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13 luglio 2013

Pausa-Pause




«Il XX secolo, più proteiforme e sfaccetato, forse, di qualunque altro, cambia aspetto a seconda del punto di osservazione, incluso quello geografico. Il mio angolo d'Europa, a seguito degli eventi straordinari e letali che lì si sono verificati, paragonabili a una serie di devastanti terremoti, consente una prospettiva peculiare. Chiunque venga da là guarda alla poesia del nostro secolo in modo leggermente diverso rispetto alla maggior parte dei miei ascoltatori, in quanto vede in essa un testimone di una grande trasformazione che l'umanità sta vivendo, e a cui la poesia stessa partecipa».

Czeslaw Milosz





Cari amici riprenderemo a scrivere il prossimo settembre. Grazie a tutti.


Liebe Freundinnen und Freunde werden wir wieder schreiben im kommenden September. Vielen Dank an alle.


Dear friends, we will resume writing in September. Thanks to all.


..........Wir treffen uns in Berlin!



8 luglio 2013

Il suono della montagna - Der Klang des Berges


Il suono della montagna - Der Klang des Berges

Il tempo si offre a chi, nel silenzio,
saluta tutti, a chi diventa una cosa sola
con la fiamma e con lo spazio, colui che non ritorna
che non è qui e tuttavia lo può
si offre a chi non è diventato niente
ed è chiamato con nomi di animali
e solo così è riconosciuto
piange con tutte le creature
e piange con tutti i sassi e le pietraie
con i laghi e le locuste
ed è così che egli è.

*****

I fitti castagni irrompono dalla terra
e si portano con sé le nebbie dell’est,
con gli animali che offrono il sangue,
la brughiera passata da una lama
e i pellegrini che hanno voci irriconoscibili,
che hanno dentro la propria malattia.
Sono stranieri che hanno lasciato terre,
bestie che divennero purissime,
templi che fanno una cosa sola
con le rocce dove furono costruiti.

Roberto Carifi, «Tibet», Le Lettere, 2011


Cover, Le Lettere ©


Il villaggio dei lama morti
*

«È nostro costume considerare tutte le idee sulla sopravvivenza del corpo come delle leggende, delle puerilità o delle follie. Ma non è in realtà più assurdo che credere che siamo composti di due, tre o molteplici corpi di natura assolutamente separata e che la morte restituisce, per la parte che riguarda ognuno di essi, ai loro destini particolari. Com’è assurdo d’altronde pensare quanto la scienza recentemente ci ha fatto apprendere, che il nostro corpo sensibile e materiale sarebbe un formidabile composto di molecole, separate attraverso spazi immensi, immensi considerata la loro esiguità. E che queste molecole siano trascinate a una velocità prodigiosa all’interno di un corpo che ci sembrava eccezionale per la sua inerzia, ecco qualcosa, appunto, per la quale vale la pena di sprofondarci in abissi di riflessione».

[…]

«In mezzo a un boschetto di alberi completamente spogli a causa del calore e che ergevano da tutte le parti verso il cielo il loro gigantesco tronco calcinato, si elevavano delle specie di enormi alveari, da cui sgorgavano, a tratti, dei rumori di raganella, ardenti onomatopee e curiose melodie. L’aria, intorno agli alveari, era letteralmente oscurata da sciami erranti e neri di zanzare e mosche avvelenate. Vinsi la nausea che mi suscitava un simile spettacolo e penetrai in uno di quegli alveari; e mi accorsi di essere entrato, in realtà, in un tempio, o piuttosto in una sorta di locale, annesso a una lamasseria, dove soltanto un cadavere di Lama, in piena decomposizione, continuava a ricevere le devozioni dei fedeli.
In una specie di nicchia, attorno alla quale erano appesi abiti e oggetti sacerdotali che gli erano serviti in vita, il corpo imbalsamato del Lama si inclinava in un atteggiamento di benedizione, la testa coronata da una sorta di tiara, sulla quale erano dipinte immagini che richiamavano, per il loro colore e le loro posture, le immagini dell’iconografia cristiana».

