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26 aprile 2017

Anton Čechov - Zio Vania






Leggo Anton Čechov da quando avevo vent’anni e potrei definirla una delle esperienze più longeve nel mio frastagliato microcosmo di autori preferiti. A differenza di altri, di cui ho via via scoperto i limiti, Čechov non mi ha mai annoiata. Anzi, col passare del tempo, mi capita di gustarne in profondità atmosfere e sfumature psicologiche precedentemente trascurate. Segno che l’uomo sa far crescere frutti assai rigogliosi sulla pianta dell’arte letteraria. A mio giudizio è quindi implicito che chi voglia avvicinarsi al teatro, inteso sia come materia di studio sia come fonte di scrittura, non possa prescindere dall’incontro con la sua opera.
Steso nel 1897 e approdato al Teatro di Mosca nel 1899, dopo il debutto in provincia, Zio Vania è ritenuto il punto di congiunzione nella drammaturgia del talentuoso ucraino-russo tra l’antecedente del Liesci e la forma compiuta del Giardino dei ciliegi, culmine secondo i più della sua vena creativa, di cui Vania sarebbe una sorta di prova generale. Senza entrare nel merito, i quattro atti di queste “scene di vita di campagna”, così recita il sottotitolo, corrispondono ad altrettante istantanee destinate a infrangere i confini di genere (commedia, dramma, farsa) e a intagliare i personaggi entro una dimensione analitica completamente inedita.  
Le frizioni tra borghesia di città, ossia la bella, giovane e sfaccendata Elena sposata al vecchio professor Serebriakov da un lato, e i russi di campagna, abituati a faticare per la conservazione della proprietà e, con questa, delle loro radici dall’altro, vale a dire il buon Vania, la madre di lui che pure è attratta dalla personalità colta e inquieta di Serebriakov, la semplice ma non bella Sonia, figlia di primo letto del bisbetico professore e nipote di Vania, mettono in scena non solo l’evidente contrapposizione di due mondi ma pure quel conflitto di mentalità - nel senso coniato da Marc Bloch - che avrebbe di lì a poco infiammato il teatro della storia.
In tutto questo Vania e Astrov, il medico dall’affascinante personalità, uomo colto, appassionato di pittura, animato da una coscienza ecologista che precorre il secolo alle porte, funzionano come due inneschi che solo in apparenza fanno deflagrare lo spazio degli affetti, attraversati da aspettative diverse ma soprattutto pesanti delusioni. La promessa di cambiamento si sgonfia in una paurosa statica mediocrità, dove tutto viene conservato e ciascuno rientra nei ranghi dei propri impegni quotidiani. Dopo che le singole volontà sembravano inclini a rovesciare e rimescolare gli equilibri che fino ad allora le avevano inchiodate, il nuovo immobilismo è ancor più soffocante.
Elena è palesemente stanca di un marito molto più vecchio di lei, lamentoso e privo di spirito pratico; potrebbe abbandonarsi a una storia con Astrov, che è lì a tentarla, la corteggia e arriva a un passo dall’espugnare la fortezza del suo cuore. Ma l’esplosione d’ira di Vania, tanto più veemente in quanto per troppo tempo repressa, la fa recedere dalle sue già di per sé debolissime intenzioni. Ciò che domina la coppia Elena-Serebriakov, del resto, è proprio lo strano veleno dell’inazione sparso su coloro che vi entrano in contatto. Vania, in tutta la sua scompostezza, squarcia il velo sulle negatività di cui sono portatori, ed ecco che ai due novelli campioni del lassismo borghese di città non resta che battere in ritirata.
