Pagine

30 aprile 2016

Metropole Berlin (I)





Circumnavigando l’uscita secondaria della stazione di Schöneberg, ingentilita dai tavolini all’aperto del ristorante italiano che invadono prontamente il piccolo slargo nelle giornate di sole, si risale per una stradina all’apparenza tranquilla dove un calzolaio, sempre in pieno sole, lavora su un panchetto tra la soglia del suo negozio e il marciapiede. E se si alza lo sguardo capita di vedere un paio di piedi spuntare da un davanzale, forse qualcuno che si gode la siesta ai primi caldi. Io mi immagino già un lettore incallito o un musicista con qualche tic. Sotto un palo della luce una piantina, imbracata con mezzi di fortuna, veglia i passanti. Sul vaso si legge, non senza sforzo, l’invito a dedicarle qualche cura. E come si fa, là sopra? Opera di un briccone, il tipo del davanzale? Ormai lo penso come un paio di piedi che trafficando in completa autonomia hanno provveduto a tutto. Non ci sarebbe da stupirsi.
Un altro slargo con panchine, e la musica cambia. Addio, caro artigiano, apparizione fuori tempo di una via laterale, addio alla tua testa china di radi capelli rossicci che ti incoronano morbidamente la nuca. Addio a quel silenzioso compare, che con l’altera devozione di un rabbino, in piedi davanti a te, non stacca lo sguardo dalle tue mani. Ora è tutto un corteo di vecchi, faccia scavata e fronte bassa, che scrutano astiosi chi gli sfila di fronte e con avida curiosità le minigonne delle ragazze. Qualcuno si lascia scappare un grugnito, più per quel che vorrebbe avvistare e che con altrettanta inesorabile pervicacia gli si sottrae. Le belle passanti navigano veloci, troppo veloci perché le loro voglie tarde riescano a andare a segno. È gente povera del quartiere e raramente sembra aver visto cose diverse da questo incrocio di strade. Se ne rimangono lì per ore, simili a statue di sale, si tollerano poco perfino tra loro, infastiditi dalla reciproca esibizione delle proprie miserie. C’è una chiara impudenza che accompagna il loro vivere quotidiano e li accomuna, ma ognuno vorrebbe esserne il detentore indiscusso. Ognuno al centro di un suo regno, tiranno e schiavo del proprio temperamento bilioso, allora sì riuscirebbe a compiacersi di ciò che è, non visto, non esautorato, per dire, dagli altri. Così in mezzo all’asfalto, invece, il singolo appare interamente condannato. 
Intorno guizzano senza posa i bottegai turchi. Alcuni salmodiando sul marciapiede il nome delle loro mercanzie, altri agitandosi furtivi dietro i banconi, ombre taciturne e quasi inavvicinabili. Superate le botteghe-bazar, sulla prima grande arteria a scorrimento veloce, s’incontra la Hauptstraße, altra affollata patria mediorientale. Una vecchia, con un turbante scolorito in testa, trascina un carrello pieno di lattine. Cerca qualcuno che le paghi il giusto per quella paccottiglia e nel frattempo impreca in un tono sordo che scade nel lugubre. Dice qualcosa riguardo suo figlio, a quanto pare non se la passa niente bene, e spera così di procurarsi più in fretta un acquirente. L’alternanza tra cantilena pietosa e bestemmie è un contrasto troppo singolare per non restarne scossi. Man mano che la donna viene avanti, l’oscillare pauroso del turbante sembra un monito a farsi da parte. Un occhio saettante ripiegato tra i lembi consunti della stoffa, un’animazione pronta a scatenare la tempesta attorno a sé, fendere i marosi, incenerire gli importuni, e far queste e altre cose diaboliche in appena uno schioccare di dita. Quel suo dio ritorto e sonnacchioso come un serpente ne incardina i movimenti, dandole una specie di autorevolezza e gettando su di lei l’inquieto incanto dei derelitti. 
Dietro un banco di frutta un uomo non giovane né vecchio con la barba lunga e un giacchettaccio nero da asceta della metropoli ripete in continuazione “Respekt”. Non si capisce con chi ce l’abbia. Intorno non c’è nessuno, e il banco incagliato sulla via somiglia a un altare miracolosamente scampato alla furia che ha distrutto il suo tempio. Capita di vedere qui ogni genere di commercio, e più che in altri quartieri si assiste a una colorita dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Che per l’appunto è l’arte di maggior successo tra quante si coltivano nelle grandi città. Una volta, a Torino, credo di aver assistito a una delle sue espressioni più bizzarre. Ero in stazione da diverse ore, in attesa di una coincidenza che tardava. Non potendone più di fare la spola tra la caffetteria e la sala d’aspetto, mi accoccolai sulle poltroncine all’aperto nello spazio centrale. Ci misi un po’ a realizzare che intorno a me fioriva uno smercio in grande stile di giornali abbandonati dai viaggiatori. Sulle prime non capii il motivo dei balzi improvvisi di chi mi sedeva intorno. A ogni nuovo arrivo, qualcuno scattava a salutare il capotreno e lestamente prelevava la mercanzia dalle carrozze. Ogni tanto si avvicinava anche qualche pendolare «Come te la passi? Ce l’hai il Corriere di oggi?» ma venivano anche perfetti sconosciuti che subito entravano in confidenza con gli edicolanti improvvisati. Mi sfilò sotto il naso tanta di quella stranezza che ancora non saprei spiegarla. A un certo punto un giovane disteso dietro di me che faceva la guardia ai giornali, si sollevò sui gomiti, e rivolto a un suo chiamiamolo compagno d’avventura: «Tutto è possibile, se quello lassù mi libera dalla pigrizia». Giuro che non ci ho capito nulla. Quando li lasciai seguitavano a impilare i quotidiani che da ogni dove affluivano in stazione. Un rumore continuo di carta strofinata, passata di mano in mano, che a ogni ora serrava le fila. Poi, diciamo così, un cliente, poi una corsa al binario e il capotreno che qualche volta veniva fin lì a dare un’occhiata. Scambio di convenevoli, caffè offerti da una parte e dall’altra. Io che fingevo di leggere ma non mi perdevo neppure una sillaba, né mi facevo scappare il benché minimo gesto. E intanto da quell’andare cadenzato scaturiva una forma di ipnotismo, la più ignobile, perché fondata su un abuso d’incomprensione.  
Nulla di paragonabile però alle stranezze del meticciato berlinese, umanità varia e sfuggente, avvezza a molte e incomprensibili cose e di cui non esiste alcun prototipo – com’è fatto un berlinese, chi ormai può essere considerato, sotto un profilo fisico, l’emblema del prussiano di città? Scrutate le facce della gente in strada e la risposta vi morirà in bocca. [...]

