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29 novembre 2013

Oriente-Occidente


«Che cosa è l’Oriente e che cosa è l’Occidente? Come possono due sostantivi come Tao e Dow (pron.: dao) diventare un facile gioco di parole e paradosso quando hanno lo stesso suono eppure sono così differenti nell’essenza? In cinese, Oriente-Occidente, come espressione di due parole unite insieme, significa “una cosa”, “un qualche cosa” – e forse “niente” del tutto»

Da Alan W. Watts, Il Tao. La Via dell’acqua che scorre, Ubaldini, 1977

«Asiens Atem ist jenseits»
«Il respiro dell'Asia è al di là»

Ingeborg Bachmann



oriente:
uno dei quattro punti cardinali, quello dove sorge il Sole (est); con significato più ristretto, la parte dell'orizzonte dove sorge il Sole.

Il termine indicava già negli autori dell'antichità classica le culture, le religioni, le lingue dei paesi asiatici in contrapposizione a quelle occidentali. Assunse valore politico-geografico più preciso quando l'Impero romano fu diviso in Impero d'O. e Impero d'Occidente e quando all'Europa cristiana venne a contrapporsi l'Impero ottomano, di religione islamica.
Dopo che i viaggi di Marco Polo rivelarono agli Europei l'esistenza del mondo cinese, che rientrava in un ambito culturale diverso, il termine o. si cominciò a usare in un altro significato, distinguendosi i paesi più lontani con il nome di Estremo O., e quelli che si affacciano al Mediterraneo, detti anche paesi del Levante o semplicemente Levante, con il nome di Vicino Oriente.

Diffusione limitata ha avuto la denominazione Medio O. con riferimento all'India e ai paesi vicini, mentre, a partire dal mondo anglosassone, si è progressivamente affermato l'uso di tale espressione per indicare i paesi dell'Asia occidentale, dalla Turchia all'Iran (o anche all'Afghanistan). Fin dal 1908 il geografo tedesco E. Banse propose di designare con il termine O. una delle grandi parti del mondo, vasta 17 milioni circa di km2, comprendente, oltre al Vicino O., anche l'Africa settentrionale e caratterizzata da somiglianza di clima, vegetazione, e inoltre anche da caratteri culturali comuni. In seguito, nella polemica politica e ideologica, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale (ma precedenti si erano avuti con accenni già nel 19° sec., all'epoca della guerra di Crimea, 1853), con il nome di O., senza altra specificazione, si è designata comunemente l'Unione Sovietica in contrapposizione all'occidente.

Source:
Enciclopedia Treccani

oriente - Come ‛ occidente ' (v.), o. per lo più è usato in senso generico, a indicare la parte dell'orizzonte dove sorge il sole, il balco d'orïente dell'Aurora (Pg IX 2), la plaga irraggiata e fatta ridente da Venere mattutina (I 20, XXVII 94), la parte del cielo ove, poco prima dell'alba, i geomanti (v.) vedono apparire delle stelle nelle quali possono scorgere la figura della loro Fortuna Maggiore (XIX 5).
Assume un significato metaforico e simbolico quando è designato come luogo di nascita di s. Francesco in sostituzione di Assisi (Ascesi, Pd XI 54). Un altro punto interessante in tal senso è quello in cui un'anima della valletta dei principi intona l'inno della sera ficcando li occhi verso l'oriente (Pg VIII 11).
In proposito il Buti commenta: «nome de' fare l'omo quando adora Iddio, che si de' volgere all'oriente: e però tutte le chiese antiche ànno volto li altari a l'oriente; ma ora, quando non si può commodamente fare, non v'è cura, imperò che Iddio è in ogni luogo».

Enciclopedia Dantesca (1970)
di Giovanni Buti-Renzo Bertagni (abstract)




occidente
[oc-ci-dèn-te]
A s.m. (pl. -ti)
1 Uno dei quattro punti cardinali, corrispondente alla parte dell'orizzonte in cui tramonta il sole
SIN. ponente, ovest
| CON. oriente
2 estens. Paese, zona e sim. localizzato verso occidente rispetto a un punto dato: l'o. dell'Europa
per anton. L'Occidente, il complesso delle popolazioni, la civiltà, la cultura dei paesi dell'Europa occidentale e del Nord America rispetto a quelli europei orientali e asiatici: la civiltà dell'Occidente; i problemi sociali dell'Occidente

B agg.
ant. e lett. Calante, che tramonta: giorno o. D'Annunzio

occidente - In senso storico e culturale, l'insieme dei popoli, delle civiltà, delle culture dei paesi occidentali, aventi caratteri e confini vari secondo le diverse epoche storiche in cui si affermò la coscienza di una contrapposizione fra O. e Oriente.
Dal 16° sec. con Oriente si intese designare tutti i territori sottoposti alla civiltà islamica, O. era invece il complesso degli Stati europei occidentali che si potevano ritrovare in una cultura e, sia pur in minor misura, in una religione comune. Con l'allontanamento dei Turchi dall'Europa, si affermò una concezione etico-politica per la quale i limiti culturali dell'O. venivano posti là dove era giunta a insediarsi, per due secoli e mezzo, con i Mongoli, l'influenza dell'Asia: grosso modo lungo la linea ideale che congiunge la foce del Dnestr con il Golfo di Riga e che segna i limiti storici della Russia verso ovest. A oriente di questa linea non si ebbe poi la feconda esperienza dell'Umanesimo e del Rinascimento, né il travaglio religioso messo in moto dalla Riforma, né il formarsi di una borghesia, così che la diversità culturale rispetto alla restante parte dell'Europa rimase per secoli determinante.
A partire dal 19° sec., la polemica politica e ideologica portò ad accentuare certi caratteri di unità dell'O. e la sua contrapposizione all'Oriente-Russia. La guerra di Crimea del 1853-56, per esempio, fu vista dalla pubblicistica del tempo come la contrapposizione fra un O. liberale e un Oriente assolutista. Questi atteggiamenti polemici rimasero in vita fino alla Prima guerra mondiale anche in relazione all'indirizzo panslavo della politica russa, prolungandosi nelle teorie linguistiche, geografiche, storiche dell'eurasismo, negli anni che precedettero e seguirono la Rivoluzione d'ottobre. Dopo la rivoluzione russa si accentuò la contrapposizione polemica e ideologica tra un O. capitalista e un Oriente socialista, contrapposizione giunta al culmine estremo dopo la Seconda guerra mondiale, con le rivoluzioni in Cina e in Indocina e con l'instaurazione dei regimi socialisti in Europa orientale (dopo il crollo di questi ultimi anche i paesi dell'Est europeo sono stati compresi nel concetto di Occidente).
Nel contesto attuale l'O. abbraccia un'estesa area che include le nazioni più ricche e industrializzate dell'Europa e dell'America, nonché l'Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e quei paesi accomunati, almeno idealmente, da determinate caratteristiche economiche e politiche: Stato di diritto, liberalismo, liberismo economico, multipartitismo, tutela delle libertà fondamentali (di espressione, di associazione ecc.), sentite come l'eredità della democrazia e del pensiero razionalista sviluppatisi principalmente attraverso le vicende storico-culturali dell'Illuminismo e delle rivoluzioni americana e francese.

Source:
Enciclopedia Treccani


Foto e elaborazione di Claudia Ciardi ©

Storie di circa due mesi fa tra occidente e oriente:

Conclusione relativa allo ‘shutdown’ statunitense, cioè la chiusura di tutti i servizi pubblici ritenuti non strettamente indispensabili:

Repubblicani e Democratici si sono affossati al Congresso Usa in una guerra di trincea sul bilancio e sul debito pubblico così furiosa da aver perso oramai di vista perfino le proprie motivazioni. Impossibile avere nostalgia di Roma: il leader democratico chiama i suoi avversari «banana republicans». Un senatore repubblicano gli risponde: «Urleremo così forte che alla fine ci dimenticheremo il perché». Senza motivazione realistica. Proprio come la sparatoria a Capitol Hill in cui giovedì ha perso la vita una donna che voleva sfondare con l'auto i cancelli della Casa Bianca e che è diventata la tragica rappresentazione di quanto avveniva nelle stesse ore dentro il Congresso.