Astrov perde la sua grande occasione di entrare nel letto di Elena e l’idea di una possibile unione riparatoria con Sonia non lo sfiora neanche. Forse un attimo solo, quando siede un’ultima volta nel salotto di famiglia del vecchio Vania, fuori è ormai notte e si sentono appena i rumori sommessi della campagna, mentre i suoi amici son lì accanto a lui, silenziosi, immersi nelle loro letture. La quiete sembra nuovamente regnare sulla casa, ma gli animi sono in tumulto, e quel che verrà a fatica ricomposto porterà sempre il marchio della rottura consumata. Si potrebbe, dunque, definire il dramma dei sospesi, degli atti non finiti, tra reticenze e ripensamenti. E in queste tenui sfilacciature delle trama che vorrebbe prendere altre strade, ma subito viene riportata indietro, s’insinuano stralci di pura poesia, come ad esempio quando Astrov prende definitivamente congedo da Elena, dipingendole il suo idillio d’amore tra natura e abbandono: «Presto o tardi finirà per forza con l’abbandonarsi ai sentimenti – è inevitabile. E meglio allora, piuttosto che a Charkov o chissà dove a Kursk, che succeda qui, in seno alla natura… Se non altro è poetico, perfino l’autunno è bello… Qui c’è il bosco, ci sono ville abbandonate che sembran descritte da Turgheniev…».
O ancora lo scambio sul filo del paradosso tra Vania, che ha appena tentato di uccidere Serebriakov, e Astrov, che teme commetta un’altra sciocchezza. Il dottore, in questa situazione russo fino alle midolla, non si fa contagiare dallumana abiezione e dallo sconforto che rodono l’amico, e gli sbatte in faccia, senza tentennamenti né commiserazione, il loro abbrutimento senza uscita: «Ma noi… noi due una sola speranza abbiamo. La speranza che quando dormiremo nelle tombe ci si presentino delle visioni, magari anche gradevoli».
In questo inesorabile scivolamento di tutto e tutti verso la rassegnazione, Sonia espia nella propria solitudine l’amore non ricambiato da Astrov, Elena rimanda a chissà dove e quando di tradire il noioso professore, Vania chino sulla sua scrivania torna a far di conto per amministrare il vecchio podere e salvare così  il nome della famiglia. Ma è un ritorno all’ordine che non ha nulla di rassicurante. 
Čechov dà prova di una sfrenatezza tutta sua nel giocare con le distonie di questo falso equilibrio che non esisteva all’inizio, in quanto se ne attribuiva la rovina alla coppia di ospiti giunti dalla città, e quindi a maggior ragione non potrà più esistere alla fine. Quel che l’autore si procura di servirci è un compromesso, in cui l’insieme degli antefatti assume volutamente laspetto di uno svarione, un capriccio da bambini destinato a sbollire. Ma lo scrittore lascia la porta socchiusa in modo che nel sottile spiraglio che illumina la fine si consideri come la bufera sia stata accesa da pulsioni, sopite solo in superficie, istinti che non possono essere addomesticati né da norme né da coscienza o autodisciplina, come il discorso in chiusura di Sonia vorrebbe invece far intendere. E per chi legge e vede rappresentata l’opera sulla scena questa provocazione messa in campo da Čechov è ciò che scuote in profondità l’intera architettura narrativa. Nessuna vera conquista dunque, nessuna pacificazione autentica, nessuno spostamento nei destini dei protagonisti, piuttosto una tregua precaria che somiglia a una pausa teatrale, ancor più angosciante perché irrisolta, dettata dall’opportunità e non da un reale passaggio nel flusso degli eventi di coloro che apparentemente si salvano restando uguali.   