(Di Claudia Ciardi - prima parte)

14 aprile 2016

Intervista a «La Nuova Ecologia» (FIMA)


Proseguiamo la discussione in tema di energia e difesa dell’ambiente avviata insieme a Riccardo Bottazzo, direttore di «EcoMagazine». Grazie alla cortese disponibilità di Marco Fratoddi, giornalista e formatore, direttore di «La Nuova Ecologia», il mensile di Legambiente, segretario generale della FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali), rilanciamo l’importanza di partecipare al referendum sulle trivellazioni che interessano le nostre coste. Non solo perché si tratta di un momento in cui si esprime la libera volontà dei cittadini, e che quindi va tutelato con ogni mezzo, ma anche perché siamo di fronte a un passaggio democratico fondamentale che chiama in causa il modo stesso di impostare le politiche energetiche del paese. 
La Federazione presieduta da Fratoddi ha lanciato proprio in questi giorni un appello, che invitiamo a leggere e divulgare, sulla necessità di un giornalismo ambientale impegnato e indipendente. Lo scandalo che ha travolto il Ministero dello sviluppo economico sugli illeciti nella gestione degli impianti lucani esorta a non abbassare la guardia e a fare molto di più per una corretta informazione.
Cosa di cui si è avvertita invece tutta la carenza, addirittura con inviti espliciti a disertare il voto da parte di esponenti governativi o attraverso una descrizione fallace del quesito referendario che fino a ieri è stato descritto come “il nulla”. Mi auguro che il Presidente Mattarella sanzioni pubblicamente atteggiamenti di questo tipo che in una fase già di per sé complessa per le istituzioni democratiche, aiutano scientemente a disaffezionare ancora di più l’elettorato e tendono a espropriare il cittadino dall’esercizio di un diritto che la politica ha il compito, semmai, di difendere con ogni mezzo.
L’ambientalismo è una cultura imprescindibile se si desidera formare davvero una cittadinanza consapevole e attiva, che dunque non può non essere investita del compito di vigilare sulle risorse del proprio territorio, il quale veicola l’identità del popolo che lo occupa. È un pensiero formulato con chiarezza dall’articolo 9 della Costituzione. Tutela del paesaggio, protezione del territorio e degli ecosistemi che ospita, conservazione delle riserve idriche, per l’Italia divengono una strategia fondamentale, non di regresso come molti vorrebbero far credere, ma di sviluppo.
Ci auguriamo che la stanchezza e il disorientamento, cavalcato con opportunismo da chi nasconde altri interessi, non facciano abbassare la guardia su argomenti che influiscono in modo diretto sulla qualità di vita dei singoli, come individui e collettività.   

Qui la precedente intervista a Riccardo Bottazzo per «EcoMagazine»

Qui la battaglia dei comitati del Vallo di Diano per la difesa delle falde acquifere contro i pericoli delle trivellazioni






Tra disinformazione e appelli a disertare le urne, ci avviamo a un appuntamento elettorale molto importante. In ballo la tutela del nostro mare e del nostro territorio, oltre alla possibilità di pronunciarci sul modo di impostare e gestire la politica energetica nel paese. Quale appello rivolge ai cittadini perché vadano a votare?

Il referendum del 17 aprile è un’occasione da non perdere sia per ripristinare una regola giusta, quella che prevedeva la cessazione delle attività estrattive alla scadenza delle concessioni, inspiegabilmente rimossa con un emendamento all’ultima Legge di Stabilità, sia per sostenere una più rapida evoluzione del nostro modello energetico verso le rinnovabili: la vittoria del sì fermerà l'espansione delle concessioni già attive all’interno delle 12 miglia a tutela dei nostri mari e rappresenterà un importante segnale di accelerazione dell’Italia verso un’economia oil free, quella più innovativa e dinamica su scala globale.

