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21 dicembre 2018

Tre mostre fotografiche per Schellino - Mulas, Gabetti, Regis


«Bisogna affondare dentro il buio radici ben nere». Così Cesare Pavese sembra scrivere qui l’epigrafe perfetta di un territorio. In un anno tanto significativo per le Langhe e per gli intrecci culturali che nel tempo, con una contiguità mai sopita, vi si sono espressi, si sentono scorrere in queste parole tutti gli accenti cristallini e tetri, uniti in una mistica contrastata di spossante bellezza, di cui la provincia è intrisa. Dunque, anche la sua architettura, e ancor più quella che possiamo considerare l’architettura per eccellenza, tra eclettismo e tensioni contrarie, esorbitante e rigorosa, di Giovanni Battista Schellino. In occasione del bicentenario della nascita del grande progettista che seppe cucire nel proprio modus operandi presenze locali e, per dirla con Roberto Gabetti, «emergenze latenti» che guardavano ben al di là di quei confini, tre mostre fotografiche celebrano il suo estro creativo. Un racconto per immagini che è anche lo specchio di un lungo e proficuo percorso di studi che ha visto avvicendarsi due generazioni di architetti e storici del paesaggio a confronto con le tematiche schelliniane, gli interrogativi e le sfide ivi racchiuse.
A partire dal saggio apripista di Andreina Griseri e Roberto Gabetti, pubblicato da Einaudi nel 1973, che consacrò ufficialmente il geometra doglianese tra i grandi architetti degli ultimi due secoli, per giungere agli itinerari del Cuneo gotico di Lorenzo Mamino e Daniele Regis (2016), che a quel testo memorabile si ispirano, collocando il tratto ingegnoso e vien da dire irrisolto di Schellino in uno sfondo sentimentale di richiami che va dai beni faro alle architetture “minime” disseminate nelle campagne. Schellino fu architetto di provincia ma non provinciale, che da autodidatta inquieto alla perenne ricerca di una cadenza, di un passo da armonizzare all’ossatura del territorio col quale si confrontava, la collina, s’inventò una sintassi del tutto peculiare, irriducibile a qualsiasi schema o interpretazione definitiva. Avanzava nei suoi lavori secondo una misura proteiforme, adattandoli, perfino flettendoli di volta in volta agli ingombri, ai limiti segnati dalla tradizione. Eppure quasi sempre aggirando gli ostacoli, con soluzioni innovative, per certi versi inaspettate, quando non addirittura spiazzanti. Tornando alle pagine di Griseri-Gabetti vi si trova pienamente rappresentata questa inventiva sfuggente, colma di tensioni e richiami: «Schellino non ci diede oggetti chiari, conclusi, eleganti, ma contro ogni definizione dell’architettura, vere architetture, oggetti ricchi di contrasti e di spunti, nelle connessioni, negli indirizzi progettuali».

In questa chiave si sono allestite le tre mostre attualmente in corso a Dogliani con la curatela di Daniele Regis. Prendendo le mosse proprio da Ugo Mulas e delle appendici gabettiane dialoganti con alcuni dei prospetti di Schellino, incrociando gli Incanti ordinari di Lorenzo Mamino e Michele Pellegrino (1984), sulle tracce degli ambienti dimessi della periferia rurale monregalese, per approdare alla campagna fotografica del 1997-’98, ricordata da Carla Bartolozzi nel suo puntuale intervento di apertura della seconda sessione al convegno internazionale di Schellino dello scorso 1° dicembre. Quella campagna confluì nel volume di Daniele Regis, Giovanni Battista Schellino a Dogliani, edito da Celid nel 2006, introdotto dalla stessa Bartolozzi che così scriveva: «Una ricerca personale per aggiungere ancora una possibile interpretazione dell’architettura di Schellino, con la capacità nuova di far emergere con grande efficacia i due registri formali sui quali amava confrontarsi lo stesso Schellino: un’architettura fortemente ispirata alla tradizione gotica popolare ed una rivisitazione di temi classici». 

L’attuale esposizione presso il Ritiro della Sacra Famiglia di Dogliani, a ingresso libero fino al 5 gennaio, è stata concepita in quest’ottica. Le passate retrospettive di Mulas e Gabetti ruotano attorno al nucleo centrale delle riproduzioni tratte dall’Atlante del Cuneo gotico, a cura di Daniele Regis, già segnalato per questi scatti su diversi numeri della rivista americana «Black and White». Il visitatore viene idealmente scortato all’interno della cappella neogotica, lo stesso ambiente dove si è dato inizio ai lavori della giornata internazionale di studi con la lectio magistralis di Andrew Graham-Dixon. Qui il percorso culmina nelle sei tavole di grande formato (150x120 cm) da negativi 10x12cm agli alogenuri d’argento virate seppia tra le superfici delle paraste della chiesa in una iconografia di gusto ottocentesco. A confronto (in senso letterale, fronteggiandosi) le declinazioni neoclassiche e neogotiche delle opere di Giovanni Battista Schellino: colonne, guglie e pinnacoli. 

Queste tre mostre accompagnano l’esito delle rinnovate ricerche sull’opera del grande architetto delle Langhe, in virtù della documentazione d’archivio arricchita attraverso la recente preziosa donazione di Elisabetta Gabetti, consentendoci di abbracciare visivamente il passato degli studi su Schellino e di aprire ulteriori vie.  

(Di Claudia Ciardi)



La copertina del Neo-Gothic Cuneo, versione inglese del Cuneo gotico, edita quest'anno con prefazione di Andrew Graham-Dixon. Il volume è stato oggetto di presentazione al Convegno Internazionale di Dogliani il 1° dicembre. La giornata di studi è stata anche l'occasione per il lancio del progetto di un Centro Studi Internazionale sul Neogotico presso il Ritiro della Sacra Famiglia.   