(Di Claudia Ciardi)  





Edizione consigliata:

Anton Čechov, Zio Vania. Scene di vita di campagna in quattro atti, introduzione e traduzione di Luigi Lanari, Bur, 2014


 








20 aprile 2017

La Grecia secondo Camus



Antico teatro di Dodona (Epiro)


C’è un bellissimo saggio di Eric Dodds sulla categoria dell’irrazionale quale fulcro meraviglioso dell’identità greca. Non solo, dunque, splendore apollineo e armonia classica ma anche ruvido arcaismo. Perciò preferisco parlare di “lettere antiche” piuttosto che di “lettere classiche”, quest’ultima sembrandomi una definizione limitante. Sebbene alcuni degli argomenti di Albert Camus si richiamino a luoghi comuni - la Grecia apollinea e solare, luminosa anche nella sua sapienza tragica, la cultura romana imitatrice statica della grecità tarda, di quell’ellenismo che sarebbe nient’altro che espressione leziosa e stanca del secolo di Pericle – insomma nonostante qualche semplificazione e un eccesso di polarità nell’orientare certi temi, l’analisi camusiana celebra con passione il cosmo greco e la sua centralità interna alla genesi mediterranea. Toccando con mano le radici vive del proprio immaginario lo scrittore vorrebbe restituire al luogo la voce sola che ha diffuso attorno a sé, così da coglierne senza filtri l’unicità dell’avventura umana e storica prodotta nei secoli.


(Di Claudia Ciardi)         


Poggiato a una colonna del tempio di Poseidone a Capo Sunio, in un punto famoso per la vista sul mare Egeo e sui tramonti attici, Camus annotò il 29 aprile ’55: «Istante perfetto». Pochi giorni dopo, il 2 maggio, scrisse sul taccuino: «Valeva la pena venire da tanto lontano per ricevere questo grande pezzo d’eternità. Dopo, il resto non ha più importanza». Grecia ed Egeo, ecco il cuore della perfezione del mondo.
Aveva spesso desiderato andare in Grecia, senza riuscirci, e meditò su quella terra mediante le rovine romane che toccano il mare a Tipasa, i monasteri toscani, le grandi opere della pittura italiana. Ci riuscì nel ’55, e capì che davvero la Grecia era il fulcro della civiltà mediterranea: una terra che dona agli uomini la sapienza. Ecco perché ammirava la figura di Ulisse che, al ritorno dalla guerra, rifiuta l’immortalità che gli offre Calipso per restare fedele a Itaca, sua patria.
Era dunque necessario, secondo Camus, spostare la culla della civiltà da Roma ad Atene, e consacrare la Grecia come madre della cultura mediterranea. Il vero Mediterraneo non è quello «astratto e convenzionale rappresentato da Roma e dai Romani», popolo d’imitatori senza immaginazione che volle sostituire il genio artistico con quello guerriero. Il loro ordine, tanto vantato, non è quello «che respira nell’intelligenza» fu invece imposto dalla forza. E quando imitarono i Greci non seppero cogliere il loro genio vitale, solo «l’astrazione puerile e calcolatrice», cioè i frutti della decadenza; non colsero la rude Grecia dei grandi tragici e comici, solo il manierismo ellenistico.
La visione ciclica della natura, in cui i Greci collocano ogni cosa, profila la grande differenza tra Grecia e ciò che viene dopo, quella storia lineare che, introdotta dal cristianesimo, conduce infine al dominio sulla natura. Da allora l’uomo occidentale ha perduto ogni senso del limite e della bellezza e, infedele alla terra, ha ceduto all’intemperanza.
Ora, consapevoli che l’antica Grecia non tornerà più, come riconquistarne qualche scheggia di significato? Camus lo fa trapiantando nella propria opera molti concetti che hanno radici greche: misura, bellezza, natura, mito e tragedia. Ma lo fa anche suggerendo di resuscitare alcuni elementi greci al fine di sentirli e viverli, ad esempio il pensiero solare e meridiano, perché «il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie».
Cattedra di libertà luminosa, la Grecia è anche il luogo della bellezza e del senso tragico ad essa eternamente collegato. A queste condizioni, non resta che deplorare l’abdicazione dell’Europa – nutrita di convulsa disperazione – dalla visione estetica, la sola capace di purificare lo smarrimento nel filtro della bellezza.