Un filone della recente inchiesta sugli impianti in Basilicata riguarda il traffico illecito di rifiuti. L’impatto ambientale delle attività estrattive è di per sé affatto trascurabile, anche quando siano osservate tutte le normative vigenti in materia. Se a tale pratica si aggiunge il dolo, le conseguenze su ambiente e persone rischiano di essere pressoché irreparabili. Alla giustizia non resta che intervenire coi suoi mezzi, che nel caso italiano significano tempistiche altrettanto dolosamente lunghe, e ciò non rassicura certo la popolazione. Fintanto che non sia garantita un’efficace vigilanza su illeciti e abusi di potere, cose che l’idea di profitto purtroppo favorisce, è forse legittimo chiedere la sospensione di queste attività. Qual è la vostra idea?

Come dimostra il rapporto “Sporco petrolio” di Legambiente i processi a carico delle compagnie petrolifere finiscono quasi sempre in prescrizione, gli interessi in gioco sono notevoli e spesso le amministrazioni locali impreparate a misurarsi con i colossi del greggio sia sul piano dei controlli, sia su quello della regolarità procedurale. Sospendere complessivamente le attività estrattive personalmente mi sembra velleitario ma bisogna accelerare la riconversione verso l’efficienza e le rinnovabili, anche nel campo dei trasporto permettendo che il biometano sia immesso nella rete Snam per la distribuzione del gas: potrebbe soddisfare il 13% del fabbisogno nazionale, oltre il quadruplo di quanto garantiscono le piattaforme oggetto del referendum. Sarà il mercato a rendere obsolete le attività estrattive, nel frattempo occorre rafforzare il sistema pubblico dei controlli per fornire ogni certezza alle comunità locali su quanto avviene negli impianti: la riforma del sistema Arpa, comunque si evolvano le indagini a Viggiano, rappresenta una priorità.

Gli interessi di Total e Shell verso il nostro paese non sono nuovi. Dal ’97 a oggi gli abitanti della Valle del Diano, riuniti in un comitato di difesa delle risorse idriche del territorio, sono stati impegnati in un duro testa a testa a colpi di perizie e cause in tribunale. Spesso si accusano questi movimenti di essere organizzazioni animate da pressappochismo e arretratezza, mentre leggendo le carte relative ai rischi corsi dai luoghi interessati dalle perforazioni, si ha lo spaccato di un paese che punta i piedi perché i rischi oggettivamente corsi non valgono il guadagno. L’Italia è un paese a forte sismicità e dove i problemi legati al dissesto idrogeologico si manifestano con particolare frequenza. I cittadini sono chiamati, credo, a opporsi fortemente a impiantare qualsiasi attività non consideri questi due aspetti, che determinerebbero una catastrofe di ampie proporzioni e la morte dei territori coinvolti. Non se ne parla mai abbastanza: i tratti geologici del nostro ambiente richiedono un occhio di riguardo. Cosa si sente di dire al riguardo?     

L’Italia è un paese intrinsecamente fragile, indebolito dal consumo di suolo e minacciato sempre più spesso da fenomeni meteorologici estremi innescati dal cambiamento climatico. Anche il rischio di terremoti non si puo sottovalutare, qualche anno fa abbiamo pubblicato all'interno di un’inchiesta su «La Nuova Ecologia» la cartina dei siti industriali a rischio d’incidente rilevante e quella delle zone a più elevata attività sismica notando come molte di queste coincidano. Per di più molte di queste attività sono anche causa di patologie per le comunità locali, a prescindere da eventuali emergenze. Ma le ragioni per andare oltre l'industria del Novecento sono anche altre, bisogna costruire un'economia più equa e adeguata alla sfida del clima, che valorizzi la morfologia del paese anziché sottoporla a pesanti stress.

L’estensione della nostra penisola non le permette di sopportare attività così invasive quali trivellazioni a 4000-5000 metri di profondità per estrarre gas e idrocarburi. Conformazione, orogenesi, limitatezza di spazi disponibili non possono essere ignorate. Ci affacciamo inoltre su un mare con un ricambio delle acque imparagonabile rispetto a quello che interessa gli oceani. Volendo fare un raffronto, anche in virtù di un territorio assai più vasto del nostro, gli Stati Uniti possono gestire una politica energetica diversa in materia di energia, sebbene io credo che il graduale abbandono del petrolio sia una tappa a cui nessuno nel breve riuscirà a sottrarsi. Le carte da giocare per il nostro sviluppo sono dunque nel monitoraggio e nella valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche. Voglio dire, il clima ci benedice da secoli. Perché scambiare un inquinamento certo, per una vocazione aiutata dalla natura del nostro ambiente?