Inseguendo la sua frangia più radicale, il partito repubblicano ha impedito un accordo sul bilancio e un aumento del tetto al debito pubblico, con l'obiettivo di protestare contro la riforma sanitaria di Obama ormai già attuata.

[…]

Tra le regole di funzionamento della democrazia c'è che i compromessi cominciano a prendere forma non appena uno dei due contraenti capisce che gli elettori non sono contenti di come sta conducendo il confronto. In effetti i sondaggi indicano che i repubblicani sono un po' più penalizzati dei democratici. Ma ogni giorno che passa sta dimostrando che – più che un partito rispetto all'altro - a perdere consensi è l'intero sistema democratico. Per questo la partita di Washington non è solo diversa da ogni precedente storico, ma è importante per capire il futuro incerto dell'Occidente.

Da «Il Sole 24 Ore» – Carlo Bastasin – 5 ottobre 2013
“La partita di Washington e il futuro dell'Occidente”

Contemporaneamente:

Teheran (Iran), 5 ott. (LaPresse/AP) - Alcuni aspetti del viaggio a New York di Hasan Rohani sono stati "non appropriati", ma è da sostenere la politica di apertura del presidente all'Occidente. Lo ha detto l'ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dell'Iran, sostenendo inoltre che gli Usa non sono "affidabili". I commenti sono stati riportati dal suo sito internet khamenei.ir e fanno seguito anche alle forti critiche giunte da alcuni oppositori della linea dura in seguito alla telefonata di 15 minuti tra lo stesso Rohani e il presidente Usa Barack Obama. Alcuni funzionari di spicco, tra cui comandanti della potente Guardia della rivoluzione, sostengono che Rohani sia andato troppo in là con le aperture a Washington.

Crisi economica e umana - Crisis económica y humana 

Così, quasi due mesi fa.
Eppure, a dispetto dei soliti disfattisti, l’accordo con l'Iran finalmente c’è e lo shutdown è accantonato.
Riprendo un mio testo del 2011, scritto mentre sbocciavano le primavere arabe. La traduzione in spagnolo è di un amico madrileno:

 Il difficile momento che stiamo vivendo in Europa e non soltanto qui, è certamente frutto di una grave crisi materiale e strutturale.
    Tuttavia questa constatazione non basta a spiegare l’arretramento complessivo dell’occidente, la stagnazione dei mercati, l’emergenza che va crescendo in tutta l’area mediterranea a seguito delle rivolte nei paesi arabi e la situazione ogni giorno più preoccupante in cui si trovano migliaia di profughi.

    Il drastico calo di produttività e risorse sono purtroppo un dato reale ma invocarle di continuo, senza difendere sul campo la possibilità e, quindi, la volontà di un’alternativa, rischia di amplificare in maniera rilevante gli effetti di questa crisi.
    Vengono in mente le parole di Walter Benjamin che tra il 1923 e il 1928, osservando gli effetti devastanti dell’inflazione sulla società tedesca, puntò il dito contro l’atteggiamento passivo e rinunciatario dei suoi concittadini.

«Nel patrimonio dei modi di dire in cui si tradisce ogni giorno la vita impastata di stupidità e di viltà del borghese tedesco, è particolarmente degno di nota il “così non si può andare avanti” riferito all’imminente catastrofe. Il goffo aggrapparsi alle idee di sicurezza e di possesso dei decenni passati impedisce all’uomo medio di cogliere i notevolissimi e affatto nuovi elementi di stabilità che stanno alla base della situazione attuale. […] Le popolazioni dell’Europa centrale vivono come gli abitanti di una città assediata cui vengano a mancare viveri e per i quali non sia umanamente prevedibile alcuna via di scampo»

    Rischiamo di essere vittime di un altrettanto simile abbaglio. Dalla crisi si esce restando lucidi, riconoscendo gli errori ma anche quel che di buono si può ancora salvare. Si tratta di gettar via le matrici difettose, quelle che hanno prodotto modelli e mentalità del tutto inservibili e chiusi alle nuove proposte.
    Ci vuole coraggio. Il coraggio di andare contro noi stessi e i nostri egoismi. Le generazioni, tutte, se non sapranno essere solidali tra loro avranno perso la sfida a cui sono ora chiamate.

Este difícil momento que estamos viviendo en Europa, y no solamente aquí, es en cierto sentido, consecuencia de una grave crisis tanto material como estructural.
    De todos modos, para realizar esta afirmación, no solamente basta con explicar la distancia de occidente, el estancamiento de los mercados, las urgencias que se multiplican en la zona mediterránea como consecuencia de las revueltas en los países árabes y la situación, cada día más preocupante, en la que se encuentran cada día milles de refugiados. Esta drástica caída de la productividad y recursos son, lamentablemente, un dato certero pero darle siempre culpa, pero sin aportar alternativas únicamente amplifica los efectos de esta grave crisis.

    Me vienen en mente las palabras de Walter Benajmen que entre 1923 y 1928, observando las devastadoras efectos que estaba causando la inflación en la sociedad germana, señalo como culpable a la actitud pasiva y conformista de sus conciudadanos :

    «en el patrimonio de los modos en los cuales se traiciona cada día la vida mezclada de estupidez y de cobardía del burgués alemán, y el particularmente digno de mención “así no se puede seguir” refiriéndose a la inminente catástrofe. El torpe acto de agarrarse a las ideas de seguridad y de posesión de los tiempos pasados impide al hombre medio de acoger nuevos elementos de estabilidad que giran en torno a la base de la situación actual. […] Las poblaciones de Europa central viven como los habitantes de una ciudad asediada a la cual le faltan víveres, y en la cual no hay, a la vista, alguna vía de escape»

    Nos enfrentamos a la posibilidad de ser víctimas de un error bastante parecido. De esta crisis solamente se sale permaneciendo lúcidos, reconociendo los errores pero, a su vez, identificando aquello que se puede salvar. Se trata de arrancar las malas hiervas que han producido estas consecuencias en el modelo y la mentalidad, inservible y cerrada, a las nuevas propuestas. Se necesita coraje, el coraje para ir contra nosotros mismos y contra nuestros egoísmos. Las generaciones, todas, si no saben ser solidarias entre ellas habrán perdido, sin lugar a dudas, el desafío que en este momento ha tocado en sus puertas.     

Texto: Claudia Ciardi
Traductor: Grigori Yefímovich

«Du sollst nicht töten»

Sulden - Nur wenige kennen den Nahen und Mittleren Osten so gut wie er. Seit Jahrzehnten bereist Autor und Publizist Jürgen Todenhöfer Kriegs- und Krisengebiete auf der gesamten Welt. In den vergangenen Jahren bereiste der Bestseller-Autor die Revolutionsschauplätze Ägypten, Libyen und Syrien sowie den Iran, Afghanistan und Gaza. In beeindruckenden Reportagen schildert er in seinem neuen Buch „Du sollst nicht töten – Mein Traum vom Frieden“ (C. Bertelsmann-Verlag) das Leben im Krieg und in der Revolution. Große Teile des Buches schrieb Todenhöfer in seiner urigen Berghütte in Sulden. An Sulden schätzt der ehemalige CDU-Bundestagsabgeordnete und Vorstandsmitglied des Burda-Medienkonzerns die Schönheit des Tals sowie die dort lebenden Menschen. Paul Hanny war es, der dem Deutschen Sulden näher brachte und unter dessen Leitung das Bauernhaus errichtet wurde. Todenhöfer, ein gebürtiger Offenburger, lebt heute – insofern er nicht auf Reisen ist – in München. derVinschger hat den 72-jährigen Autor in seiner Berghütte in Sulden, dort wo auch Michael Jackson einige Tage verbrachte, zu einem ausführlichen Gespräch getroffen.

