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21 novembre 2019

Le nubi nei taccuini di Turner


Nel panorama della pittura romantica incline a catturare bufere, nuvole e luci, fra quelli che più si son contesi la scena troviamo John Constable, sublime invasato dei cieli, e William Turner, ritrattista altrettanto compulsivo di atmosfere e contrasti accesi dai grandi fenomeni naturali. Affascinati dalla mutevolezza cromatica dei paesaggi – per Turner è soprattutto un confronto tra mare e cielo – entrambi inseguono letteralmente ogni scarica e cambio tonale, graffiando con ansia febbrile i loro taccuini, pagina su pagina per fermare l’impressione, singolare arte divinatoria che precorre di mezzo secolo, forse più, le sorti della pittura.     
Sfidare la tempesta non era cosa eccezionale per gli artisti e i poeti romantici, rischiare la vita e arrivare anche a perderla pur di osservare da vicino la sconcertante potenza degli elementi naturali. Si direbbe il bisogno fisico di calarsi in qualcosa di grandioso, sentire su di sé il soffio dei Titani, immergersi per vedere oltre il limite umanamente consentito, accettando l’incognita di non riemergere. Son finiti così Giovanni Carnovali, morto annegato nel Po mentre cercava luoghi nascosti da dipingere, Ippolito Caffi, che voleva documentare il mare sconvolto dalla guerra durante la battaglia di Lissa, anime romantiche sebbene anagraficamente già tardo ottocentesche, e Shelley, che fece naufragio a largo della Versilia.
I taccuini di Turner, custoditi sopra le sale della collezione esposta alla Tate, testimoniano la sua attività dal 1790 – qui si tratta di schizzi più scolastici – al 1840, via via che il suo estro fa spazio alle pure visioni luminose poi fissate compiutamente su tela. È impressa su questi fogli la volontà di imbrigliare l’attimo, cogliere la transitorietà del mondo sospeso sull’orlo di un’ardua rivelazione. Ombre foscoliane, vibrazioni attinte al “nevoso aere”, miraggi di tregua nella burrasca, luce in rivolta, pulsazione sismica dei cieli. Tutto si concentra e si affila sul pennino, l’inedito flusso di forme e colori crea vortici immensi e rapidissimi. Sfogliare i suoi sketchbook significa fare esperienza di questo invasamento d’artista verso ciò che non si può interamente contenere né fissare. Lo studio dei cieli getta un influsso visionario pure sulle architetture come si vede nella resa di un arco gotico, bianco su bianco, pietra dilavata dalla luce.   
Le nubi in quanto soggetto, l’immateriale che diviene materia creativa, si raccolgono intorno a un pendolo dotato di moto perpetuo nella storia dell’arte, caleidoscopio del pensiero, specchio di visioni. Al centro di numerose mostre pittoriche e fotografiche – non è da ignorare che alcuni grandi nomi della fotografia si siano cimentati proprio nel ritratto delle nubi – ricordiamo la grande esposizione al Museo Leopold di Vienna nel 2013, “Wolken. Welt des Flüchtigen” (Nuvole. Mondi fluttuanti), celebrativa di duecento anni di poesia atmosferica, e “La teoria della nuvola”, rassegna di scatti d’autore promossa nel 2016 dalla galleria Marcolini di Forlì, luogo di estetiche raffinate.
Dai nembi statuari del Mantegna alle vaporose e serafiche nuvole settecentesche alla Tiepolo, il romanticismo sconvolge stili e certezze cromatiche, suonando altri tamburi di guerra. Le nubi riempiono gli orizzonti dell’arte come nuove dee cui guardare, simbolo di una devozione assoluta per la natura, sfidata in quanto venerata dall’uomo. Necessità di recuperare una dimensione spirituale da opporre alla deriva materialista configurata dalle conseguenze dell’illuminismo ma anche presentita nella nascente industrializzazione. A questi stessi semi divini guardarono l’impressionismo e il naturalismo sbocciato alla Scuola di Barbizon. Da simbolo biblico – la nube dimora di Dio, avvolto in un insondabile mistero – a centro radiante di un’altra metafisica, una religione dell’umano, diversa eppure complementare. Nei taccuini di Turner e negli schizzi per certi versi gemelli di Constable si scorge l’iniziazione moderna alla sacralità della nuvola, appendice spirituale, organo di una più acuta percezione attraverso cui l’essere umano tenta di scandire la sua assonanza con l’universo.