È una domanda che ci facciamo in molti, peraltro diversi indicatori confermano come il paese reale si stia muovendo verso un'economia a basso tenore di carbonio, sia nel settore manifatturiero, dove crescono gli investimenti in tecnologie green, sia in altri ambiti che interpretano la vocazione all’accoglienza e alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali del nostro paese, alla gastronomia sana e tipica, alla produzione culturale: sono i veri giacimenti dell’Italia, immaginare un futuro centrato sulle fonti fossili e sull’industria energivora ci porterebbe lontano dalle nostre specificità. La politica fatica a certificare questi processi, è in ritardo come lo è sempre le grammatica rispetto alla lingua effettivamente utilizzata dalle persone e infatti anche negli stili di vita, lo conferma un recente sondaggio di «Lifegate», vediamo prepotentemente avanzare scelte e comportamenti virtuosi come l’utilizzo di soluzioni leggere nella mobilità, vedi la bicicletta o il car sharing a flusso libero, l’interesse verso l’autoproduzione o la filiera corta alimentare, l’attitudine alla differenziata programmata in modo capillare. Ma se questo ritardo non si colma, anzi aumenta, rischiamo di frustrare queste potenzialità e anche di vanificare molte esperienze d’avanguardia in campo economico, penso in particolare al recupero di materia, vedi l’esperienza del consorzio Contarina nel trevigiano, su cui avremmo molto da insegnare all’estero.

Oggi il connubio tra tecnologie, saperi e ricerche nel settore dell’agronomia permette una resa della terra più elevata che in passato. In questi anni impietosi di crisi economica, la terra è stata inoltre un rifugio per chi è rimasto senza occupazione o per chi un’occupazione la stava cercando per la prima volta. Molti i giovani che hanno preferito investire in attività agricole. Le risorse idriche rivelano pertanto la loro natura strategica, mentre l’attività estrattiva ne minaccia la sussistenza per le future generazioni. Si tratta secondo me di scegliere cosa vogliamo essere, anche e soprattutto per i nostri figli. Non sarebbe ora di ribadire con forza che tutelare l’ambiente non è affatto un moto umano regressivo, ma semmai l’opzione più attuale di cui disponiamo?

Anche l’agricoltura è al centro d’importanti processi d'innovazione che guardano verso la logica multifunzionale: alla coltivazione e all'allevamento si aggiunge la vendita diretta e poi l’accoglienza, la produzione di energia da fonti rinnovabili, tutte attività che si possono ben integrare con la produzione agroalimentare. L’agricoltura di precisione apre scenari ulteriori che modernizzano le pratiche efficientando l’utilizzo delle risorse, acqua compresa. Qui come altrove è in atto una competizione, forse un vero e proprio conflitto fra modelli alternativi: a prescindere dal risultato che emergerà dalle urne credo che la campagna referendaria rappresenti comunque un momento per avanzare culturalmente verso la società low carbon

(Intervista a cura di Claudia Ciardi)
  

10 aprile 2016

Intervista a «EcoMagazine»


L’unica certezza con cui ci avviciniamo al referendum del 17 aprile è la scarsissima informazione aggravata e rilanciata dalla dissuasione al voto. Quest’ultimo aspetto è il più amaro, dal momento che l’astensionismo ha segnato in negativo le ultime tornate elettorali, e semmai dovrebbe allarmare l’intera classe politica. Il calo dell’affluenza tradisce un salto genetico della democrazia, purtroppo cavalcato dalle forze della maggioranza. Oggi l’elettorato si configura sempre più come qualcosa di scomodo. Lo si riduce a strumento destabilizzante e con ciò si disconosce pericolosamente l’innesto di rappresentanza nelle istituzioni di cui è l’unico legittimo portatore, il che costituisce per l’appunto la base dei nostri ordinamenti. Grazie all’inchiesta sulle attività estrattive in Basilicata, i riflettori sono tornati ad accendersi. E tuttavia il principio non mi soddisfa: senza indagati, senza la testa di un ministro, che sono di per sé fatti eclatanti, destinati ad avere una grande risonanza, quali elementi avrebbe avuto il cittadino per interrogarsi sul merito della questione energetica? Ben pochi.   
La solita vulgata dell’ambientalista nemico del progresso sarebbe entrata in circolo più indisturbata di quanto non sia accaduto nelle ultime settimane. Resta il fatto che solo le inchieste avviate sui centri di Viggiano e Tempa Rossa, hanno determinato un’informazione di rimbalzo attorno a un tema che non è per nulla contingente, ma implica il nostro modo di impostare le politiche energetiche nell’immediato futuro; anche questo di per sé è dolo e dovrebbe far riflettere.
Di sicuro la transizione alle rinnovabili non può avvenire con uno strappo immediato rispetto alle fonti di energia, per così dire, tradizionali. Sarebbe irragionevole pensarlo. Però, occorre fare un paio di precisazioni, affatto accessorie. La prima è che tutto quello che risulti essere lesivo per il territorio e la salute pubblica, sia oggetto di indagini serrate, e qualora il danno sia inequivocabilmente provato, si proceda a immediata sospensione e condanna di ciò che lo determina. La seconda, ancor più importante della prima perché la giustizia ha sì carattere riparatorio ma non potrà sanare le cose alla radice, è scegliere ciò che vogliamo per il nostro futuro. Votare è in tal senso l’unica garanzia.
Pronunciarsi con chiarezza affinché la strada sia quella dettata da un approvvigionamento che contempli il più basso impatto ambientale, questo siamo tenuti a farlo. E bisogna farlo adesso. La politica è l’unico strumento di cui disponiamo per influire sul corso della storia, per dare alle nostre vite quel carattere di impegno solidale e collettivo a cui ogni generazione è chiamata. La tutela del nostro ambiente e delle risorse che possiede ne è un tratto essenziale. Basta riprendere in mano la Costituzione italiana. L’articolo 9 pone al centro il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, essendo due aspetti inalienabili su cui si basa l’identità dei suoi abitanti: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
L’Italia possiede risorse idriche strategiche. Nostro compito è tutelarle e porle al riparo da qualsiasi opera minacci di comprometterle. L’acqua si avvia a essere nel medio termine più importante del petrolio, specie in un paese come il nostro di estensione geografica limitata e dove la produttività agricola è una voce di grande peso nell’economia interna e a livello di esportazione. Il clima ci benedice, sperperare questa fortuna è follia. Invito a rileggere lo studio del geologo Franco Ortolani sulla Vallo del Diano, nel Cilento, luogo che dal 1997 suscita gli appetiti delle compagnie petrolifere straniere. I rischi strutturali legati alla conformazione del territorio ne metterebbero in discussione la sopravvivenza, qualora si trivellasse e nel contempo occorresse un evento sismico o la ancor più probabile rotazione del suolo, caratteristica di quelle zone, come di molte altre in Italia. Qui il collegamento: Caso petrolio-Vallo di Diano
Da noi, reperire risorse nel sottosuolo terrestre o marino, è l’equivalente di cercare a tentoni un oggetto in una cristalleria lasciata al buio. La probabilità di urtare qualcosa e danneggiarlo senza rimedio è elevatissima. La differenza è che ciò che distruggiamo dove viviamo, non costituisce solo deturpamento estetico, ma significa la perdita di quanto ci permette di sopravvivere. Tutelarci è un invito al buon senso.
Ne parliamo con Riccardo Bottazzo, direttore della rivista «EcoMagazine», osservatorio sui conflitti ambientali, impegnato in tema di informazione, conservazione e monitoraggio. Invito alla lettura di questa testata chiunque non la conosca e voglia tenersi aggiornato sugli argomenti toccati nella nostra discussione.