Der Vinschger: Sie bereisten in den vergangenen Jahren mehrere Krisengebiete im Nahen Osten und erzählen davon in Ihrem neuen Buch, einem beeindruckenden Plädoyer gegen den Krieg. Seit über 50 Jahren halten Sie sich immer wieder in Kriegsgebieten auf. Was bewegt Sie dazu?
Jürgen Todenhöfer: Am Anfang, während des Algerien-Krieges in den 60er Jahren, war es die Neugier eines jungen Mannes, der in Paris studierte und wissen wollte, wie die Wahrheit aussieht. Bei meinen Reisen habe ich festgestellt, wie sehr die Menschen unter den Kriegen leiden und, dass das Leid der Zivilbevölkerung in den Reden der Politiker keine große Rolle spielt. Ich versuchte, das Schicksal der Zivilisten zu schildern. Wenn man Geschichtsbücher liest, geht es immer wieder um die großen Taten, die Erfolge und das Versagen von Politikern und Feldherren. Über die Zivilbevölkerung liest man fast nichts. Das war der Ansatz, mit dem ich versucht habe, Kriege zu verhindern – denn es geht nicht um Politiker, sondern um Menschen.
Segnalato dal blog Lettere dalla Germania

Große Landschaft bei Wein – Grande paesaggio nei dintorni di Vienna

Ingeborg Bachmann

Geister der Ebene, Geister des wachsenden Stroms,
zu unsrem Ende gerufen, haltet nicht vor der Stadt!
Nehmt auch mit euch, was vom Wein überging
auf brüchigen Rändern, und führt an ein Rinnsal,
wen nach Ausweg verlangt, und öffnet die Steppen!

Drüben verkümmert das nackte Gelenk eines Baums,
ein Schwungrad springt ein, aus dem Feld schlagen
die Bohrtürme den Frühling, Statuenwäldern weicht
der verworfene Torso des Grüns, und es wacht
die Iris des Öls über den Brunnen im Land.

Was liegt daran? Wir spielen die Tänze nicht mehr.
Nach langer Pause: Dissonanzen gelichtet, wenig cantabile.
(Und ihren Atem spur ich nicht mehr auf den Wangen!)
Still stehn die Räder. Durch Staub und Wolkenspreu
schleift den Mantel, der unsre Liebe deckte, das Riesenrad.

Nirgends gewährt man, wie hier, vor den ersten Küssen
die letzten. Es gilt, mit dem Nachklang im Mund
weiterzugehn und zu schweigen. Wo der Kranich
im Schilf der flachen Gewässer seinen Bogen vollendet,
tönender als die Welle, schlägt ihm die Stunde im Rohr.

Asiens Atem ist jenseits.

Rhythmischer Aufgang von Saaten, reifer Kulturen.
Ernten vorm Untergang, sind sie verbrieft, so weiß ichs
dem Wind noch zu sagen. Hinter der Böschung
trübt weicheres Wasser das Aug, und es will
mich noch anfallen trunkenes Limesgefühl;
unter den Pappeln am Römerstein grab ich
nach dem Schauplatz vielvölkiger Trauer,
nach dem Lächeln Ja und dem Lächeln Nein.

Alles Leben ist abgewandert in Baukästen,
neue Not mildert man sanitär, in den Alleen
blüht die Kastanie duftlos, Kerzenrauch
kostet die Luft nicht wieder, über der Brüstung
im Park weht so einsam das Haar, im Wasser
sinken die Bälle, vorbei an der Kinderhand
bis auf den Grund, und es begegnet
das tote Auge dem blauen, das es einst war.

Wunder des Unglaubes sind ohne Zahl.
Besteht ein Herz darauf, ein Herz zu sein?
Träum, daß du rein bist, heb die Hand zum Schwur,
träum dein Geschlecht, das dich besiegt, träum
und wehr dennoch mystischer Abkehr im Protest.
Mit einer andern Hand gelingen Zahlen
und Analysen, die dich entzaubern.
Was dich trennt, bist du. Verström,
komm wissend wieder, in neuer Abschiedsgestalt.

Dem Orkan voraus fliegt die Sonne nach Westen,
zweitausend Jahre sind um, und uns wird nichts bleiben.
Es hebt der Wind Barockgirlanden auf,
es fällt von den Stiegen das Puttengesicht,
es stürzen Basteien in dämmernde Höfe,
von den Kommoden die Masken und Kränze…

Nur auf dem Platz im Mittagslicht, mit der Kette
am Säulenfuß und dem vergänglichsten Augenblick
geneigt und der Schönheit verfallen, sag ich mich los
von der Zeit, ein Geist unter Geistern, die kommen.

Maria am Gestade –
das Schiff ist leer, der Stein ist blind,
gerettet ist keiner, getroffen sind viele,
das Öl will nicht brennen, wir haben
alle davon getrunken – wo bleibt
dein ewiges Licht?

So sind auch die Fische tot und treiben
den schwarzen Meeren zu, die uns erwarten.
Wir aber mündeten längst, vom Sog
anderer Ströme ergriffen, wo die Welt
ausblieb und wenig Heiterkeit war.
Die Türme der Ebene rühmen uns nach,
daß wir willenlos kamen und auf den Stufen
der Schwermut fielen und tiefer fielen,
mit dem scharfen Gehör für den Fall.


Spiriti della pianura, spiriti del fiume crescente,
invocati a contemplare la nostra fine,
non vi arrestate alle porte della città!
Portate con voi anche il vino che è traboccato
sopra le sponde sbrecciate, guidate ad un rivolo
chi cerca una via di scampo, e spalancate le steppe!

Laggiù intristisce lo scheletro nudo di un albero,
un volano s’ingrana, le trivelle soppiantano
la primavera, dinanzi a selve statuarie cede
il ripudiato torso della verzura, e nel paese
veglia un’oleosa iride sulle fontane.

Che importa? Noi non suoniamo più le danze.
Dopo lunga pausa: diradate le dissonanze, poco cantabile.
(E il suo respiro non avverto più sulle guance!)
Immobili sono le ruote. Tra polvere e pula di nuvole
trascina il mantello, che il nostro amore celava, la Ruota Gigante.

In nessun luogo come qui si avverte, prima
del primo bacio l’ultimo. Occorre
proseguire la via con l’eco in bocca,
e tacere. Dove la gru tra le canne
delle acque basse la sua parabola chiude,
l’ora batte nei giunchi per lei, più sonante dell’onda.

Il respiro dell’Asia è al di là.

Ritmica ascesa di semine, di civiltà mature,
di messi sull’orlo della rovina: se documentate,
so al vento narrarle ancora. Dietro il pendìo
Acqua più tenera intorbida l’occhio, e ancora m’assale
ebbro il senso del limes: sotto i pioppi
tra pietre romane scavo, cercando
la scena del lutto di tante nazioni:
sorrisi di consenso, e di rifiuto.

Ogni traccia di vita è passata nei giochi di costruzione,
la nuova miseria è alleviata dai sanitari,
nei viali il castagno fiorisce inodore,
l’aria non più assapora fumo di candele, alitano
deserti sul parapetto del parco i capelli,
il fondo dell’acqua raggiungono le palle sfiorate
da mani infantili, e incontrano
i morti occhi quelli azzurri di un tempo.