Da Antonio Castronuovo, Alfabeto Camus. Lessico della rivolta, Stampa Alternativa, 2011  






16 aprile 2017

Dal taccuino giapponese (II)


Una serie di studi che prosegue la narrazione del “taccuino giapponese”.



Le Alpi Apuane da San Giuliano Terme e il grande alone bianco della sera sulle cime, 8 marzo 2017



Il grande alone bianco della sera sulle Apuane - San Giuliano Terme, 8 marzo 2017



Il Monte Pisanino (Apuane) da San Giuliano Terme, 8 marzo 2017



Le Alpi Apuane da San Giuliano Terme, 8 marzo 2017



Schizzo del Mirteto da San Giuliano Terme, 8 marzo 2017



Vicinanze di Bressanone, 30 marzo 2017



Le Alpi orientali innevate. In viaggio da Milano verso Mantova, 20 maggio 2016 



8 aprile 2017

Alle Gallerie di Trento la grande fotografia d'autore




Trento si è candidata capitale italiana della cultura per il 2018. Un titolo che sarebbe stato meritatissimo a giudicare dall’offerta che la città sta mettendo in campo, non solo in occasione delle tante ricorrenze e iniziative ispirate dal centenario della Grande Guerra.
Un salto al centro espositivo delle Gallerie – località Piedicastello, circa un chilometro dalla stazione – poliedrico crocevia di arti e storie, è una tappa obbligata, direi, per qualsiasi visitatore di passaggio. 
Sono qui in corso tre grandi mostre, tutte a ingresso libero – viene richiesto un contributo minimo qualora si desideri acquistare il materiale messo a disposizione dai curatori – cataloghi, digitalizzazione di immagini, stampe.
Il primo degli eventi che desidero segnalare riguarda la suggestiva rassegna fotografica sul Nepal, raccontato dagli scatti di Giuseppe Benanti, Giacomo d’Orlando, Paolo Piechele, che riserva uno spazio particolare al disastroso terremoto del 25 aprile 2015. L’economia già fragile di questo paese, in seguito al violento sisma, subisce un ulteriore durissimo colpo. I numeri del dramma sono davvero sconvolgenti, in termini di perdite di vite umane e distruzioni materiali: ottomila morti, tre milioni di sfollati, novecentomila abitazioni distrutte o lesionate.  

Questi fotografi coniugano l’amore per il luogo all’impegno umanitario. Il progetto Maheela (“donna” in nepalese), di cui sono promotori, cerca di offrire assistenza ai nuclei familiari, facendo leva soprattutto sulle figure femminili. Una scuola di lavorazione dei tessuti, l’avvio alla coltivazione di pochi ortaggi permette a una donna di raggiungere un’autonomia economica minima in grado di risollevarla dallo stato di estrema povertà; il che fa una grande differenza, specie nella profonda crisi in cui è scivolato il paese dopo l’evento sismico. Le mani ruvide di queste figure arcaiche, i loro sguardi levigati dai gesti quotidiani e dai singolari contrasti del paesaggio nepalese, e poi i silenzi sacri, quasi tangibili, dei rituali per i defunti o dei momenti riservati alla preghiera. E su tutto lo sguardo distaccato e meditabondo delle cime himalayane, altri occhi, innevati, lontani, catturati dentro un groviglio di nubi, mentre più sotto fioriscono i verdi campi da tè. Opposizioni cromatiche chiamate ad armonizzarsi in uno spicchio di terra dalle caratteristiche inconsuete quanto affascinanti. 