Tra disinformazione e inviti a disertare le urne, ci avviamo a un appuntamento elettorale molto importante. In ballo la tutela del nostro mare e del nostro territorio, oltre alla possibilità di pronunciarci sul modo di impostare e gestire la politica energetica nel paese. Quale appello rivolgete ai cittadini perché vadano a votare?

Ai cittadini chiediamo di rimettere in gioco lo stesso entusiasmo e lo stesso slancio che hanno evitato al Paese di cadere nella trappola del nucleare e ci hanno permesso di contrastare la privatizzazione dell’acqua. Oramai, più che il voto, sono i referendum che aprono spazi alla democrazia partecipativa, svilita da una rappresentanza parlamentare che, per lo più, non rappresenta più nulla. La portata del quesito referendario va ben al di là del quesito stesso, proprio come è avvenuto in tutti i casi precedenti. Non si tratta però di un Sì o un No al Governo Renzi, come qualche politico malaccorto sta cercando di sostenere, ma non è neppure un referendum sul mantenimento delle piattaforme dopo le scadenze, pur importante al fine di difendere il nostro mare. Chi sbarrerà la casella del Sì chiederà al Governo di cambiare la sua attuale, e perdente, politica energetica per intraprendere la strada delle alternative ai combustibili fossili. Come, d’altra parte, lo stesso Governo si è impegnato - ma solo a parole sino ad ora - sottoscrivendo l’accordo di Cop21. 

Un filone della recente inchiesta sugli impianti in Basilicata riguarda il traffico illecito di rifiuti. L’impatto ambientale delle attività estrattive è di per sé affatto trascurabile, anche quando siano osservate tutte le normative vigenti in materia. Se a tale pratica si aggiunge il dolo, le conseguenze su ambiente e persone rischiano di essere pressoché irreparabili. Alla giustizia non resta che intervenire coi suoi mezzi, che nel caso italiano significano tempistiche altrettanto dolosamente lunghe, e ciò non rassicura certo la popolazione. Fintanto che non sia garantita un’efficace vigilanza su illeciti e abusi di potere, cose che l’idea di profitto purtroppo favorisce, è forse legittimo chiedere la sospensione di queste attività. Qual è la vostra idea?