Innumerevoli sono i prodigi dell’incredulità.
Un cuore persiste tenace a essere un cuore?
Tu sogna di essere puro, leva la mano a giurare,
sogna il tuo sesso che ti vince, sogna eppure
respingi il distacco mistico nel contestare.
Con l’altra mano, fanno buona riuscita
cifre e analisi, che ti disincantano.
Quello che ti separa, sei tu. Defluisci
e saggio poi torna, in una nuova labile forma.

Precede l’uragano il sole che vola verso occidente:
due millenni sono trascorsi, e a noi non resterà nulla.
Il vento raccatta ghirlande barocche,
rotola per le scale la faccia del puttino,
bastioni precipitano dentro cortili in ombra
e giù dai canterani maschere e corone…

Sulla piazza soltanto, nel sole meridiano,
avvinta alla base della colonna, incline
all’attimo fuggente e alla bellezza votata,
mi separo dal tempo: un fantasma
tra fantasmi che avanzano.

Maria in Riva –
vuota è la navata, cieca la pietra,
nessuno è salvo, colpiti molti:
l’olio arde a stento, tutti
ne abbiamo bevuto – dov’è
il tuo lume eterno?

Così anche i pesci sono morti, sospinti
verso le grandi acque nere che ci attendono.
Ma noi trovammo foce da tempo, preda
del risucchio di altri fiumi, là dove
il mondo è finito e poca serenità regnava.
I campanili della pianura dicono a nostra lode
che involontaria fu la nostra venuta e sui gradini
cademmo della malinconia, sempre più in basso,
con lucido ascolto della caduta.

Traduzione di Maria Teresa Mandalari (Guanda, 2006)


Kazimir Malevich, Supremus n. 58, 1915-'16

15 novembre 2013

Flüchtlinge aus dem Osten - Profughi dell’est


Joseph Roth und der Osten



Fürst Geza – (in Ungarn setzt man den Vornamen nach den Familiennamen), und er heißt nur so dank einem launigen Schcksal, das Bettlern manchmal herrscahftliche Attribute beizulegen beliebt –, also eigentlich: Geza Fürst war in einem Budapester Kolonialwarengeschäft Lehrling seit seinem zwölften Lebensjahre. Als er sechzehn Jahre alt war, began die ungarische Räteherrschaft, und der Kolonialwarenladen wurde geschlossen. Infolgedessen ging Geza zur roten Armee.
Als die Reaktion in Ungarn ans Ruder kam, flüchteten Geza Fürst und seine Eltern in das von den Rumänen besetzte Gebiet Ungarns. Die Rumänen wiesen die Familie Fürst aus. Der Vater Fürst, ein jüdischer Schneidermeister, übersiedelte mit Frau, vier Töchtern, Schere, Elle, Zwirn, Nadel und seinem jüngsten Sohn Geza in die Slowakei.
Nach Budapest konnte der sechzehnjährige Geza, der ja in der rotten Armee gedient hatte, nicht zurück. Also kam er nach Berlin.
Nicht etwa, um in Berlin zu bleiben. Der Demobilmachungskommissar ließ es ja ohnehin nicht zu. Geza Fürst, der kaum Siebzehnjährige, will nach Hamburg. Auf ein Schiff. Als Schiffsjunge. Soll er etwa neuerlich in einem Kramladen kunstvolle Tüten drehn, Heringe bei steifen Schwänzen aus den Fässern ziehn und Rosinen hinter dem Ladentisch verschütten? Oder sich bei Armeen anwerben lassen? Geza Fürst will mit Recht auf ein Schiff. Sirenen tuten, weiße Kamine prusten Dampf, Schiffsglocken läuten, Matrosen abgeben. Er ist breit gebaut und dennoch von schon Grenzenlosigkeit und blaue Horizonte.
Nun kam Geza Fürst nicht nach Hamburg, weil er vorläufig keine Papiere hatte.
Geza Fürst schlief in einem Logierhaus in der Grenadierstraße. Dort machte ich seine Bekanntschaft. Ich lernte noch andere kennen. In diesem Logierhaus waren nämlich etwa hundertzwanzig aus dem Osten geflüchtete Juden untergebracht. Viele Männer waren geradewegs aus der russischen Kriegsgefangenschaft gekommen. Ihre Kleidung bildete eine groteske Monteurfetzeninternationale. In ihren Augen war tausendjähriges Leid zu sehen. Frauen waren da. Sie trugen ihre Kinder auf dem Rücken wie schmutzige Wäschebündel. Und Kinder, die auf krummen Beinen durch eine rachitische Welt krochen, knabberten an harten Brotrinden.

Es waren Flüchtlinge. Man kennt sie allgemein unter dem Namen «Die Gefahr aus dem Osten». Pogromangst schweißt sie zusammen zu einer Lawine aus Unglück und Schmutz, die, langsam wachsend, aus dem Osten über Deutschland rollt. Im Berliner Ostviertel staut sich ein Teil in größeren Klumpen. Wenige sind jung und haben gesunde Glieder wie Geza Fürst, der geborene Schiffsjunge. Fast alle sind alt, gebrechlich und gebrochen.
Sie stammen aus der Ukraine, Galizien, Ungarn. Hunderttausende sind zu Hause Pogromen zum Opfer gefallen. Hundertvierzigtausend fielen in der Ukraine. Überlebende kommen nach Berlin. Von hier aus wandern sie nach dem Westen, nach Holland, Amerika und manche nach dem Süden, nach Palästina.
Im Logierhaus riecht es nach Schmutzwäsche, Sauerkraut und Menschenmasse. Auf dem Fußboden lagern zusammengerollte Körper wie Gepäckstücke auf einem Bahnsteig. Ein paar alte Juden rauchen Pfeife. Die Pfeife stinkt nach verbranntem Horn. Kinderkreischen flattert in den Winkeln herum. Seufzer verlieren sich in den Ritzen der Dielenbretter. Einer Petroleumlampe rötlicher Schimmer kämpft sich mühsam durch eine Wand aus Rauch und Schweißdunst.
Geza Fürst aber hält es nicht aus. Er streckt die Hände in die ausgefransten Rocktaschen, pfeift sich eins und geht auf die Straße, frische Luft schöpfen. Morgen wird er vielleicht in dem ostjüdischen Obdachlosenasyl in der Wiesenstraße unterkommen. Wenn er nur Papiere hätte. Denn man ist sehr streng in der Wiesenstraße und nimmt nicht so ohne Weiteres jeden auf.
Im Ganzen sind 50.000 Menschen aus dem Osten nach dem Kriege nach Deutschland gekommen. Es sieht freilich aus, als wären es Millionen. Denn das Elend sieht man doppelt, dreifach, zehnfach. So groß ist es. Es sind mehr Arbeiter und Handwerker unter den Zugewanderten als Händler. Nach der beruflichen Gliederung sind 68,3 Prozent Arbeiter, 14,26 Prozent Lohnarbeiter und nur 11,13 Prozent freie Händler.
Sie können in keinem deutschen Betrieb untergebracht werden, obwohl die größte Gefahr nur dann besteht, wenn die Leute nicht arbeiten dürfen. Dann warden sie natürlich Schieber, Schmuggler und sogar gemeine Verbrecher.
Der Verein der Ostjuden in Berlin bemüht sich vergeblich, die Öffentlichkeit zu überzeugen, dass das Gesündeste die Verteilung der zugewanderten Arbeitskräfte auf den gesamten deutschen Arbeitsmarkt wäre. Aber selbst die Abschiebung der Leute begegnet Schwierigkeiten bei den Behörden. Statt allen jenen, die ein Ausreisevisum verlangen, sofort die Abreise zu ermöglichen, versucht die Behörde, die Erledigung der Ausreisegesuche in die Länge zu ziehen. Wochenlang sterben die Geflüchteten hier von der Mildtätigkeit der Mitmenschen, eh’ es ihnen möglich wird, das Weite zu suchen. Bis jetzt ist es zwölfhundertneununddreißig Personen gelungen, Berlin zu passieren, ohne hungers gestorben zu sein.