 Una delle sei tavole di Daniele Regis in mostra. Qui lo Schellino "neoclassico" della parrocchiale dei Santi Quirico e Paolo.



Ugo Mulas. Una delle tavole dell'Atlante (Griseri-Gabetti, Einaudi, 1973).
Il Ritiro della Sacra Famiglia in alto sulla collina e la Parrocchiale dei Santi Quirico e Paolo in basso. Idealmente sono qui racchiuse tutte le coordinate dell'immaginario schelliniano.



1° dicembre 2018 - 5 gennaio 2019. A cura di Daniele Regis, presso il Ritiro della Sacra Famiglia di Dogliani.


10 dicembre 2018

La terra buona




Regia: Emanuele Caruso 
Con Lorenzo Pedrotti, Fabrizio Ferracane, Viola Sartoretto, Cristian Di Sante, Giulio Brogi. 
Genere: Drammatico 
Durata: 110 minuti
Produzione: Italia, 2018


Ambientata negli scenari selvaggi della Valle Grande, in Piemonte, estesa riserva naturale a sessanta chilometri dalla Svizzera dove non vi è traccia d’intervento umano, la seconda prova cinematografica di Emanuele Caruso non delude. Centra le aspettative già create col suo precedente lavoro, E fu sera e fu mattina, esordio del 2014 tutto girato nell’Alta Langa, sostenuto da una raccolta fondi di successo, ben compensata dagli ottimi riscontri di pubblico. Una bell’impresa ripetuta con La terra buona, narrazione poetica commovente sui tracciati di Ermanno Olmi e Giorgio Diritti, dai quali il regista attinge per affinare gli accenti della sua espressione, fra i più singolari nel panorama italiano attuale. Prendendo le mosse da una storia vera, il film esorta con delicatezza lo spettatore a riflettere su temi importanti, quali il confronto coi ritmi naturali dell’esistere, il bisogno di recuperare una dimensione spirituale autentica, l’imprescindibile necessità di raccoglimento senza la quale l’essere umano è sbilanciato, incapace di pensare, di farsi e fare del bene.
Nel quadro di un luogo all’apparenza ostico, ma subito accogliente non appena si entra in sintonia col suo respiro, si ritrovano Padre Sergio De Piccoli, monaco benedettino, che in Valle Maira, nel cuneese, ha realmente raccolto sessantamila volumi così da costituire la biblioteca più “alta” d’Europa, un terapeuta che sperimenta cure alternative per malattie terminali, una ragazza in cerca di guarigione e il suo amico d’infanzia che si offre di accompagnarla in questo difficile cammino. Mastro, il medico che non si stanca d’insegnare l’importanza del saper guarire interiormente come primo stadio di ogni terapia, e il suo aiutante Rubio, irascibile quanto concreto e geniale, si sono rifugiati da Padre Sergio perché il loro metodo è stato messo sotto accusa. Sono dei perseguitati, come lo sono, per motivi diversi, Gea e Martino, i due ragazzi che sfiniti e, quasi scacciati dal mondo, arrivano in valle. Gea, a causa della malattia, non ha quasi più risorse fisiche, ma anche la sua mente è indebolita – un rapporto complicato col padre scomparso recentemente e che dunque non è più recuperabile, la consuma anche più del suo male. Martino, che viene pure lui da Roma, come Gea, si sente altrettanto masticato e rigurgitato dalla metropoli dove non ha saputo realizzarsi sul piano economico e dov’è è costretto a guardare in faccia i suoi fallimenti. Fatica però a prendere coscienza di questa condizione, e perfino la sua nevrosi gli sfugge, attribuendola solo a quel che si trova a subire, come fosse qualcosa di esterno alla sua vita. La montagna lo aiuta lentamente a riconoscere se stesso, a riappropriarsi di un dialogo con quella parte della sua persona ammalata che nella fragilità, nel disadattamento continuo alle precedenti situazioni che ha attraversato, avrebbe voluto costringerlo a fermarsi. Ci riusciranno i silenzi e gli sguardi di padre Sergio, l’umile e umana comprensione di Gianmaria, il suo aiutante, il confronto con Mastro e quell’antro meraviglioso pieno di libri e di sogni, fiorito come per incanto in mezzo alle nuvole, in cui si trova all’improvviso catapultato.
È per certi versi una fiaba alchemica orientata alle energie che uomini e cose sono in grado di emanare; una ricerca dubitante nella quale interiore ed esteriore s’intersecano, generando materia vitale e inaspettate trasformazioni. È anche la storia di come i destini di queste persone vengano scossi inevitabilmente dal mondo esterno o estraneo, che non rimane certo quieto, relegato nella sua lontananza, ma risale a cercarli, esigendo da loro una presa di posizione, chi davanti alla vita chi davanti alla morte, marea che incalza e che spinge per cancellare le orme appena impresse. È la storia di un microcosmica comunità di caratteri che, pur diversi e sconosciuti fra loro, riescono per un momento a trovare un equilibrio, un po’ di normalità, e in questo momentaneo amalgamarsi raggiungono un affiatamento insperato. La separazione è un epilogo inevitabile ma non viene rappresentata come un semplice lacerarsi di legami, contiene un augurio più grande e profondo scritto intorno al richiamo essenziale che ognuno ha la sua missione da compiere e perciò si va avanti, si cammina, in cerca di qualcosa che, se anche non ci è chiaro, sa farsi ascoltare tra le fibre del nostro andare, e voltargli le spalle non si può.


(Di Claudia Ciardi)



Mastro e laiutante Rubio sotto il pergolato



Una scena



Alcuni componenti del cast