C’è lo spazio per la Giustizia e c’è quello per la politica. Nel nostro Paese, spesso tendiamo a confondere i due ambiti di intervento. La magistratura ha i suoi tempi. Io sono di Venezia e mi sono occupato del caso Mose. Ci sono voluti vent’anni e più, perché i magistrati scoperchiassero quella pentole di malaffare, tangenti e devastazioni che gli ambientalisti denunciavano sin dall’inizio! Ma ancora oggi il Mose va avanti, pur se oramai è chiaro a tutti che è solo una macchina mangiasoldi inutile, anzi devastante, ai fini di difendere gli equilibri della lagune e capace solo di dirottare denaro pubblico nella mani di faccendieri privati, non di rado in odor di mafia. Il problema sta nel fatto che la magistratura può mandare in galera qualche corrotto, ma spetta alla politica decidere se proseguire o no con l’opera, e, in generale, come intervenire per tutelare l’ambiente. Magari seguendo i consigli di quella strana cosa. da tutti dimenticata in Italia, che si chiama “scienza”. 
Le estrazioni petrolifere rischiano di ripetere questa storia. Che poi è la storia di tutte le grandi opere. Sospendere l’attività estrattiva in attesa di sentenze certe della magistratura, e ripensarla sotto un’ottica diversa e più ambientalista, che non sia quella di favorire i grandi interessi finanziari o quelli familiari di chi è al potere, sarebbe non solo legittimo ma anche intelligente e democratico. 

Gli interessi di Total e Shell verso il nostro paese non sono nuovi. Dal ’97 a oggi gli abitanti della Vallo di Diano, riuniti in un comitato di difesa delle risorse idriche del territorio, sono stati impegnati in un duro testa a testa a colpi di perizie e cause in tribunale. Spesso si accusano questi movimenti di essere organizzazioni animate da pressappochismo e arretratezza, mentre leggendo le carte relative ai rischi corsi dai luoghi interessati dalle perforazioni, si ha lo spaccato di un paese che punta i piedi perché i rischi oggettivamente corsi non valgono il guadagno. L’Italia è un paese a forte sismicità e dove i problemi legati al dissesto idrogeologico si manifestano con particolare frequenza. I cittadini sono chiamati, credo, a opporsi fortemente a impiantare qualsiasi attività non consideri questi due aspetti, che determinerebbero una catastrofe di ampie proporzioni e la morte dei territori coinvolti. Non se ne parla mai abbastanza: i tratti geologici del nostro ambiente richiedono un occhio di riguardo. Cosa vi sentite di dire al riguardo?

In Italia oramai sta diventando vietato fare la cosa giusta. I processi ai No Tav, la militarizzazioni di cantieri devastanti per il territorio ma considerati alla stregua di “siti di interesse nazionale”, neanche fossero caserme, i linciaggi mediatici anche alle semplici opinioni come nel caso dello scrittore Erri De Luca, lo dimostrano. Chi difende il suo territorio da una politica economica oramai agli sgoccioli, costretta per tirare avanti a mercificare ambiente, beni comuni e diritti, rischia la galera per “terrorismo”. E come succede agli ambientalisti, anche gli esperti che sottolineano, dati alla mano, i rischi per l’ambiente vengono messi alla berlina con infondate accuse di arretratezza e di non capire le esigenze di uno “sviluppo” che, come ci suggerisce Serge Latouche, va sempre scritto tra virgolette! 
Per venire alla tua domanda, “cosa vi sentite di dire al riguardo”, agli ambientalisti e a chi ha a cuore il nostro paese, risponderei con il testo della canzone No Surreder di Bruce Springsteen. Non arrendetevi. Se l’umanità avrà un futuro, sarà quello che noi sapremo costruire. E sarà un futuro che mette al primo posto la difesa dell’ambiente e la tutela dei beni comuni. Il futuro scritto sui conti panamensi della grande finanza sta dalla parte sbagliata della storia. 

L’estensione della nostra penisola non le permette di sopportare attività così invasive quali trivellazioni a 4000-5000 metri di profondità per estrarre gas e idrocarburi. Conformazione, orogenesi, limitatezza di spazi disponibili non possono essere ignorate. Ci affacciamo inoltre su un mare con un ricambio delle acque imparagonabile rispetto a quello che interessa gli oceani. Volendo fare un raffronto, anche in virtù di un territorio assai più vasto del nostro, gli Stati Uniti possono gestire una politica energetica diversa in materia di energia, sebbene io credo che il graduale abbandono del petrolio sia una tappa a cui nessuno nel breve riuscirà a sottrarsi.
Le carte da giocare per il nostro sviluppo sono dunque nel monitoraggio e nella valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche. Voglio dire, il clima ci benedice da secoli. Perché scambiare un inquinamento certo, per una vocazione aiutata dalla natura del nostro ambiente?

Non c’è un perché. Non ci sono risposte a questa tua domanda. Il capitale ha solo una regola: quella di massimizzare il profitto. Questa sola segue e altro non guarda. Il discorso «vale la pena consumare le nostre ricchezze paesaggistiche e naturali (di tutti) per estrarre qualche barile di petrolio (privato)» può avere un senso per me e per te, ma non per la finanza che punta a monetizzare subito e tutto quello che è – e anche quello che non sarebbe – monetizzabile. Non c’è un futuro cui il capitale debba tener da conto. Non ci sono generazioni future alle quali pensare. Questo compito spetterebbe alla politica. Ma tocca scrivere al condizionale perché oggi la politica ha demandato le sue competenze all’economia. Oggi la politica è attaccata su tutti i fronti. È considerata sporca, inutile, personale, fonte di guadagni illeciti. Adesso, non dubito che per certi “politici” sia proprio così, ma il punto non è questo. La politica è lo strumento con il quale esercitiamo la democrazia. Chi scende in piazza, chi occupa i cantieri, chi difende l’ambiente anche con azioni forti, fa politica e rivendica democrazia contro un potere oramai tutto relegato nelle mani di una economia che tira avanti a furia di shock, per ricordare Naomi Klein. In questo senso, il tuo discorso va rovesciato. Un ipotetico disastro petrolifero, specie in una area a forte valore ambientale e artistico, andrebbe tutto a vantaggio di una economia che si nutre di disastri. 