In der Wiesenstraße, in dem städtischen Asyl für Obdachlose, das eine Zeit lang geschlossen war, ist jetzt eine Unterkunftsstätte für geflüchtete Ostjuden geschaffen worden. Die Leute werden gebadet, desinfiziert, entlaust, gespeist, gewärmt und schlafen gelegt. Dann verschafft man ihnen die Möglichkeit, Deutschland zu verlassen. Es ist eines der segensreichsten Vorbeugungsmittel gegen die «Gefahr aus dem Osten».
Hie und da ist einer unter den Leuten, der Intelligenz und Unternehmungsgeist besitzt. Er wird nach New York gehen und Dollarprinz werden.
Vielleicht gelingt es Geza Fürst, nach Hamburg zu kommen und Schiffsjunge zu werden. Geza Fürst, der jetzt in der Grenadierstraße auf und ab geht. Hände in der Hosentasche, Rotgardist außer Dienst, Abenteuer und Seepirat in spe. Ich hörte ihn letzthin ein ungarisches Lied singen, das hatte folgenden Text: Ich und der Wind, wir beide sind gut Freund; kein Haus und kein Hof und kein Menschenkind, das um uns weint …

«Neue Berliner Zeitung», 12 – Uhr-Blatt, 20.10.1920

Michael Bienert, Joseph Roth in Berlin. Ein Lesebuch für Spaziergänger,
KiWi (Kiepenheuer & Witsch), 2010
   


Cover - KiWi ©


Fürst Geza – gli ungheresi mettono il nome di battesimo dopo il cognome – si chiama così solo grazie a un capriccio del destino, che qualche volta si diletta ad assegnare ai mendicanti titoli signorili; Geza Fürst, dunque, lavorava come apprendista per un negozio di generi coloniali a Budapest da quando aveva dodici anni. Quando ne compì sedici ebbe inizio il governo ungherese dei soviet e il negozio di generi coloniali venne chiuso. Così Geza si arruolò nell’Armata Rossa.
Dopo il trionfo della rivoluzione ungherese, Fürst Geza fuggì con i suoi genitori nei territori dell’Ungheria che erano occupati dai rumeni, i quali però cacciarono l’intera famiglia Fürst. Fürst padre, un maestro sarto ebreo, emigrò così in Slovacchia con moglie, quattro figlie, forbici, metro, filo da cucire, ago, nonché il figlio minore Geza. Il sedicenne Geza, poiché aveva servito l’Armata Rossa, non poteva fare ritorno a Budapest. Andò dunque a Berlino.
Non per rimanervi: il commissario della smobilitazione non glielo avrebbe in nessun caso concesso. Fürst Geza ha appena compiuto diciassette anni, vuole andare ad Amburgo e imbarcarsi come mozzo su una nave. Deve forse tornare a preparare buste di carta artigianali in una bottega? Tirare fuori dalle botti le aringhe con la coda rigida e versare uva passa sul bancone? Oppure lasciarsi arruolare nell’Armata? Fürst Geza vuole a buon diritto imbarcarsi su una nave: squillano le sirene, i camini bianchi sbuffano vapore, suonano le campane e il mondo non ha fine. Fürst Geza sarebbe un buon marinaio, ha spalle larghe e un corpo agile, e i suoi occhi verdi già vedono orizzonti sconfinati e l’azzurro infinito.
Tuttavia, Fürst Geza non è partito per Amburgo, poiché non aveva i documenti.
Dormiva in un dormitorio per i poveri nella Grenadierstrasse. Fu là che feci la sua conoscenza. Ne conobbi molti altri: in quella pensione erano alloggiati infatti circa centoventi ebrei fuggiti dall’est.. Molti uomini tornavano direttamente dalla prigionia russa; il loro abbigliamento costituiva una grottesca sfilata internazionale di divise stracciate. Negli occhi vi si leggeva una sofferenza millenaria. C’erano donne, portavano sulla schiena i loro figli come fagotti di biancheria sporca, e bambini che, provenienti da un mondo rachitico, si trascinavano su gambe storte sgranocchiando croste di pan secco.
Sono profughi. Si conoscono sotto il nome comune di ‘pericolo dell’est’. La paura dei pogrom li tiene insieme come una valanga di infelicità e fango, che, crescendo piano piano, arriva rotolando dall’est attraverso la Germania. Una parte di loro si è fermata in grandi gruppi nel quartiere orientale di Berlino. Ce ne sono di giovani con corpi sani, come Geza Fürst, il marinaio nato. Ma quasi tutti sono vecchi, deboli, disfatti.
Vengono dall’Ucraina, dalla Galizia, dall’Ungheria. Centinaia di magliaia sono stati vittime di pogrom in casa propria. Quattrocentomila sono morti in Ucraina. I sopravvissuti arrivano a Berlino. Da qui volgono a occidente, verso l’Olanda, l’America, e alcuni verso il sud, in Palestina.
Il dormitorio odora di corpi umani ammucchiati, di biancheria sporca e crauti. Sul pavimento si accampano persone come bagagli sulla pensilina di una stazione. Un paio di anziani ebrei fuma la pipa. La pipa puzza di corno bruciato. Si sentono strilli di bambini tutt’intorno. I sospiri si disperdono tra le fessure delle assi del pavimento. Il chiarore rossastro di una lampada a petrolio lotta con fatica per farsi varco attraverso un muro di fumo e sudore.
Geza Fürst non ne può più. Infila le mani nelle tasche sfilacciate della sua giacca e fischiettando se ne va in strada per respirare un po’ di aria fresca. Forse domani troverà un alloggio all’asilo per gli ebrei dell’est senzatetto nella Wiesenstrasse.
Se solo avesse i documenti. Perché nella Wiesenstrasse sono molto severi, e non accolgono chiunque si presenti.
In tutto sono 50.000 le persone che dall’est sono venute in Germania dopo la guerra. Ma a dire il vero sembrano milioni, poiché la miseria appare doppia, tripla, decuplicata, tanto è grande. Tra gli immigrati ci sono più operai e artigiani che commercianti. Secondo le statistiche sull’impiego per il 68,3 per cento sono operai, per il 14,26 lavoratori salariati e solo l’11,13 è costituito da liberi commercianti. Non possono essere collocati in nessuna azienda tedesca, sebbene il pericolo maggiore venga proprio dal non permettere alla gente di lavorare. Allora diventano, com’è ovvio, spacciatori, contrabbandieri e persino criminali comuni. L’associazione degli ebrei dell’est a Berlino si impegna inutilmente per convincere l’opinione pubblica che la miglior soluzione sarebbe la ripartizione della forza lavoro degli immigrati sull’intero mercato del lavoro tedesco. Ma persino l’espulsione di queste persone incontra difficoltà da parte dell’amministrazione. Invece di autorizzare la partenza immediata a tutti quelli che richiedono un visto di uscita, le autorità si ingegnano a prolungare il processo di richiesta di espatrio. Per intere settimane i profughi si sfiniscono così stando dietro alla carità del prossimo per riuscire a prendere il largo. Fino ad ora ce l’hanno fatta milleduecentonovantatre persone a passare per Berlino senza prima morire di fame.