Segnalo quindi le altre due emozionanti esposizioni costruite intorno al binomio conflitti-profughi, tema di portata enorme nelle vicende umane e, purtroppo, di triste attualità. Da una parte, Fabio Pasini con una tecnica di esposizione insolita ci regala bianchi e neri sfuocati delle montagne trentine. Il Sass de Stria e le dolomiti di Sesto, per citare solo alcuni dei gruppi fotografati, affiorano con i loro profili ammorbiditi e fiabeschi. L’aspetto sognante, quasi spiritato, dei monti ci restituisce intatta l’avventura umana, nei suoi risvolti positivi legati alle scalate e alla scoperta di passi e vie nuove – il prima della guerra che aleggia come termine cronologico indefinito, inattingibile – insieme a quelli più foschi, destinati a divenire preminenti, suscitati dal conflitto, quando sulle vette correva la linea del fronte.

Nell’assenza di soggetti, Pasini mette volutamente al centro il paesaggio in quanto collettore di memorie tra chi all’ombra delle montagne ha vissuto e chi sulle creste si è trovato a combattere. Perciò non sorprende che le sue vette ci parlino con voce umana e che l’osservatore si trovi a dialogare con questi ritratti esattamente come farebbe di fronte a volti in carne e ossa. Di notevole interesse anche la sua idea di documentare la taiga siberiana, altri scatti di abbacinante solitudine, immagini come grandi murales in evidente collisione con la scelta minimalista dei quadri montani. L’autore ha voluto infatti evocare la perdita di punti di riferimento dei profughi di guerra dell’impero austroungarico, dispersi in Siberia e da lì costretti a estenuanti viaggi di ritorno – si pensi al celebre romanzo di Joseph Roth, Fuga senza fine. Mancava una restituzione visiva di questa vicenda, passata quasi sotto silenzio, e Pasini è riuscito, lasciando parlare la natura e la sua apparente, ma solo apparente, immobilità, a generare un transfert emotivo e diretto con i recenti naufragi della storia.

   
Per chiudere, infine, la mostra “Gli spostati” geniale già dal titolo, sui trentini costretti alla fuga e al trasferimento a causa dell’avanzare del fronte di guerra. Le foto delle distruzioni a Rovereto e in Vallarsa danno la dimensione tangibile di una catastrofe che inevitabilmente sradicò migliaia di persone dai propri territori (il programma avviato dal Comando italiano tra il ’15 e il ’17 implicò il ricollocamento di trentacinquemila civili in trecento comuni della penisola). A moltissimi altri toccò in sorte la deportazione forzata nei territori dell’impero: si tratta delle comunità che occuparono i cosiddetti “villaggi di legno”, agglomerati di baracche dove si faceva la fame e spesso si moriva. Lager ante litteram, chi riuscì a cavarsela in questi posti lo dovette alla fortuna e alla capacità di arrangiarsi; mestieri e ogni genere di abilità aiutarono a guadagnare quel poco che serviva a mangiare e vestirsi. Attraverso le foto e le lettere degli spostati si è ricostruita una testimonianza intima e diretta delle vicissitudini affrontate da ciascuna delle comunità disperse dallo scoppio della guerra.

(Di Claudia Ciardi)


All’entrata del polo sono presenti anche le mie due monografie di inediti tedeschi:

Robert Musil, Narra un soldato e altre prose, a cura di Claudia Ciardi, traduzione di Claudia Ciardi e Elisabeth Krammer, Via del Vento edizioni, 2012.
(Presente in poche copie in quanto il lavoro risale al 2012. Si tratta di una “fine tiratura” che mi sembrava buona cosa condividere in questa sede).

Thomas Mann, Sedute spiritiche e un'altra prosa inedita, cura e traduzione di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2016.
(Diverse copie, trattandosi di una pubblicazione recente. Quindi chi è in zona o capita qui, si faccia avanti).



Maheela, mostra fotografica sul Nepal, fino al 28 aprile 2017


Fabio Pasini, Dalle Alpi alla Siberia, fino al 25 giugno 2017


Gli spostati. Guerra e profughi trentini, fino al 3 dicembre 2017


Segnalo anche La Gran Vera - La Grande Guerra, Galizia-Dolomiti presso il polo museale del Teatro Navalge di Moena fino al 28 ottobre 2017