Oggi il connubio tra tecnologie, saperi e ricerche nel settore dell’agronomia permette una resa della terra più elevata che in passato. In questi anni impietosi di crisi economica, la terra è stata inoltre un rifugio per chi è rimasto senza occupazione o per chi un’occupazione la stava cercando per la prima volta. Molti i giovani che hanno preferito investire in attività agricole. Le risorse idriche rivelano pertanto la loro natura strategica, mentre l’attività estrattiva ne minaccia la sussistenza per le future generazioni. Si tratta secondo me di scegliere cosa vogliamo essere, anche e soprattutto per i nostri figli. Non sarebbe ora di ribadire con forza che tutelare l’ambiente non è affatto un moto umano regressivo, ma semmai l’opzione più attuale di cui disponiamo?  

Sono d’accordo naturalmente. I molti “giovani che hanno preferito investire in attività agricole”, come scrivi, hanno capito quello che i nostri governanti non hanno capito, oppure preferiscono non capire: il domani, il futuro dei nostri figli, non sarà legato alle attività estrattive e, in generale, ai combustibili fossili. Non è solo una questione di opportunità. Mi spiego: preferire l’acqua al petrolio (perdona la semplificazione) non è solo una scelta atta a favorire quello che al momento conviene. È l’unica scelta possibile per salvare il pianeta da una svolta epocale: quella dettata dai cambiamenti climatici. A Parigi, così come nelle precedenti Cop, è stato ribadito ancora una volta che il mondo sta cambiando e che, se vogliamo che la Terra sopravviva, non abbiamo altra scelta che imprimere alla nostra economia una sterzata decisa verso le rinnovabili, così come verso il riciclo, il riuso, una limitazione decisa dei consumi, e un drastico cambiamento dei nostri stili di vita. Tutto ciò passa anche attraverso il referendum del 17 aprile. Quella domenica ricordiamoci di andare tutti a votare e poi mettiamoci tranquilli che avremo tante, tante altre battaglie da fare!

(Intervista a cura di Claudia Ciardi)