Nella Wiesenstrasse, nell’asilo cittadino per i senzatetto, che per un certo tempo è rimasto chiuso, è stato creato ora un alloggio per gli ebrei profughi. La gente viene lavata, disinfettata, spidocchiata, alimentata, riscaldata e messa a letto. Poi viene data loro la possibilità di lasciare la Germania. È una delle più utili misure preventive contro ‘il pericolo dell’est’.
Di quando in quando capita qualcuno tra di loro che possiede intelligenza e spirito d’iniziativa: andrà a New York e diventerà miliardario.
Forse a Geza Fürst riuscirà di andare ad Amburgo e diventare un mozzo. Geza Fürst che ora va su e giù per la Grenadierstrasse, mani in tasca, guardia rossa fuori servizio, e forse futuro avventuriero e pirata dei mari. Di recente l’ho sentito canticchiare una canzone ungherese: io e il vento siamo buoni amici, né una casa né un cortile né un figlio spargono una lacrima per noi…

Joseph Roth, A passeggio per Berlino,
a cura di Vittoria Schweizer,
Passigli Editori, 2010



Cover - Passigli Editori ©


Il grazioso volumetto edito da Passigli propone per la prima volta in traduzione italiana delle Berliner Bilder stese da Joseph Roth, quando si aggirava per le strade della metropoli in qualità di corrispondente dei numerosi giornali che vi si stampavano. La scrittura berlinese restituisce uno spaccato di vita quotidiana in Germania che ha un profondo valore documentale, catturando sguardi, mode, drammi, che si alternarono a ritmi vertiginosi tra gli anni Venti e Trenta sulla scena della Grande Città. “Figure e sfondi” frutto dei capricci della storia, poco più che manichini di cera destinati a soccombere alle bizzarrie del tempo, «spettrali e insieme corporei», per citare l’inizio del Panoptikum, dove lo scrittore non mancherà di recuperare questa grottesca qualità duale che assimila uomini e cose. Maschere effimere e tuttavia struggenti nel loro mondo di fantasticherie e repentini rovesci, attori che di lì a poco sarebbero scomparsi, come la maggior parte dei luoghi che li avevano tenuti a battesimo. Il libro contiene anche una cospicua sezione di note che aiutano a collocare i singoli brani nell’orizzonte culturale in cui hanno visto la luce. Quest’opera non può che impreziosire la biblioteca di qualsiasi appassionato di Roth e di storia di Berlino.

(Di Claudia Ciardi)



Marc Chagall - Il violinista sul tetto

9 novembre 2013

Disoccupazione e rivolta – Arbeitslosigkeit und Revolte


I congressi sulla disoccupazione, del 1906 a Milano e del 1910 a Parigi, di estremo interesse, sono rivelatori di un grave problema, che sarebbe stato almeno in parte risolto solo dopo l’esperienza, anche in questo discriminante, della Grande Guerra. I convegni degli anni Dieci infatti rivelano una grave sproporzione fra le analisi, la massa di informazioni, la rete di relazioni messe in campo, già consistenti, e la fragilità delle ipotesi di soluzione almeno parziale dei problemi prodotti dalla disoccupazione in termini di reddito e di qualificazione del lavoro. […] Negli anni Venti, il cosiddetto “biennio rosso” italiano, gli episodi rivoluzionari in Germania, gli scioperi di massa in Francia ebbero la caratteristica comune di varcare la soglia della fabbrica e violarne la sacralità in quanto proprietà privata. Tali forme diverse di radicalizzazione erano accomunate dall’occupazione fisica del luoghi di lavoro durante gli scioperi. D’un colpo la questione dell’occupazione diventava una questione di distribuzione del lavoro esistente e di autocontrollo della prestazione. […]
La disoccupazione è emersa come problema autonomo e specifico insieme a molti altri che rispondono a codici, problemi e gruppi sociali diversi ma connessi: il controllo del corpo, del tempo, l’imposizione della rispettabilità attraverso l’introiezione del risparmio, della previdenza e dei diritti del mercato o il contrario, la libertà dei corpi dalla servitù dell’incidente e della malattia precoce, la disposizione libera del tempo di vita attraverso la riduzione contrattuale e legale degli orari, la libertà dall’ansia del risparmio inutile perché divorato dagli imprevisti, e sostituito dal versamento agli organismi del miglioramento e della resistenza.
La disoccupazione come problema autonomo, insomma, può emergere solo quando il diritto alla continuità del reddito e dell’attività lavorativa hanno cominciato ad affermarsi contrattualmente prima, e poi giuridicamente. Ma tutti questi elementi convergono in un percorso che possiamo così delineare. Lo Stato sociale nasce, come dimostra la precocità dell’esperienza tedesca, da esigenze di polizia amministrativa, ma cambia radicalmente – o meglio cambiano i modi in cui esso si manifesta – nella svolta del XX secolo quando per la prima volta – oggi sappiamo che questa svolta non è necessariamente né permanente né definitiva – la condizione di lavoratore si distingue da quella di povero. Certamente questa distinzione comporta l’accettazione di una qualche forma di produttivismo non priva di compromissioni, in alcune culture politiche, con aspetti del darwinismo sociale. Ma rappresenta anche l’ingresso delle speranze e dei progetti di molti lavoratori, di cui gli stessi riformatori “dall’alto” devono tenere conto.

Sources:

Maria Grazia Meriggi, La disoccupazione come problema sociale. Riformismo, conflitto e “democrazia industriale” in Europa prima e dopo la Grande Guerra, Franco Angeli, Milano, 2009
Sulla mobilitazione industriale in Italia e il suo effetto nei rapporti fra lavoratori, governo e imprenditori si veda:
 Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Bulzoni, Roma, 1999
Luigi Tomassini, Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, a cura di Giovanna Procacci, Franco Angeli, Milano, 1983

Francisco Goya - Viejos comiendo sopa. Óleo sobre muro trasladado a lienzo
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Cominciando da una definizione


Già le società preindustriali conoscevano persone prive di un lavoro remunerato per un periodo determinato o indeterminato e perciò senza mezzi di sostentamento; erano la moltitudine dei poveri (Pauperismo), il cui destino era ritenuto legato alla volontà divina o imputabile all'incapacità del singolo. Nei loro confronti venivano prese le più svariate misure, che andavano dalla beneficenza ai lavori forzati. Attorno alla fine del XIX sec. le condizioni di vita nelle regioni industrializzate subirono importanti trasformazioni. Da un lato il diffondersi del lavoro salariato e l'urbanizzazione resero sempre più complicato il ricorso alla solidarietà fam. in situazioni di emergenza; dall'altro, il Movimento operaio, in forte crescita, sollevò la questione dello status quo denunciandone gli abusi. Ciò indusse la Politica sociale, soprattutto a partire dal decennio 1880-90, a differenziare le cause che conducevano alla Povertà; malattia, incidente, età e disoccupazione trovarono così il dovuto riconoscimento sociale. Il termine "disoccupazione", spesso accompagnato dagli aggettivi "reale" o "involontaria", si diffuse a partire dal periodo compreso tra il 1880 ca. e la prima guerra mondiale, quando diversi Paesi cercarono, con alterni risultati, di definirlo. Dalla fine del decennio 1870-80 i disoccupati, che in precedenza avevano rivendicato un aiuto collettivo solo in maniera occasionale, promossero dimostrazioni e raduni (ad esempio a Ginevra, Berna, Zurigo e Basilea) e riuscirono in questo modo a conferire al loro stato la dimensione di un problema sociale permanente. I comitati di soccorso, creati da cittadini filantropi con il sostegno crescente della mano pubblica, non furono però mai in grado di porre una distinzione netta fra i disoccupati in senso stretto e gli altri poveri. Secondo le autorità e le org. operaie, erano soprattutto gli aiuti agli alcolizzati e ad altri perdigiorno a danneggiare la reputazione dei disoccupati involontari. Solo l'adozione di criteri più precisi da parte dell'Assicurazione contro la disoccupazione, in via di diffusione, e le azioni di sostegno nel periodo tra le due guerre resero possibile una chiara distinzione. Ancora oggi, tuttavia, la disoccupazione costituisce un settore della politica sociale su cui convergono molte più contestazioni rispetto a categorie quali l'età, la malattia o l'incidente.

