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25 gennaio 2019

Rembrandt e l'ebraismo


Il grande pittore olandese Rembrandt van Rijn, virtuoso del ritratto, tra i più produttivi e celebrati artisti del Seicento europeo e di sempre, fu uomo di cultura versatile e mente libera, qualità presto assimilate dall’alto livello di istruzione che la sua famiglia volle impartirgli. Figlio di quel patriziato cittadino intraprendente e ben provvisto di mezzi che operava a Leida all’inizio del secolo, l’artista poté crescere senza limitazioni materiali e misurarsi precocemente nei diversi campi del sapere. Il padre era proprietario di un mulino sul Vecchio Reno, tanto che dal fiume derivò il suo cognome: van Rijn significa infatti “del Reno”. Genius loci e una società in fermento sono i due poli complementari da cui irradia la creatività di Rembrandt.
L’Olanda, Amsterdam soprattutto, accolse migliaia di ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492. Figure della più varia levatura e dalle molte attitudini trovarono un luogo dove poter mettere fine alla diaspora e sviluppare senza restrizioni le proprie attività. Iniziava così l’epoca d’oro dei Paesi Bassi, in cui fiorirono i commerci, s’infittirono le relazioni del ceto più dinamico e agiato della nazione con il resto del mondo, prese vita un ricco mercato dell’arte.
Quando nel 1631 il pittore si trasferì ad Amsterdam, era un ventenne richiesto da una committenza di notabili e facoltosi collezionisti. Concluso il suo apprendistato, già da tempo esercitava l’arte del ritratto, viaggiando spesso tra Leida e la città sull’Amstel, dove tutto allora sembrava possibile. A partire dal 1639 si stabilì in una casa nel Vlooienburg, il quartiere ebraico dove risiedevano gli esuli spagnoli e portoghesi della comunità sefardita. Qui rimase fino al 1656, poi per l’impossibilità di restituire l’ingente somma di tredicimila gulden che gli era occorsa per comprarla e nella crescente indigenza che lo colpì durante gli ultimi anni della sua vita, fu costretto a vendere. Il lungo periodo trascorso in questa zona della città lo mise in contatto con personaggi singolari e coltissimi del mondo semita, cosa che gli fu d’ispirazione non solo nell’ambito prettamente figurativo, ma in modo ancor più sostanziale per quella che era la sua continua sete di approfondire una cultura altra. Tra i suoi vicini si annovera il famoso diplomatico, rabbino, cabalista e dedito al messianesimo Menasseh-ben-Israel, di due anni più vecchio di lui. Legati da un importante rapporto d’amicizia, si sa che Rembrandt lesse le sue opere, Speranza d’Israele pubblicata nel 1650, cui seguì la Piedra gloriosa del 1655, storia del popolo ebraico per la quale il maestro olandese realizzò quattro acqueforti ad accompagnamento del testo.   
Menasseh fu uomo impegnato sul versante politico per l’integrazione e riabilitazione degli ebrei nelle società europee, figura controversa e non pacificamente apprezzata all’interno della comunità stessa. Promosse la causa ebraica presso Cromwell consegnandogli il pamphlet Humble Adress to the Lord Protector, dove sono illustrati i vantaggi che sarebbero derivati all’Inghilterra dalla riammissione degli ebrei. Vi era già stato un precedente nel 1651 ma i colloqui si arrestarono di fronte allo scoppio della guerra anglo-olandese (1652-’54). Al secondo tentativo Cromwell non rispose esplicitamente ma in via informale concesse a un numero crescente di israeliti libertà di movimento e d’insediamento a Londra. Sempre nel 1655, quando Menasseh andava cercando aperture oltremanica per i suoi, l’Inghilterra strappò la Giamaica al dominio spagnolo, lucrosa produttrice di zucchero e base cruciale per il mercato degli schiavi. A consigliare l’impresa giamaicana era stato il sefardita Simon de Caserès, che sollecitò Cromwell anche a proposito della conquista del Cile, mai tentata prima, attraverso un contingente ebraico.   