* Questa breve prosa apparsa nel 1932 nella rivista «Voilà», non è stata da allora più ripubblicata, neppure in Francia.

Antonin Artaud
La razza degli uomini perduti e altre prose
a cura di Pasquale Di Palmo,
Via del Vento edizioni,
collana «I quaderni di Via del Vento»
novembre 2012
ISBN 978-88-6226-065-7



                          Cover, Via del Vento edizioni ©


Il Tao La Via dell’acqua che scorre

Alan W. Watts

«Il problema di districarsi con le variabili è duplice. Primo: come riconosciamo ed identifichiamo una variabile o un processo? Per esempio, possiamo noi pensare il cuore come qualcosa di separato dalle vene o i rami dal tronco? Quali sono le esatte delineazioni che distinguono il processo dell’ape dal processo del fiore? Queste distinzioni sono sempre qualcosa di arbitrario e convenzionale, anche quando vengono descritte con un linguaggio molto preciso, per il fatto che le distinzioni risiedono più nel linguaggio che non in quel che descrive. Secondo: non esiste un limite conosciuto al numero di variabili che possono avere a che fare con un qualunque avvenimento naturale o fisico – come lo schiudersi di un uovo. Il guscio di una conchiglia è duro e definito, ma quando cominciamo a pensare a questo, ci trascina in considerazioni di biologia molecolare, clima, fisica nucleare, tecnica di allevamento, sessuologia ornitologica, e così via fino a quando ci rendiamo conto che questo “singolo evento” dovrebbe – se noi ne fossimo in grado – venir considerato in relazione con tutto l’universo».

[…]

«Per molti anni mi sono esercitato nella calligrafia cinese, ma non sono ancora un esperto in quest’arte, che si potrebbe descrivere come una danza col pennello e l’inchiostro su carta assorbente. Per il fatto che l’inchiostro è soprattutto acqua, la calligrafia cinese – nel suo controllare lo scorrere dell’acqua con il pennello leggero in quanto distinto dalla penna dura – richiede che si segua la corrente. Se si esita, trattenendo il pennello per troppo tempo in un punto, o se si va troppo in fretta, o si cerca di correggere ciò che si è già scritto, i difetti sono troppo evidenti. Ma se si scrive bene si ha allo stesso tempo la sensazione che il lavoro stia avvenendo di per sé, che il pennello stia scrivendo tutto per conto suo – come un fiume, seguendo la linea della minor resistenza, compie eleganti curve. La bellezza della calligrafia cinese è perciò la stessa bellezza che noi possiamo riconoscere nel muoversi dell’acqua, nella schiuma, negli spruzzi, nei vortici, nelle onde, così come nelle nubi, nelle fiamme e nell’ondeggiare del fumo alla luce del sole. I cinesi chiamano questo tipo di bellezza il seguire del li, un ideogramma che originariamente si riferiva alle venature della giada e del legno, che Nedham traduce in modello organico, anche se è assai più generalmente inteso come la ‘ragione’ o il ‘principio’ delle cose. Li costituisce il modello di comportamento che viene fuori quando si è in accordo con il Tao, la corrente della natura. I modelli dell’aria in movimento sono dello stesso genere, ed è per questo che l’idea cinese di eleganza viene espressa con Feng-liu, lo scorrere del vento».