La disoccupazione si manifesta soprattutto in quattro forme. La disoccupazione strutturale risulta da profonde trasformazioni del sistema economico ed è caratterizzata da lavoratori che, colpiti dal declino di un settore, non trovano occupazione per molto tempo a causa di qualifiche professionali specifiche o per mancanza di alternative occupazionali nella regione, come ad esempio durante il periodo fra le due guerre nel settore del ricamo nei dintorni di San Gallo o nel 1970 nell'industria orologiera della Svizzera occidentale.

La disoccupazione congiunturale è provocata da recessioni o crisi economiche e giunge spesso massiccia e inaspettata. In Svizzera colpisce inizialmente l'economia di esportazione, poi i settori che le sono strettamente legati. Questa forma è quella che coinvolge di gran lunga il maggior numero di persone contemporaneamente; è perciò principalmente contro di essa che si rivolgono le disposizioni di politica sociale quali la creazione di occasioni di lavoro e le riforme delle assicurazioni o altro.

Un terzo tipo di disoccupazione è quella stagionale, che spec. in passato colpiva in inverno soprattutto il ramo delle costruzioni e del turismo, dipendenti dalle condizioni meteorologiche. Per questo motivo i comitati di soccorso che operavano a cavallo del XVIII e XIX sec. limitavano le loro attività ai mesi freddi. Con il trascorrere del tempo tuttavia questa forma di disoccupazione ha perso importanza a causa di nuove procedure e abitudini. Mentre nel periodo 1920-24 il tasso di disoccupazione del mese di febbraio superava del 64% quello di luglio, nell'ultimo decennio del XX sec. il divario si è sensibilmente ridotto. Dal tardo XIX sec. inoltre, la partenza degli Stagionali in inverno alleggerisce ulteriormente il mercato del lavoro.

La disoccupazione frizionale ricoprì un ruolo importante fino alla prima guerra mondiale. Fra due impieghi, gli artigiani itineranti trascorrevano spesso un periodo di inattività, mentre la stessa attività industriale era colpita da fluttuazioni considerevoli.

Source:
Dizionario storico della Svizzera
Historisches Lexikon der Schweiz



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What was the unemployment rate in Germany after the 1st world war?

1919: 5%
1926: 10%
1932: 30%

Germany's Weimar Republic was hit hard by the depression, as American loans to help rebuild the German economy now stopped. Unemployment soared, especially in larger cities, and the political system veered toward extremism. The unemployment rate reached nearly 30% in 1932. Repayment of the war reparations due by Germany were suspended in 1932 following the Lausanne Conference of 1932. By that time Germany had repaid 1/8th of the reparations. Hitler's Nazi Party came to power in January 1933.

1919-1928: Under the Treaty of Versailles, Germany must give up territory (and population) and pay reparations. War debt, reparations, and reckless printing of money cause crippling hyperinflation in the postwar years, while unemployment remains high through the '20s. The onset of the Depression ends a slight recovery. Government spending increases to 25 percent of GDP between the wars, up from 15 percent.

1929-1932: Depression in the United States prompts creditors to call in their loans to Germany. Unemployment rises to nearly 30 percent in 1932. Budget cuts designed to convince the Allies Germany was suffering too much to pay reparations do lead to a moratorium, but also cause misery and discontent, which in turn fuels the Nazi rise to power.

1933-1938: With the Nazis in power, subsidies boost industries tied to arms and self-reliance. Unemployment is almost zero, but wages are low, and foreign reserves shrink to fund expansion. Unlike Japan, Germany does not limit consumer goods, and rearmament is not yet fully planned. In 1936 Hitler urges Germany to be ready for war by 1940 through a Four-Year Plan that sets production quotas."
Source and further information:

Germany experienced hyperinflation in 1923 and chronic high unemployment throughout the 1920's as a result of the inability of the governemtn to cope with the problems of Germany effectively. When the unemployment rate jumped in 1930 as a result of the onset of the Great Depression the support for the Weimar Republic drained away.

The carefully thought-out social and political legislation introduced during the revolution was generally unappreciated by the German working classes. The two goals sought by the government, democratization and social protection of the working class, were never achieved. This has been attributed to a lack of pre-war political experience on the part of the Social Democrats. The government had little success in confronting the twin economic crises following the war.

The permanent economic crisis was a result of lost pre-war industrial exports, the loss of supplies in raw materials and foodstuffs from Alsace-Lorraine, Polish districts and the colonies along with worsening debt balances and reparations payments. Military-industrial activity had almost ceased, although controlled demobilisation kept unemployment at around one million. The fact that the Allies continued to blockade Germany until after the Treaty of Versailles did not help matters, either.

From:
Answer Bag

The Great Depression in Germany

Germans were not so much reliant on exports as they were on American loans, which had been propping up the Weimar economy since 1924. No further loans were issued from late 1929, while American financiers began to call in existing loans. Despite its rapid growth, the German economy was not equipped for this retraction of cash and capital. Banks struggled to provide money and credit; in 1931 there were runs on German and Austrian banks and several of them folded. In 1930 the US, the largest purchaser of German industrial exports, put up tariff barriers to protect its own companies. German industrialists lost access to US markets and found credit almost impossible to obtain. Many industrial companies and factories either closed or shrank dramatically. By 1932 German industrial production was at 58 per cent of its 1928 levels. The effect of this decline was spiraling unemployment. By the end of 1929 around 1.5 million Germans were out of work; within a year this figure had more than doubled. By early 1933 unemployment in Germany had reached a staggering six million.

The effects this unemployment had on German society were devastating. While there were few shortages of food, millions found themselves without the means to obtain it. The children suffered worst, thousands dying from malnutrition and hunger-related diseases. Millions of industrial workers – who in 1928 had become the best-paid blue collar workers in Europe – spent a year or more in idleness. But the Great Depression affected all classes in Germany, not just the factory workers. Unemployment was high among white-collar workers and the professional classes. A Chicago news correspondent in Berlin reported that “60 per cent of each new university graduating class was out of work”.

[…]

The Weimar government failed to muster an effective response to the Depression. The usual response to any recession is a sharp increase in government spending to stimulate the economy – but Heinrich Bruning, who became chancellor in March 1930, seemed to fear inflation and a budget deficit more than unemployment. Rather than ramping up spending, Bruning decided to increase taxes to reduce the budget deficit; he then implemented wage cuts and spending reductions, an attempt to lower prices. Bruning’s policies were rejected by the Reichstag – but the chancellor was backed by president Hindenburg, who in mid-1930 issued his policies as emergency decrees. Bruning’s measures failed and probably contributed to increased unemployment and public suffering in 1931-32. They also revived government instability and bickering between parties in the Reichstag.

The real beneficiary of the Great Depression and Bruning’s disastrous policy response was Adolf Hitler. With public discontent soaring, membership of the NSDAP grew to record levels. In September 1930 the NSDAP increased its representation in the Reichstag almost tenfold, winning 107 seats. Two years later they won 230 seats, the most won by any single party during the entire Weimar period. Hitler found the failures and misery of the Great Depression to his liking, remarking: “Never in my life have I been so well disposed and inwardly contented as in these days. For hard reality has opened the eyes of millions of Germans.”

Source: 
Alpha History

See also:
The German Unemployed: Experiences and Consequences of Mass Unemployment from the Weimar Republic to the Third Reich
Richard J. Evans, Dick Geary
Croom Helm, 1987


Hieronymus Bosch (detail)


Segnaliamo il reportage di «Internazionale» n. 1017 sul mercato del lavoro in Germania. L’articolo è uscito poco prima delle elezioni tedesche tenutesi nel settembre 2013. In parallelo faccio notare la copertina di «Der Spiegel», sulla politica ‘poco mossa’ della Merkel; il numero è anche interessante perché, come si vede dal titolo evidenziato in rosso in alto a sinistra, contiene l’inchiesta sui big data raccolti dall’NSA, che ha fatto scoppiare nelle settimane successive lo scandalo sullo spionaggio mondiale.
Tra flessibilità che si traduce in un precariato sempre più selvaggio e soluzioni di dubbia efficacia targate “mini-job”, i dati ufficiali sull’occupazione in Germania, aiutati da certa propaganda giornalistica confezionata nei paesi mediterranei, nascondono molte realtà problematiche di cui si può avere un’idea più profonda solo passando un po’ di tempo nel paese della Cancelliera.