Nel medesimo decennio, sulle rive del mare del nord, l’arte di Rembrandt si nutrì del confronto quotidiano con gli immigrati sefarditi e ashkenaziti, questi ultimi scampati alle persecuzioni praticate in Polonia e Lituania, gli uomini della tradizione dai neri caffettani e le lunghe barbe, gli arcaici e mistici talmudisti, guardati talora con diffidenza dagli “hidalgos”, educati secondo i costumi cristiani, vestiti alla moda, dediti agli affari.
Di questa varia umanità, dunque, e dell’amicizia dei suoi esponenti di punta, non solo Menasseh, ma anche il rabbino Saul Levi Mortera, i giovani allievi, e le più eterogenee categorie di mestieranti e imprenditori, resta traccia in numerose sue opere. Ci si è anche dedicati nel tempo a riconoscere in un volto o in un altro qualcuna delle sue più assidue frequentazioni di quel mondo, celebrata non solo nei lavori a tema biblico. Ad esempio è con ragionevole certezza che si può vedere un ebreo erudito nel quadro Filosofo in meditazione, del 1632. Il fatto di rappresentare queste stanze attraversate da una luce filtrante, all’interno delle quali siede in angolo un uomo di cultura che trasmette a chi osserva il suo grado di dedizione per lo studio e la pratica del sapere, evidenziano in chi dipinge un temperamento incline al misticismo, al desiderio di dare campo visivo all’essenza spirituale, all’intangibile levità che essa reca in sé. E l’atmosfera che si respira in simili tele fa pensare al travaso di un’anima affine che in quella consuetudine da tempo ha trovato rifugio.
Quanto alle scene bibliche, nella cultura olandese seicentesca erano molto ricercate sia per la prossimità religiosa dei committenti ai temi delle scritture, sia perché l’allegoria morale, a mezzo della lunga eredità lasciata dal Medioevo, seguitava a esercitare un immediato potere monitore e conturbante insieme, messaggio inappellabile sulla via virtuosa e il pericolo fatale di smarrirsi. Dagli anni ’30 in poi molte di queste scene entrarono nei dipinti di Rembrandt. È così con il Geremia piangente, assiso nelle vicinanze delle rovine di Gerusalemme, quadro che presuppone la lettura diretta o indiretta delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, e ancora nel festino di Baltassar, dove campeggia un’iscrizione in ebraico probabilmente dettata dallo stesso Menasseh o copiata da uno dei suoi manoscritti, e nel Mosè che fa mostra delle tavole della legge, opera presente alla pinacoteca di Stato di Berlino insieme ad altri “ritratti ebraici” del maestro olandese.
In un recente studio di Steven Nadler – recente solo perché divulgato in Italia un paio di anni fa dall’editrice Einaudi, ma si tratta in realtà di una ricerca condotta più di dieci anni fa – vengono ricostruite esistenze e connessioni sulla Jodenbreenstrat, la strada larga degli ebrei, al tempo di Rembrandt. Lo storico e filosofo, tra i massimi esperti del Seicento olandese, non ha potuto valersi della diffusione degli ultimi tre volumi del Corpus of Rembrandt Paintings per mano di Ernst van de Wetering, avendo già finito di vergare il suo saggio, quando questi iniziarono a palesarsi nel 2005. Una lacuna che non passa inosservata nelle conclusioni del libro, pur restando un testo affascinante per l’acribia con cui ci si cala nei ritmi e nelle vicende dei luoghi vissuti dai protagonisti dell’epoca e di questa Amsterdam caleidoscopica, fulcro di tante avventure e ribattezzata non a caso “Nuova Gerusalemme.
Tutt’altro che marginale, l’interesse di Rembrandt per la cultura semita, esplorata nelle sue diversità storiche e geografiche, è un tratto distintivo dell’intera sua produzione tanto più che questi soggetti non furono materia da rappresentare con distaccata professionalità, ma uomini e donne con cui condivise amicizie, scambi culturali, momenti di vita, grazie ai quali giunse al riconoscimento artistico e, soprattutto, coltivò una necessaria iniziazione alle cadenze della sua sensibilità.    