Feng Shui

*****

«Mi metto a osservare la linea dell’orizzonte e i miei piedi sono ben saldi su un sentiero sterrato. L’argine coronato dai canneti scende ripido fino al fiume. Torpide facciate restano in silenziosa attesa alle mie spalle; somigliano a vecchie tartarughe che dopo un secolo e più tornano per necessità e nostalgia alle rive dove il loro viaggio è cominciato. Queste case vegliano un tempo sprecato, le loro stesse architetture confinano altrove, in uno spazio che rinuncia ai suoi contorni. Qui tutto sembra chiedere: quanto ancora?
Dove la strada sale leggermente, prima del sentiero, due esili colonnini custodiscono il passo e contemplano il misero lastricato. Le rade pietre aggredite dagli anni giacciono rugose e quasi dissolte, grezzi monili usciti dalla tasca di un mercante. Vi si cammina come in un giardino di ex voto. Sasso dopo sasso ci si accorge che non si avanza soltanto: nulla è destinato a rimanere uguale. Ecco quel che ci viene offerto in questi pochi metri, tra il candore levigato di un paio di cippi e l’occhio di una lampada chinata come un ramo, sola superstite reliquia della prima illuminazione cittadina. Allora le luci erano coperte con bianchi cappucci e somigliavano a pallidi bucaneve. Queste lanterne ammiccavano gentili, spandendo un’aria turchina attorno al loro morbido copricapo, misteriose fioriture dei vicoli.
In quest’angolo sboccia adesso l’ultima crisalide. Illumina una traballante scaletta, un portone verde la saluta poco più in alto, e così pure fa il tetto di una baracca, dove un gatto nero ama sostare. Là davanti un debole alberino trema insieme alla sua ombra. La sera diviene perfino umano. Ha una sua voce il frusciare delle foglie che si accompagna al dolce dondolio del giovane fusto e al chiaro delle rade finestre.
Guadolongo ha nome quest’ansa solitaria e selvatica, e nelle sillabe è racchiusa la cadenza del luogo. Le Apuane navigano nell’incanto dell’inverno, arca innevata e magnifica, giace da qualche parte il candore di San Matteo, emanazione della pura luce che indugia lassù, e il Duomo quasi specchio delle cime. Con identica forza, nel medesimo contrasto mi si offrì anni fa la vista del Gran Sasso, bianco, immobile vegliardo davanti al verde Adriatico trascinato dal vento. Senso d’infinita pace che scuote e protegge, che ho ritrovato guardando la montagna pistoiese e la culla dell’Abetone. E sempre, anche quando ero lontana, ho avvertito l’aria che entra in questa taciturna città dell’interno e s’ingolfa agli incroci dei vicoli, visitando i muri secolari, forzando i portoni, spazzando i cortili; io so che è il suo respiro. Dall’alto inviolato delle balze cala sulle cime rotonde e sui colli, visita i quieti paesini, custodisce i piccoli cimiteri di campagna e viene in città, striscia sulla Sala, si mischia agli aromi del mercato, si attacca ai vestiti e dà stordimento. Questo è il mio Taishan, in ognuno di questi paesaggi io ho la mia montagna incantata, le sue notti risuonano in me e i miei sogni sono vicini ai suoi».
(Claudia Ciardi, Guadolongo, febbraio 2013) 

Erich Heckel
Spaziergänger am Grunewaldsee, 1911
Tempera auf Leinwand

1 luglio 2013

Denkbilder e passages


I passages della flânerie: Kracauer e Benjamin


                            Foto ed elaborazione di Claudia Ciardi ©

In qualità di ‘medium’ in grado di registrare la contemporaneità weimariana, il flâneur incarna un’inclinazione intellettuale e sensoriale che interpreta e reagisce ai nuovi fenomeni in atto nella metropoli, ai nuovi stimoli veicolati dalle sue strade. Questa disposizione è tanto un prodotto della cultura del moderno quanto uno stato collettivo che Siegfried Kracauer e Ernst Bloch descrivono secondo le categorie degli “impiegati” (Die Angestellten), di “coloro che attendono” (Die Wartenden) e dello “svago” che definisce la loro condizione. Certo, è proprio la convergenza tra il modo di vedere del flâneur e lo status collettivo dei tempi che, per Walter Benjamin, motiva “il ritorno del flâneur” nella Berlino degli anni Venti. La nuova tendenza alla “biografia come forma d’arte” che Kracauer ravvisa in questo periodo può essere dunque rintracciata nella letteratura della flânerie. Puntando la loro attenzione sulla concreta esperienza di un “sé” consapevole, in un tempo nel quale “nel più recente passato le persone sono state costrette a esprimere troppo persistentemente tutta la propria insignificanza – tanto quanto quella degli altri” sia la flânerie che la biografia sono sembrate perciò offrire alla soggettività concreta il suo estremo rifugio.
Pertanto la letteratura del flâneur può essere intesa come una “autobiografia frammentaria priva di ordine cronologico” [nonchronological and fragmentary autobiography] dell’esperienza sensibile dei propri autori.
Concordemente al saggio di Kracauer sulla vita weimariana, la letteratura della flânerie emergeva da un’esperienza di vacuità e alienazione individuali e collettive, da un’esperienza della nullità [Nichtigkeit] dell’individuo. Insieme alla rassegnazione procurata dalla prima guerra mondiale, alla confusione di una rivoluzione tedesca, e all’incertezza che serpeggiava nei primi anni della democrazia di Weimar, questo filone letterario riflette pure in modalità visive l’insicurezza generata dalle innovazioni tecniche e dalla rivolta, eventi che aiutarono ad accrescere il numero di immagini liberamente accessibili nella sfera pubblica e nello spazio esterno della metropoli del tempo di Weimar. Come suggerisce Simmel nella sua ‘sociologia dei sensi’, questo incremento quantitativo si sollecitazioni esterne è legato a uno slittamento qualitativo e a una destabilizzazione di ruoli interni. Questi mutamenti coincidono con l’incapacità della psiche a opporre resistenza mentre viene influenzata dalle incursioni e dalle profferte della tecnologia, sviluppi che possono essere seguiti molto più da vicino a Berlino, la quale, come capitale ‘meccanizzata’, forse meglio esemplifica una metropoli la cui esistenza si svolge simultaneamente al processo moderno di evoluzione tecnologica. Questa meccanizzazione prende crescentemente possesso di tutti gli aspetti di vita berlinesi, producendo uguali effetti nel modo di comportarsi sul lavoro e nel tempo libero. Berlino si trasforma in “città dalla più accentuata cultura di colletti-bianchi” come risulta dall’analisi di Kracauer. Dal momento che il lavoro diviene “sempre più settoriale”, le forme del divertimento nella società berlinese sono pertanto soggette a cambiamenti. […] La tensione (Anspannung) che seziona uomini e donne in funzionali gruppi muscolari può essere allentata soltanto per via di una cultura dell’intrattenimento egualmente frammentata, ossia, per dirla con Kracauer, una cultura della “distrazione” [distraction].
Kracauer intende la distrazione come una costante della vita moderna, un equivalente delle condizioni lavorative dettate dalla cultura impiegatizia weimariana che implica il prendere in esame una molteplicità di stimoli in costante cambiamento. La routine dell’ufficio riflette ora le azioni di un’intera società in movimento: proprio nel modo in cui “la procedura burocratica presiede a un viaggio… attraverso le carte” […] così pure andare a passeggio per le strade diviene una “consuetudine” e dopo la chiusura degli uffici, inizia un viaggio altrettanto confuso “tra gli allestimenti delle vetrine, altri impiegati e giornali”. L’ultima meta di questi viaggi indirizzati alla dissoluzione rappresenta spessissimo la loro continuazione nel mondo codificato di immagini, vale a dire, il cinema. In accordo con gli automatismi della tecnologia e con i suoi ormai frammentati ambiti di lavoro attentamente regolati, l’incremento puramente quantitativo di popolazione cittadina scompone l’immagine della città in un tipo nuovo di confusione che non è del tutto esterna. Come spiega Kracauer “non può essere trascurato il fatto che Berlino conta quattro milioni di abitanti”. La vorticosa necessità della loro circolazione trasforma la vita della strada nell’ineluttabile [unentrinnbare] strada della vita, facendo sorgere configurazioni che pervadono anche lo spazio domestico [bis in die vier Wände dringen]. La strada – sia l’una che ha vita sia l’altra che è vita – diviene metafora centrale del sentire per la dimensione pubblica weimariana. La sua tendenza allo “sviluppo del puro esterno” è accresciuta sia dalle forme frammentarie della dis-trazione sia dal rapido proliferare di stimoli nella moderna cultura di Weimar, quanto da una disposizione interiore in cui tutti i nuovi media della cosiddetta ‘confusione’ trovano corrispondenza:

