L’avventura
dei fratelli Bisson si colloca agli inizi della diffusione del mezzo fotografico,
in particolare la dagherrotipia, che a metà Ottocento conobbe ulteriori
sviluppi, mettendo a punto con rapidità sempre maggiore procedimenti e tecniche
innovative. Gli stessi Bisson, operativi attorno agli anni ’40 – l’apertura del
loro primo studio parigino in zona Madelaine risale circa al 1842 – possono
considerarsi degli sperimentatori, tanto che negli anni della loro attività
giunsero a depositare fino a sedici brevetti tra modalità di scatto,
riproduzione e stampa. La loro opera è stata recentemente oggetto di una grande
mostra al Museo della Montagna di Torino (2015) dedicata ai cosiddetti
fotografi primitivi delle Alpi; uomini che accompagnarono gli scalatori-pionieri
portandosi appresso attrezzature pesantissime – nell’ordine delle decine di
chili – per catturare quei paesaggi inviolati e fino ad allora inosservati.
Si
tratta di Édouard Baldus, Samuel Bourne, Francis Frith, Victor Muzet, Giacomo
Brogi, oltre ai citati Bisson, che tra il 1850 e il ’70 si armarono dei nuovi
strumenti per raccontare la montagna, anche nel tentativo di affinare gli
stessi mezzi di cui disponevano. E in effetti la fotografia d’alta quota
costituisce uno dei filoni più affascinanti nella storia di quest’arte proprio
per tale doppia vocazione; la ricerca scientifica si sovrappone ad altra di
carattere antropologico, divenendo cioè il luogo elettivo per una riflessione
dell’uomo sulla natura.
Se
la pittura di paesaggio era stata fino ad allora l’unico spazio in cui fosse
possibile rappresentare lo sguardo umano sull’ambiente e i mutamenti ad esso
imposti con il secolare avanzamento del processo di urbanizzazione, la
fotografia ai suoi albori, e dunque in perfetta continuità, assume la resa
paesaggistica a principale soggetto narrativo. Vi è alla base anche una ragione
più strettamente tecnica: l’immobilità di immagini di natura, monumenti e
architetture era assai più funzionale ai lunghissimi tempi di esposizione
necessari alle prime foto. Tuttavia dal 1826-’27, quando cioè si presume sia
stata creata la prima “eliografia” su lastra di peltro per mano di Joseph
Niépce, notabile e geniale inventore di origini borgognone, va detto che il
ritratto d’un luogo permane come nucleo centrale del racconto fotografico,
anche dopo il ridursi dei tempi d’esposizione e la nascita di tecniche più
agevoli. A maggior chiarezza per questo inscindibile legame ecco cosa si legge
nell’Encyclopedie di Diderot e
d’Alambert, alla voce Paysage: «Il
paesaggio è un genere di pittura che rappresenta le campagne e gli oggetti che
vi si incontrano. Il paesaggio è nella pittura uno dei soggetti più ricchi, più
piacevoli e più fecondi». La fotografia, quindi, nella sua declinazione
paesaggista segue sul piano concettuale le tracce del pittore devoto a questo
medesimo tema: pensiamo al Viandante sul mare di
nebbia di Caspar David Friedrich e all’immagine di August Sander che si fa
ritrarre di spalle mentre osserva il panorama dalla sommità delle Siebengebirge.
Si tratta di una sovrapposizione reale. Entrambi, a distanza di un secolo, poco più,
proseguono con mezzi diversi la stessa riflessione circa l’essere parte del
paesaggio che intendono raccontare, consapevoli al contempo della necessità di astrarsene
per approdare alla sua rappresentazione.
Il
caso dei due Bisson, Louis-Auguste (1814-1876) studioso di architettura, e il
fratello minore Auguste-Rosalie (1826-1900), controllore dei pesi e delle
misure a Rambouillet, è in questo senso emblematico. Figli di un pittore,
intuirono che il dagherrotipo avrebbe offerto molte possibilità di lavoro e
committenze prestigiose. E nella loro variegata carriera fu esattamente così.
Cultori della fotografia artistica in grande formato, vi restarono legati per
un ventennio fino alla decadenza della loro attività, proprio perché
rifiutarono di adattarsi alle nuove immagini a stampa più piccole e leggere, e perciò
assai meno dispendiose quanto alla riproduzione.
Il
loro nome è legato a diverse imprese che hanno letteralmente fatto la storia
della fotografia, compreso un importantissimo capitolo sul ritratto di
montagna. Animati dai più vasti interessi culturali, membri della Société des Aquafortistes e della Societé française de Psychanalise da
loro fondata insieme a E. Lacan, si cimentarono sia con i dagherrotipi che con
i collodi umidi, secchi e l’albuminato, lavorando su tavole che superavano la
grandezza di un metro; si avvalsero inoltre per la prima volta dell’uso di
filtri, un metodo di doratura e argentatura delle lastre tramite l’elettrolisi,
oltre a coltivare tra i primi la fotografia aerea e quella su carta
trasparente. Ciò dà la misura dell’eclettismo del loro lavoro che si riflette
in altrettanti settori, dalla politica – i loro ritratti dei parlamentari
fecero scuola così come le prese dell’assedio di Parigi nel 1871 – alla
geologia, dalle carte scientifiche in rilievo ai ritratti monumentali, dagli scatti del terremoto nel Valais alle spedizioni alpine.
Già
famosi in diversi contesti internazionali che avevano coltivato fin dai loro
esordi – Parigi, Berlino, Londra – Napoleone III li volle al suo
seguito in occasione della visita ufficiale nella regione della Savoia (1860). I
Bisson realizzarono così all’epoca alcune delle più spettacolari vedute mai
dedicate ai valichi alpini. Nel 1866, tre anni dopo la liquidazione della loro
ditta a causa dei costi eccessivi che il genere della loro fotografia
richiedeva, Auguste, divenuto un collaboratore indipendente per altri studi,
replicò la scalata sul monte Bianco per l’impresa fotografica Léon & Lévy.
Le due serie di ritratti alpini costituiscono un unicum nella storia avventurosa
del nuovo mezzo, misto di pionierismo e poesia, che ha saputo iscriversi tra i
principali modelli degli autori novecenteschi dediti al ritratto di vette e
ghiacciai.
(Di Claudia Ciardi)
Ascensione al Monte Bianco
Il Monte Bianco
Le Alpi (IV)
Abeti e Monte Bianco
Il Mare di Ghiaccio da Chamonix
Il Mare di Ghiaccio e Chatau de Chillon
Un ghiacciaio
Rifugio dei Grands Mulets
Segnalazioni:
Dal 29 settembre all’1 ottobre presso la Borgata Paraloup, con il coordinamento della Fondazione Nuto Revelli, mostre d’
arte ed architettura per parlare di paesaggio alpino, tutela ambientale, ripopolamento e progetti di valorizzazione ecosostenibili. Sarà possibile visitare un’esposizione composta da dodici tavole tratte dai miei Taccuini giapponesi. All’evento si accompagnerà una breve introduzione sulla mia esperienza in giro per montagne e borghi isolani, cui seguirà la lettura di alcune parti del mio ultimo poema Un nodo infinito.
Appuntamento al rifugio per questa festa di solidarietà e cultura.