(Di Claudia Ciardi)


Bibliografia:

Steven Nadler, Gli ebrei di Rembrandt, Einaudi, 2017









Federico Dezzani, Terra contro mare. Dalla rivoluzione inglese a quella russa, Editore StreetLib - formato elettronico 








Rembrandt - Classici dell'arte - Volume 9 - Rizzoli/Skira con il «Corriere della Sera»



Opere:


Geremia lamenta la distruzione di Gerusalemme, 1630



Filosofo in meditazione, 1632



Ritratto di Menasseh-ben-Israel, acquaforte, circa 1636 



Il festino di Baltassar, circa 1636 



Acquaforte per la Piedra gloriosa



Le quattro acqueforti per la Piedra gloriosa



Ritratto di rabbino, 1665



La sposa ebrea, 1666



La sposa ebrea - dettaglio


10 gennaio 2019

Una città ideale



Al Santa Maria della Scala di Siena, nella splendida cornice del polo museale di Piazza Duomo, si è inaugurata da circa un mese la mostra sulla pittura tedesca e fiamminga del periodo compreso fra i secoli XV e XVII. I grandi maestri nordici del ritratto e della rappresentazione dello spazio, soprattutto vedute d’interni e complessi urbani immaginari, sono al centro di questa ricca esposizione che ricostruisce il gusto e l’interesse culturale delle corti italiane nel rinascimento.
Il materiale, nonché chiaramente il filo conduttore della presente rassegna, deriva dalla collezione Spannocchi, famiglia di notabili senesi che nel 1774, anno del matrimonio di Caterina Piccolomini con Giuseppe Spannocchi, acquisì un composito e raffinato nucleo di quadri provenienti dal nord Europa, espressione delle più influenti cerchie pittoriche di quell’area geografica a partire dal Cinquecento. Questo cospicuo fondo include infatti una prima sezione risalente ai Gonzaga di Mantova, attorno alla quale, attraverso il successivo impegno dei Piccolomini, proseguì l’acquisto di numerose altre tele. E che queste famiglie pretendessero il meglio che offriva allora il mercato dell’arte, lo testimoniano i nomi che ci troviamo di fronte: Albrecht Dürer, il suo talentuoso allievo Altdorfer, pittore, architetto, incisore, innovatore nell’uso della luce, Lucas Cranach. E poi ancora le scuole a loro vicine in un eterogeneo alternarsi di soggetti mitologici, sacri, nature morte, scene di genere, vedute, utopie. Da Hendrick van Steenwick con il suo San Girolamo nello studio (1602), specialista nella pittura d’interni e capace di una rappresentazione evocativa della luce che rimanda in parte a Vermeer, a Johann König e la Bottega di Roelant Savery con una rivisitazione dei temi del mito tra sacro e profano, e ancora Bartolomeo Wittig con La buona ventura, straordinario “fotografo” d’ambienti e allo stesso tempo inventore di studiate architetture, Paul Vredeman de Vries nella Veduta di città ideale (1607) e Abel Grimmer in La torre di Babele (fine Seicento).
È anche il racconto di una grande attenzione riservata dagli italiani all’arte nordica, in cui si evidenzia un’impressionante perizia nella scelta dei pezzi e una provata conoscenza di quel mondo nell’immediatezza delle sue manifestazioni creative. Lo spirito collezionistico ha senz’altro spinto la circolazione dell’arte nel vecchio continente per diversi secoli e studiarne ragioni, traiettorie, influssi permette di approfondire la parabola di venditori e compratori, le loro reciproche relazioni e posizioni di potere, nell’ambito del commercio e della cultura. Per l’evento senese la Galleria degli Uffizi di Firenze ha prestato due celebri pannelli di Altdorfer, raffiguranti il congedo e il martirio di San Floriano, già parte del blocco di opere degli Spannocchi, tornati adesso alla città, prima volta che accade dal 1914. L’intento è quello di riunire per intero la collezione, e la mostra vuole essere anche una pubblica testimonianza in tal senso. Nell’occasione si è inoltre dato avvio ai restauri dei quadri che costituiscono questo ampio corpus, lavori i cui risultati possono qui essere parzialmente osservati.
Se Siena può dirsi una città dove reale e immaginario in architettura si contaminano senza posa, con le sue pietre primitive che insidiano la levità delle logge e la presenza oracolare dei vecchi fontanili, coi suoi bianchi e neri che la fantasia di Escher cucì alle proprie geometrie, coi suoi scorci di vicoli, le facciate settecentesche su piazzette medievali, le salite e le discese quasi metafisiche, se questo è luogo e scena, spazio della storia e arena ideale, si capisce perfettamente l’insieme di stimoli e suggestioni che animò i collezionisti del passato e l’esigenza presente di ridare loro una cornice che sia la più rappresentativa di una così frastagliata avventura dell’ingegno.