«Si è banditi dalla propria vacuità verso una pubblicità estranea. Un corpo mette radici nell’asfalto e, insieme alle luminose rivelazioni dell’illuminazione, uno spirito, che non è diverso dal suo proprio – va errando incessantemente fuori dalla notte e nella notte… I manifesti fanno incursione nello spazio vuoto… si trascinano di fronte allo schermo [Leinwand], tanto arido quanto un palazzo sgomberato. E una volta che le immagini iniziano ad affiorare una dopo l’altra, nient’altro resta nel mondo della loro evanescenza. Si dimentica se stessi nell’atto di guardare, e il grande buco nero è animato dall’impressione [Schein] di una vita che non appartiene a nessuno ed esaurisce tutti».

Kracauer definisce questo vuoto interiore “noia”, un vacuum che fa spazio a uno schermo interno su cui proiettare una molteplicità di immagini esteriori. Questo senso di apertura ‘bucata’ procura quindi, come Kracauer fa notare “una sorta di garanzia per cui si è, per così dire, ancora in grado di controllare la propria esistenza, di fronte a una generale tecnicizzazione della vita.

(Traduzione dall’inglese di Claudia Ciardi)

From:
The Art of Taking a Walk: Flanerie, Literature and Film in Weimar Culture
Anke Gleber, Princeton University Press, 1999




Denkbilder der Moderne:
Kracauer, Benjamin, Bloch, Adorno


Denkbilder sind Figuren einer "anschaulichen Erkenntnis", die poetische Gestalt und reflexiven Gehalt literarischer Texte miteinander vermittelt. Bei Walter Benjamin und anderen Autoren im Umfeld der Frankfurter Schule bezeichnet das Konzept die Poetik modernistischer Miniaturen, die Erfahrungen in/mit der urbanen Massengesellschaft literarisch ausgestalten und kritisch reflektieren. Ausgehend von scheinbar marginalen Gegenständen und Alltagsphänomenen wie Achterbahnen oder Leuchtreklamen werfen die Texte zeitdiagnostische Blicke auf die gesellschaftliche Moderne – und entziehen sich zugleich in ihrer Komplexität jeder vereindeutigenden Lektüre. Im Seminar lesen wir literarische Denkbilder von Siegfried Kracauer (Straßen in Berlin und anderswo), Walter Benjamin (Einbahnstraße), Ernst Bloch (Spuren) und Theodor W. Adorno (Minima Moralia). Dabei geht es zunächst um die rhetorisch-poetische Textur dieser Miniaturen sowie um deren wiederkehrende Denkfiguren (Flanerie/Straßenrausch, Raumkrise/Exterritorialität, Eingedenken/Vergessen, Utopie/Melancholie, Lesbarkeit/Rätselcharakter u.a.), die wir in einem Verfahren des close reading herausarbeiten wollen. Darüber hinaus werden wir diese literarischen Texte exemplarisch auf einflussreiche theoretische Arbeiten der Autoren beziehen – Benjamins Passagen-Werk, Kracauers Ornament der Masse, Blochs Geist der Utopie und Adornos Ästhetische Theorie. Mit dieser vergleichenden Gegenüberstellung wollen wir versuchen, Schnittstellen und Differenzen zwischen literarischer Praxis und philosophisch-ästhetischer Kulturtheorie sowie zwischen den verschiedenen Poetiken des Denkbildes in den Blick zu bekommen.