Certo, parliamo di una nazione  “virtuosa” dal punto di vista amministrativo, che sa fare sistema in maniera più efficace dei suoi colleghi sud europei. Se il mercato del lavoro in Italia è al collasso, oltralpe si riesce ancora a respirare. Tuttavia, anche la Germania, come il vecchio continente in cui è inserita, risente gli effetti diretti e indiretti di una prolungata recessione che non accenna a mollare la presa. L’Europa e i suoi mercati sono da tempo febbricitanti e delle tanto annunciate misure per la crescita non si vede neanche l’ombra. Per quanto riguarda l’Italia a questo bisogna aggiungere un buon trentennio di immobilismo politico, una corruzione endemica, un’offerta formativa discutibile che negli ultimi anni ha perso più di un treno rispetto agli standard di preparazione delle generazioni più giovani negli altri paesi del continente ed extracontinentali. Ciò è più che sufficiente a giustificare il tormentone dell’ ‘italiano in fuga’ che ormai impazza in tutti i media; non c’è articolo o esperienza di viaggio che non cominci con questo adagio, un po’ scontato ormai, e pure spiacevole, perché dimostra la resa di un popolo che sfugge ai suoi problemi interni, raccontando a se stesso che ‘fuori’ è tutto molto meglio. Ma ci vedo anche un atteggiamento un po’ furbetto, abbastanza tipico in Italia, che si può sintetizzare così: “magari io ce la faccio; gli altri vedano loro”.
Quando si è fuori, si è stranieri, e ‘fuori’ non esiste nessun paese dei balocchi. L’Europa è quello che è, non cresce e non decide. Vivere in Germania non è facile. Il paese offre ancora risorse ed è capace di metterne in campo molto più che da noi (qui bisognerebbe aprire la voragine dei Diktate conditi di austerity che hanno aiutato le casse nordiche ma non voglio entrare nel merito della questione e comunque sono dell’idea che la Germania in parte ha ragione a esigere dai paesi mediterranei più correttezza e l’avvio delle riforme strutturali). Tuttavia, anche nel Nord si percepisce qua e là un lassismo preoccupante. L’impressione che ho avuto nella mia recente esperienza di viaggio pre-elettorale è più o meno questa: lasciamo che la barca segua la corrente; non abbiamo al momento problemi interni, ci preoccupano un pochino quelli che abbiamo attorno, ma faremo la voce grossa e tutto filerà liscio.
Quando sono salita in macchina del mio amico berlinese, che mi ha fatto da guida nei quartieri ovest della capitale, tra il villaggio della FU e le zone residenziali che orbitano attorno all’università, ho passato il tempo del viaggio letteralmente appiccicata al vetro. In strada era un continuo susseguirsi di cantieri: case orribili, una all’altra uguali fino allo sconforto, un tempo alloggi delle forze di occupazione, che adesso vengono ristrutturate nell'ambito di affrettati piani di privatizzazione. E tanti nuovi appartamenti, tirati su quasi con noncuranza. Chi ci lavora sembra farlo per tenersi occupato in qualcosa, per dimostrare a se stesso che la crisi non c’è, che le persone, nonostante quel che si dice, hanno fame di case perché, appunto, Berlino è una delle mete dell’europeo in fuga. Verrebbe da dire: qui tutto va bene. Si pensa a costruire, non c’è nessuna emergenza sociale all’orizzonte, tutto appare calmo e ovattato, inflazione è una parola espunta del dizionario, chi la pronuncia di sicuro non ci sta con la testa: in un supermercato tedesco si compra a prezzi che l’Italia ormai non ricorda più. Eppure i problemi che agitano il continente producono come un rumore di fondo che irrompe nella pace di questi vialetti e si unisce a quello ben più vicino dei martelli pneumatici in azione.
Una sera, davanti a un tè speziato, seduti a un tavolo all'aperto di Steglitz, quando il quartiere è finalmente calmo, l'aspetto dei casermoni appare leggermente più umano, i viali a scorrimento veloce sono meno trafficati, il mercato chiuso, leggiamo un po’ svogliati i giornali. Manca qualche settimana alle elezioni ma il dibattito è fiacco, quasi inesistente. A un tratto punzecchio il mio amico: «Voterete in massa la Merkel». Alza la testa, mi guarda un attimo per capire cosa volessi insinuare, e poi butta lì, senza scomporsi: «Non c’è alternativa».  
Le lamentele berlinesi e germaniche sono abbastanza note (caratteristica condivisa con gli italiani, che tuttavia danno al lamento un aspetto più teatrale ed esibito) eppure stavolta, confrontandomi di tanto in tanto con i miei interlocutori, pendolari del treno, impiegati che la mattina percorrono di corsa le 'vie della City' a Friedrichstrasse, proprietari di chioschi in quartieri-dormitorio, ho percepito in città un calo di entusiasmo, nel complesso un senso di stanchezza del cittadino medio tedesco. E per quanto mi riguarda un’inquietudine della vita nella metropoli più che raddoppiata.
Quello che voglio dire è che la Germania di adesso mi ha abbastanza delusa. La frenesia ‘alimentare’ del cemento, l’idea di costruire a ogni costo, l’ipertrofia progettuale mi hanno restituito un'immagine vuota. Pare quasi che questo forzato attivismo sia investito del compito di celare la stasi che attanaglia molti settori vitali della società tedesca. Fatto salvo il fascino letterario e culturale della ‘mia’ Berlino che in me è tutto particolare e scorre su un binario parallelo, non ho trovato nessuna assonanza, nessuna vera empatia con la quotidianità che ho esplorato. Gli anni della recessione picchiano duro anche qui, anche se di rimbalzo, e si avverte una lenta disfatta, pericolosa perché incolore e inodore ma se uno ha l’occhio allenato, e soprattutto, al di là del bene e del male, ama questo luogo, non può non coglierla.
Di accidia si può anche morire. In politica le conseguenze  possono essere disastrose. E per l’intera classe politica europea, questo è un rischio concreto. Negli ultimi cinque anni dalla Germania mi sarei aspettata più coraggio e molta meno propensione alla contabilità. Far quadrare i conti è nobile cosa e necessaria ma c’è bisogno ancor più di una leadership forte, in grado di ispirare e segnare una rotta nell’interesse comunitario. Questo paese dovrebbe sfruttare i margini di vantaggio che ha non per arroccarsi (e arrochirsi) ma per assumere il ruolo di cinghia di trasmissione di tutte quelle energie che il vecchio continente può mettere in campo per provare a riaccendere i motori.

(Di Claudia Ciardi)


                                       Hieronymus Bosch (detail)

Links:

DRadio-Nachrichten (9. November)

In questo blog: Novemberrevolution

November Group/ Novembergruppe (Germany, 1918)

Erika Mann: la donna del 9 novembre (un bel post dedicato da Berlin&Out a una figura artistica straordinaria)

Arbeitslosigkeit im Weimarer Republik/ La disoccupazione cambiò la storia

Revolte in Krisenzeiten von Stefan Sauer (Berliner Zeitung/ Juni 2013)

Georg Heym - I silenti (segnalazione di Luca Buonaguidi sul suo blog "Caruso Pascoski")
https://carusopascoski.wordpress.com/2013/11/07/georg-heym-i-silenti/