 Paul Vredman de Vries, Veduta di città ideale (1607)



Abel Grimmer, La torre di Babele (fine Seicento)



Hendrick van Steenwick, San Gerolamo nello studio (1602)


Contestualmente, nella medesima sede, la mostra Graffi profondi dell’anima fino al 31 gennaio fa luce sulla malattia mentale e l’emarginazione forzata di N.O.F. 4, la sigla con cui soleva firmarsi Oreste Fernando Nannetti, internato a Volterra, ricovero sorto nel 1884 nel fabbricato del Convento di San Girolamo. Sono esposte strumentazioni per la terapia e oggetti d’uso dei pazienti, dalle stoviglie alle divise e calzature prodotte nei laboratori e nelle officine locali, che mostrano come l’individuo cessasse di esistere nel momento in cui varcava la soglia del manicomio. Ogni oggetto era uguale all’altro. Inutile per un folle rivendicarne il possesso, perché la differenziazione avrebbe comportato la riconoscibilità, la dichiarazione di cosa propria avrebbe ristabilito il luogo dell’io. Annientare, livellare, significava dunque togliere ai degenti qualsiasi pretesa sul mondo.


N.O.F. 4 produsse utilizzando le fibbie del panciotto della sua divisa da matto, quali strumenti d’incisione, un incredibile libro graffito lungo 180 metri nel muro del suo reparto. Proseguì quindi la sua opera sul passamano in cemento di una scala di 106 metri. Finalmente fornito di carta e penna realizzò più di 1600 lavori. Correvano in Italia gli anni Sessanta. I suoi graffiti sono lettere cuneiformi, una sorta di alfabeto cifrato, un’immensa pittura rupestre attraverso cui lo spirito recluso di Nannetti cerca di comunicare all’esterno la sua bellezza e di evadere. La sua sensibilità è straordinaria. In corrispondenza del muro dietro la panchina dove siedono i degenti catatonici segue il contorno delle loro figure, badando a non infastidirli, perché dice “nessuno dev’essere disturbato nella sua attività”. Solo per averlo pensato, avrebbe dovuto essere immediatamente dimesso. Il quattro divenne il numero della sua firma d’artista, in quanto andava a comporre una sorta di alchimia da lui ideata e definita “la chiave mineraria”: quattro secoli, quattro metalli, quattro colori, quattro forme.

Della vicenda clinica del Nannetti peraltro poco si sa. L’impressione è che nessuno si sia seriamente occupato di risolvere il suo caso e che il ricovero coatto sia sembrato, come per molti altri, l’unico sbocco a una situazione che nessuno, per ignoranza o inerzia, ha avuto voglia di studiare. La mostra offre una piccola ricostruzione del giardino che ispirò a N.O.F. 4 la sua opera con alcuni pezzi dei graffiti che verranno a breve collocati presso il museo dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra. Una toccante lezione sull’accanimento fra esseri umani, l’intolleranza e il pregiudizio che per molta parte del Novecento hanno continuato ad accompagnare i malati di mente, e un’esistenza che avrebbe potuto essere e non è stata.


(Di Claudia Ciardi)





Interno del Santa Maria della Scala