Fonte: Peter Szondi Institut (FU)
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Was ist ein Flaneur? 
Der Typus des Flaneur in der Literatur wird von seinem früheren Ebenbild, dem Wanderer, abgeleitet, der die Natur durchstreifte und, an dem, was er dort beobachtete, seinen Gedanken und Gefühle artikulierte. Diese Tradition geht auf die germanischen Saga zurück, wobei sich niemals zur Ruhe zu setzen auch den Wandermönchen der Frühzeit als "Gottes Weg"galt. Auch im Deutschland des 17. Jahrhunderts scheint das Motiv der Lebenswanderung vielfach auf, wobei der Spaziergänger auf der ewigen Suche nach dem Weg in die eigene Existenz erscheint.
D
en Eingang in die Literatur fand er schließlich mit Edgar Allan Poes Erzählung "The man of the crowd" von 1838. Der Flaneur wird traditionell als männliches Wesen beschrieben, das als gut situierte Person mit bürgerlicher Kleidung und entweder dem Bürgertum aber auch oft dem Adel angehörig anonym, mit Vorliebe durch die Großstädte geht und schweigend beobachtet. Die Figur des Flaneurs ist aber von Anfang an weniger als reale Existenz denn als Manifestation einer Idee zu betrachten.

Claudia Taller 
Fonte/ Quelle: http://www.claudia-taller.at/flaneur-literatur.shtml




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As a member of the crowd that populates the streets, the flâneur participates physically in the text that he observes while performing a transient and aloof autonomy with a "cool but curious eye" that studies the constantly changing spectacle that parades before him (Rignall 112). As an observer, the flâneur exists as both "active and intellectual" (Burton 1). As a literary device, one may understand him as a narrator who is fluent in the hieroglyphic vocabulary of visual culture. When he assumes the form of narrator, he plays both protagonist and audience--like a commentator who stands outside of the action, of whom only the reader is aware, "float[ing] freely in the present tense" (Mellencamp 60).  The flâneur has no specific relationship with any individual, yet he establishes a temporary, yet deeply empathetic and intimate relationship with all that he sees--an intimacy bordering on the conjugal--writing a bit of himself into the margins of the text in which he is immersed, a text devised by selective disjunction. Walter Benjamin posits in his description of the flâneur that "Empathy is the nature of the intoxication to which the flâneur abandons himself in the crowd. He . . . enjoys the incomparable privilege of being himself and someone else as he sees fit. Like a roving soul in search of a body, he enters another person whenever he wishes" (Baudelaire 55). In this way the flâneur parasite, dragging the crowd for intellectual food--or material for his latest novel (Ponikwer 139-140). In so doing, he wanders through a wonderland of his own construction, imposing himself upon a shop window here, a vagrant here, and an advertisement here. He flows like thought through his physical surroundings, walking in a meditative trance, (Lopate 88), gazing into the passing scene as others have gazed into campfires, yet "remain[ing] alert and vigilant" all the while (Missac 61). The flâneur is the link between routine perambulation, in which a person is only half-awake, making his way from point A to point B, and the moments of chiasmic epiphany that one reads of in Wordsworth or Joyce. Like Poe’s narrators, he is acutely aware, a potent intellectual force of keen observation--a detective without a lead. If he were cast a character in the "drama of the world," he would be its consciousness.

Source:




Links:


Flaneur Society

Walter Benjamin – Bibliographie

Kracauer - Fragments. Cityscapes. Modernity

See also:

Paolo Zignani e Claudia Ciardi, I dilemmi della traduzione, «Quaderni corsari», giugno 2013

Grottesca di Claudia Ciardi su «Mumble»

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