5 aprile 2016

Paul Gauguin - Racconti dal paradiso



Interno del Mudec di Milano


L’esposizione dedicata a Paul Gauguin dal Mudec di Milano, conclusa lo scorso febbraio, presenti circa settanta opere tra cui diversi capolavori assoluti, candida a pieno titolo il Museo delle Culture come polo di prim’ordine per le grandi rassegne d’arte nel capoluogo lombardo, in sinergia con Palazzo Reale. Lo spessore di questo percorso visivo ha certamente contribuito a uno degli eventi di maggior rilievo organizzati in Italia per diffondere la conoscenza del pittore francese. 
Tele che hanno cambiato la storia dell’arte e che sono con indiscutibile evidenza al centro della rivoluzione personale di Gauguin, una vicenda passata per sofferenze, malattie, ristrettezze economiche, ma ancor più segnata da una non comune forza di volontà quale ferreo sostegno alla sua ricerca creativa. Consegnata all’espressione pittorica, questa nasceva da un’esigenza profonda di pensare e concepire un modo di vivere diverso, meno innaturale e irrisolto di quanto avveniva in occidente, dove la lotta per il denaro finiva per condizionare ogni altro umano aspetto. Su tali basi va letta la decisione, negli anni ’90 dell’Ottocento, di partire per la Polinesia, un progetto meditato a lungo e per nulla incoerente, se si analizza la personalità di Gauguin, spirito inquieto incline ai viaggi avventurosi. Trovato impiego nella marina mercantile, s’imbarcò, e dal 1865 al 1871 fu in giro per il mondo. Qui sta forse un’esperienza centrale, per molti versi ispiratrice di tante altre successive. Il desiderio di confrontarsi con nuove realtà e culture che gli permettessero di esplorare se stesso, di accrescere il proprio bagaglio di uomo e artista è stato una costante nella sua biografia, prima ancora della scelta definitiva di dipingere. A questa contribuì il fondamentale incontro con Camille Pissarro nel 1874, suo primo mentore e ispiratore, che alla rassegna milanese introduce per così dire le prime opere di Gauguin, dove quell’influsso, a livello di tecnica e impostazione del soggetto, si fa notare molto bene. Non solo la preferenza impressionista accordata al paesaggio ma la resa della natura, il modo della pennellata, quasi la ritmica stessa del colore parlano del maestro. Si prenda un quadro come Les Alyscamps (1888), che pur nel classicismo dell’impianto impone allo sguardo le campiture di colore svincolate dalla composizione che caratterizzeranno tutta la pittura successiva dell’artista parigino. Idea peraltro già accennata in Nudo di donna che cuce (1880) dove il drappo rappresentato nella parte superiore della tela, motivo di armonia geometrica e cromatica che ci viene restituito solo osservandolo dal vero, rivendica una piena centralità.  
Fin dagli esordi Paul Gauguin ebbe ben chiaro il proprio ruolo di apripista e sperimentatore, sentì con chiarezza di essere animato da un intimo impulso a andare oltre i crismi dell’impressionismo. Per lui non era questione di rendere il mondo come appariva ma di cogliere l’elementarità di ogni forma o ambiente. In altre parole il primitivismo, che non consisteva in una categoria antropologica né geografica, piuttosto in un concetto transculturale, un modo di leggere la realtà liberandola dalle incrostazioni di una falsa morale, destinata a tradursi in violenza e furore mistificatorio. Eppure, proprio il richiamo al primitivo, fece di Gauguin un antropologo sui generis che interpretò l'impegno di artista come una missione, l’unica investita di una qualche credibilità, per salvare i frammenti di un cosmo avviato alla dissolvenza, fosse quello dei contadini bretoni, dei pescatori in Martinica o del folklore nei villaggi tahitiani. 
Questo singolare sovrapporsi del vissuto dell’uomo col suo talento, ha forse più di ogni cosa determinato l’altezza della sua voce nel panorama delle arti figurative tra fine Ottocento e inizio Novecento. Non è un caso se insieme a van Gogh, con cui ebbe fra l’altro un breve e burrascoso sodalizio a Arles (1888), e Edvard Munch, lo si annovera tra i modelli dell’espressionismo, altro movimento di rottura che sulla compassata e repressa Germania degli anni dieci del XX secolo si abbatté come un fulmine a ciel sereno.    
Il quadro Bonjour Monsieur Gauguin (1889), esposto anch’esso a Milano, con la sua atmosfera straniante, quasi un invito a trascendere la figura umana, e le campiture svincolate e astratte che andavano prendendo sempre più forza nella sintassi del pittore, mostra una singolare affinità proprio con il Munch più o meno coevo di Chiaro di luna (1893), trovando assoluta coincidenza nel motivo della staccionata in primo piano. A partire dal cenacolo Nabis (dall’ebraico “profeti”), il gruppo riunito a Pont-Aven sotto l’egida di Sérusier, che si ispirava alla composizione libera delle stampe giapponesi come pure al cromatismo di Redon, Moreau e dei preraffaeliti, Gauguin non smise mai di studiare la realtà da un angolo marcatamente soggettivo e simbolico. Ciò è ben rappresentato da certi accostamenti che si fanno spazio nei suoi lavori, scene rituali polinesiane, ad esempio, i cui sfondi, arredi sacri, persone non hanno alcun nesso diretto ma allo stesso tempo danno vita a un intreccio estremamente evocativo. Qualcosa di simile si ritrova in alcuni idoli sconcertanti, mutuati dalla religiosità africana, che ci osservano dalle tele di Emil Nolde.    
Il Pacifico e le sue culture indigene furono dunque per Gauguin una dimensione spirituale, la necessità di entrare in un sogno, la sola condizione per imboccare in modo definitivo il sentiero della propria arte: «Là, a Tahiti, nel silenzio delle belle notti tropicali, potrò ascoltare la soave musica mormorante dei movimenti del mio cuore, in amorosa armonia con gli esseri misteriosi intorno a me». Così scriveva da Parigi nel febbraio 1890 alla moglie Mette, da tempo tornata in Danimarca con la numerosa prole e ufficiosamente separata dal marito. Dalla Francia Gauguin si struggeva per il proprio sogno, il quale tuttavia, una volta toccato con mano, fu anche disagio e disincanto. Non tanto per le difficoltà pratiche di stabilirsi lontano dalla cosiddetta civiltà. Ma ancor più per la constatazione che il colonialismo, anno dopo anno, rubava un pezzetto di anima agli indigeni, che quello che si vedeva oggi sarebbe scomparso domani, in un battito di ciglia.  
Per molto dunque, più o meno anzi per l’intera esistenza, l’artista visse di espedienti, sia in patria sia durante il definitivo autoesilio in Oceania. Andò incontro a tutte quelle cose severamente aborrite dalla morale borghese, piantò la moglie, non ebbe mai nessun impiego rispettabile, contrasse innumerevoli relazioni con adolescenti indigene da cui ebbe regolarmente figli di cui altrettanto regolarmente non si occupò. Non è facile comprendere né condividere una biografia tanto movimentata e radicale, ma non può sfuggire il coraggio con cui quest’uomo ha voluto guardare in viso se stesso, infrangendo uno dopo l’altro i propri limiti individuali e sociali. La rassegna milanese ha saputo contribuire in modo molto apprezzabile a mettere in risalto, attraverso una serie di opere unanimemente celebrate, una delle personalità più affascinanti e poliedriche della storia dell’arte, che innalzò la pittura a strumento potentissimo del racconto umano.  

(Di Claudia Ciardi)


Catalogo:

Paul Gauguin, Racconti dal paradiso - Mudec di Milano, 28 ottobre 2015 – 21 febbraio 2016
24OreCultura



Related links: