dove l’uomo non era mai stato».

[…]

«Direi che coscientemente non ho voluto né insegnare, né trasformare, perché l’artista si differenzi dal politico, dal teologo, dal filosofo, proprio perché non si pone il preciso problema di voler educare in un certo senso speciale la massa degli uomini per portarli verso determinati punti. Anche nell’artista c’è questo, però non è conscio. Se questo è fatto programmaticamente, si ottiene il rovescio dello scopo».

[…]

«In ogni artista degno di questo nome, nel suo sub-conscio, c’è questa componente evolutiva di voler portare avanti qualcosa. Avanti come? Con un lavoro di bellezza, di persuasione: portare avanti l’umanità».

[…]

«In questo momento mi pongo davanti alla tela ed al soggetto in un estremo stato di debolezza, a causa della malattia che si diceva, e debbo fare uno sforzo tremendo per giungere a fare ciò che in condizioni normali facevo con estrema facilità. Mi pare però che pur avendo perduto parecchia della mia forza, avrei acquistato in finezza: nel senso che quello che faccio è diventato, come dire?, una specie di pittura giapponese o cinese».

Alfiero Cappellini



Nello studio del pittore - Im Malers Atelier

Ricordo di Aldo Frosini
allievo di Alfiero Cappellini
Zur Erinnerung an Aldo Frosini
Schüler von Alfiero Cappellini

5 febbraio 2013

Franz Hessel-Marlene Dietrich

Cartoline dalla metropoli-Postkarten aus der Metropole



Una deliziosa biografia tascabile inaugura con raffinato gusto la nuova collana “Lampi” di Elliot edizioni, brevi ritratti di epoche e personaggi scaturiti dall’osservazione di interpreti illustri.
Qui è Franz Hessel, colto miniaturista degli umori berlinesi, a raccogliere la voce di una sensuale Marlene Dietrich, astro del cinema americano e mondiale. Sullo sfondo, o per meglio dire, sulla scena, la metropoli, il cui carattere pieno di contrasti e sfumate nostalgie sembra affiorare in ogni gesto dell’attrice, contribuendo alla foggia assolutamente particolare della sua femminilità.

«È cresciuta dove poi sarebbero sorti i quartieri berlinesi occidentali di Wilmersdorf e Westend. Figlia di un ufficiale, si è presto abituata ai trasferimenti legati ai cambiamenti di guarnigione, ma è sempre stata di casa nella città dai sobri e chiari colori del giorno e dai lunghi tramonti, dalle delicate albe invernali e dalle lunghe sere estive, indimenticabili per chiunque sia stato bambino a Berlino».

Il divismo di Marlene è cosa affatto incline e devota alla dimensione spettacolare, il suo successo va rintracciato piuttosto in un fascino erotico e in una carica seducente da cui nasce un’irresistibile empatia verso tutto il suo pubblico, in grado di conquistare indistintamente uomini e donne.
Il rientro dell’artista nella sua città, durante una breve pausa lavorativa, diviene l’occasione di un incontro nel 1931 con Hessel, giornalista e scrittore-flâneur, maestro della kleine Form, la prosa breve elaborata in tedesco sul modello francese del feuilleton, già alla base di esperimenti narrativi nell’Ottocento, come le ‘lettere berlinesi’ di Heine. Il genere raggiunge una piena maturità letteraria, parallelamente a una considerevole fortuna di pubblico, intorno agli anni Venti del Novecento, ed Hessel, cui si affiancano i nomi di Siegfried Kracauer e Joseph Roth, ne è uno dei più abili artigiani. Si tratta, del resto, di un’attitudine alla collezione di ascendenza ellenistico-bizantina (si pensi alle raccolte di glosse e ai lessici come la Suida) che viene a saldarsi su un vero e proprio culto della frammentarietà nel quale il tessuto testuale-archivistico è contaminato da elementi non-testuali, i media e la merce, ad esempio, ossia tutti quei ‘segnacoli’ prodotti dal labirinto della metropoli che non solo alimentano una nuova frontiera di scrittura ma divengono essi stessi soggetti narranti, inserendosi come parte in causa nel dibattito sulla Kulturwissenschaft e orientandolo a sé; basti considerare, al riguardo, le teorizzazioni di Warburg e Benjamin.

Le volte che mi sono ritrovata a camminare per Schöneberg, dall’assiepamento quasi da bazar di negozi e mercati al vecchio gasometro, dalla vegliante malinconia del ‘miglio di Berlino’ a certe stradine laterali che in un improvviso trapasso dal cemento al verde si ridestano ai bordi della ferrovia, ammiccando come in sogno, non mi è mai sfuggita la natura liricamente intima e dimessa di questo quartiere. In ciò che questa zona di Berlino ancora sa offrire al passante, per quanto la scena sia di sicuro diversa da quella vissuta nell’infanzia di Marlene, si coglie tuttavia una carica emotiva del tutto singolare, capace di procurare facilmente l’accesso a una dimensione onirica, che senz’altro circondò l’attrice da bambina.
Alessandra Campo, attenta curatrice del volumetto, regala al lettore italiano la possibilità di avvicinare due grandi personaggi che, pur giocando ruoli diversi ma tra loro complementari, hanno interpretato un momento irripetibile sulla ribalta della nascente metropoli.
(di Claudia Ciardi)

Titolo: Marlene Dietrich. Un ritratto
Autore: Franz Hessel
Curatrice: Alessandra Campo
Casa editrice: Elliot
Collana: Lampi
Anno di pubblicazione: novembre 2012

Titolo originale/ original title: Marlene Dietrich: Ein Porträt
Franz Hessel, 1931, per l’editore Kindt & Bücher

Su Franz Hessel e la flânerie si veda l’articolo di Claudia Ciardi, Fantasticherie berlinesi, pubblicato da La Biblioteca di Israele, a cura di Giusi Meister




Marlene Dietrich/ a biography:

Marlene Dietrich, original name Marie Magdalene Dietrich, also called Marie Magdalene von Losch   (born Dec. 27, 1901, Schöneberg (now in Berlin), Ger.—died May 6, 1992, Paris, France), German American motion-picture actress whose beauty, voice, aura of sophistication, and languid sensuality made her one of the world’s most glamorous film stars.

Dietrich’s father, Ludwig Dietrich, a Royal Prussian police officer, died when she was very young, and her mother remarried a cavalry officer, Edouard von Losch. Marlene, who as a girl adopted the compressed form of her first and middle names, studied at a private school and had learned both English and French by age 12. As a teenager she studied to be a concert violinist, but her initiation into the nightlife of Weimar Berlin—with its cabarets and notorious demimonde—made the life of a classical musician unappealing to her. She pretended to have injured her wrist and was forced to seek other jobs acting and modeling to help make ends meet.

In 1921 Dietrich enrolled in Max Reinhardt’s Deutsche Theaterschule, and she eventually joined Reinhardt’s theatre company. In 1923 she attracted the attention of Rudolf Sieber, a casting director at UFA film studios, who began casting her in small film roles. She and Sieber married the following year, and, after the birth of their daughter, Maria, Dietrich returned to work on the stage and in films. Although they did not divorce for decades, the couple separated in 1929.

That same year, director Josef von Sternberg first laid eyes on Dietrich and cast her as Lola-Lola, the sultry and world-weary female lead in Der blaue Engel (1930; The Blue Angel), Germany’s first talking film. The film’s success catapulted Dietrich to stardom. Von Sternberg took her to the United States and signed her with Paramount Pictures. With von Sternberg’s help, Dietrich began to develop her legend by cultivating a femme fatale film persona in several von Sternberg vehicles that followed — Morocco (1930), Dishonored (1931), Shanghai Express (1932), Blonde Venus (1932), The Scarlet Empress (1934), and The Devil Is a Woman (1935). She showed a lighter side in Desire (1936), directed by Frank Borzage, and Destry Rides Again (1939).
*****
During the Third Reich and despite Adolf Hitler’s personal requests, Dietrich refused to work in Germany, and her films were temporarily banned there. Renouncing Nazism (“Hitler is an idiot,” she stated in one wartime interview), Dietrich was branded a traitor in Germany; she was spat upon by Nazi supporters carrying banners that read “Go home Marlene” during her visit to Berlin in 1960. (In 2001, on the 100th anniversary of her birth, the city issued a formal apology for the incident.) Having become a U.S. citizen in 1937, she made more than 500 personal appearances before Allied troops from 1943 to 1946. She later said, “America took me into her bosom when I no longer had a native country worthy of the name, but in my heart I am German—German in my soul.”

After the war, Dietrich continued to make successful films, such as A Foreign Affair (1948), The Monte Carlo Story (1956), Witness for the Prosecution (1957), Touch of Evil (1958), and Judgment at Nuremberg (1961). She was also a popular nightclub performer and gave her last stage performance in 1974. After a period of retirement from the screen, she appeared in the film Just a Gigolo (1978). The documentary film Marlene, a review of her life and career, which included a voice-over interview of the star by Maximilian Schell, was released in 1986. Her autobiography, Ich bin, Gott sei Dank, Berlinerin (“I Am, Thank God, a Berliner”; Eng. trans. Marlene), was published in 1987. Eight years after her death, a collection of her film costumes, recordings, written documents, photographs, and other personal items was put on permanent display in the Berlin Film Museum (2000).

Dietrich’s persona was carefully crafted, and her films (with few exceptions) were skillfully executed. Although her vocal range was not great, her memorable renditions of songs such as “Falling in Love Again”, “Lili Marleen”, “La Vie en rose” and “Give Me the Man” made them classics of an era. Her many affairs with both men and women were open secrets, but rather than destroying her career they seemed to enhance it. Her adoption of trousers and other mannish clothes made her a trendsetter and helped launch an American fashion style that persisted into the 21st century. In the words of the critic Kenneth Tynan: “She has sex, but no particular gender. She has the bearing of a man; the characters she plays love power and wear trousers. Her masculinity appeals to women and her sexuality to men.” But her personal magnetism went far beyond her masterful androgynous image and her glamour; another of her admirers, the writer Ernest Hemingway, said, “If she had nothing more than her voice, she could break your heart with it.”


Franz Hessel/ notice:
One of the interesting characters from early 20th-Century Schwabing was Franz Hessel, a flaneur and friend of Walter Benjamin's whom Anke Gleber has characterized as 'one of the last representatives of the metropolitan, intellectual bohemian characteristic of the European culture of early modernity.' In his book Weimar Germany: promise and tragedy, Eric D. Weitz quotes extensively from Hessel's writings (and Joseph Roth's) in order to convey a sense of Berlin's street life during the Weimar Republic.

Born in Stettin, Hessel arrived in Munich in 1900 as a law student. He soon changed plans in order to focus on archaeology and philosophy. He also became a poet, a vocation that brought him into contact with Karl Wolfskehl and the members of his circle. (I wonder if he bumped into Frederick Grove.) In this part of Hessel's life, his bohemian credentials were well and truly established by his complicated relationship with Franziska Gräfin zu Reventlow, which began in 1903 when he entered a ménage à trois with her and Bogdan von Suchocki. (Here's a photo of the house in which Reventlow and Suchocki lived at the time; it's in Kaulbachstraße in Munich, and here's a photo in which you can see Hessel with Reventlow's son.) Suchocki seems to have been replaced in this arrangement in 1907 by Henri-Pierre Roché, by which time Hessel had moved to Paris.

Roché and Hessel would later maintain a similar relationship with the German journalist, Helen Grund, whom Hessel married in 1913. This ménage became famous as the centrepiece of Roché's novel, Jules et Jim, which was the basis of Francois Truffaut's film of the same name. The character of Jules was based on Hessel. Roché was the basis of Jim, and Catherine ('Kathe' in the novel) was based on Grund.

Hessel wrote his own novel about this relationship, but it doesn't seem to be available in English. In German it's called Alter Mann, while in French it's Le Dernier Voyage. Hessel wrote it in the 1930's, but it was thought to have been lost until it was recovered in 1984.

It looks like Hessel's most important relationships with women were in the context of a ménage à trois. In this setting, Jean-Michel Palmier writes that Hessel 'becomes [women's] confidant, he loves them and admires them at a distance, preferring the role of friend to that of lover.' (Here's the original, French version of Palmier's essay.) Of his relationship with Roché and Grund, Hessel himself (in Alter Mann) said that it 'expanded the habitual scope of friendship and love.'

Franz Hessel volunteered to fight for Germany in WWI. After the war, he worked in Germany for Rowohlt Verlag. It appears that he and his family fled for France relatively late (1938). In 1940, Hessel suffered a stroke while in a detention camp in France. I believe that he was held in that camp (Camp des Milles) before the Germans had control of it, at a time when the French were using it as an internment camp for any Germans and Austrians who happened to be in France. After his release from the camp, Hessel died in January, 1941.

His and Helen's son, Stéphane, fought for the French resistance and became an accomplished diplomat. Here are brief bios of father and son.
Source:
http://praymont.blogspot.it/2011/10/one-of-interesting-characters-from.html