* Immagini nel corpo del post tratte dai taccuini di Turner:

1. Onda che si infrange sulla spiaggia, 1830
2. Interno di una cattedrale, 1819
 


Turner - Taccuini - Nuvole I 
  


Turner - Taccuini - Nuvole II



Turner - Taccuini - Nuvole III



Turner - Taccuini - Nuvole di tempesta sul mare


Constable - Quaderno di studi sulle nuvole

















 


 Luigi Ghirri - Nuvole ©



Foto di Claudia Ciardi 
© 
Cieli di novembre alla Turner
(serie) 












9 novembre 2019

Marco Revelli - Poveri, noi



Analisi di un’emergenza sociale, denunciata a mezza bocca, molto più frequentemente sottaciuta dai canali ufficiali dell’informazione. In queste pagine, concentrate soprattutto sul quinquennio che va dal 2006 al 2010, si racconta, statistiche alla mano, come le economie del vecchio continente abbiano subito nel corso di quegli anni cruciali un riassetto senza precedenti, gettando i singoli paesi in un limbo in cui il meccanismo redistributivo è rimasto inceppato e l’incertezza è divenuta la regola del mondo del lavoro, via via più rarefatto e disgregato, incidendo pesantemente sulla qualità di vita di milioni di cittadini. Un racconto inchiodato ai numeri dei rapporti Cies – Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, della quale Revelli è stato presidente proprio negli anni dell’affondo fatale dell’economia italiana – e a quelli diffusi da Istat, Eurostat e altri organismi, che nel periodo posto sotto osservazione hanno fotografato la crescita di uno stato d’emergenza ripetutamente mitigato da narrazioni politiche e mediatiche incaricate di stemperare, se non di distogliere l’attenzione da un qualcosa di somigliante a un incidente di percorso, nulla di più. Come se la crescita della povertà non dovesse in fondo riguardarci, tantomeno preoccuparci, come fossimo di fronte a una caduta fisiologica, una delle fasi alterne che si sono prodotte nel recente passato dell’esperienza capitalista. Come se il rischio di deprivazione, per quanto vicino, fosse sempre un po’ più distante da noi, in una misura bastevole da farci sentire sicuri. Eppure, le statistiche, la crudezza dei numeri, i sondaggi negli umori della classe media italiana, condotti all’inizio del millennio e poi di seguito, fino all’esplodere della crisi dei subprimes negli Stati Uniti accompagnata dalla fiammata inflazionistica del 2008, ci parlano di una fragilità materiale in aumento e di una parallela esasperazione psicologica a livello familiare e individuale – presidio tutto italiano quello della famiglia, con i suoi punti a favore ma anche le chiare limitazioni che un welfare informale incentrato quasi unicamente sulla parentela comporta.
A fronte di ciò, si è registrato un arretramento dell’idea, e dunque della pratica, universalistica dei diritti, la cui latitanza, laddove il cittadino tende la mano a determinate forme di tutela aspettandosi la loro attivazione, risulta ancora più nefasta in periodi di difficoltà. L’allarme lanciato da Marco Revelli, nella sua puntuale e articolata rassegna sugli anni neri della crisi non mancando di trattare i suoi immediati prodromi, è di una contestuale riduzione del concetto di cittadinanza, che si riflette inevitabilmente su quello di democrazia. Uno scivolamento da considerare con inquietudine, che gli squilibri politici odierni riflettono nella sua totalità – una politica che entra sempre più spesso in fibrillazione e che è costretta a ripiegare in assetti dichiarati fino a un minuto prima irricevibili – e sullo sfondo un panorama immobile, un ascensore sociale pressoché scomparso, dove perfino l’ingranaggio di cooptazione nel ciclo lavorativo pende in modo inaccettabile verso favoritismi privati, centri di potere, rapporti di forza vantati a titolo personale. Lo sguardo dell’autore coglie nella realtà che va configurandosi «il rischio della regressione a forme servili della cittadinanza – in cui alla forza emancipante dei diritti si sostituisca il mercato delle protezioni e delle fedeltà», e ancora «la ricchezza dei ricchi, come nelle società di ceto tardomedievali, è diventata intoccabile. Se redistribuzione dev’esserci, che sia tra le già scarse risorse degli altri, chiamati a contendersi le briciole del reddito e dei diritti che non sono ancora evaporate nei circuiti astratti della finanza globale e restano “in basso”, sul terreno, fisicamente visibili nella loro prossimità».
Tipologie diverse di lavoratori per diverse tipologie di cittadini. Dalla fine degli anni Novanta, nel vortice delle ristrutturazioni aziendali, nel progressivo smantellamento dei grandi poli industriali, nella giungla sregolata e competitiva dei subappalti, vi sono state trasformazioni e migrazioni del lavoratore garantito, legato a un contratto stabile e a un posto considerato altrettanto sicuro, in zone opache del mercato, settori che hanno generato situazioni atipiche contraddistinte dall’assenza di tutele. Questa implosione del lavoro tradizionale, almeno com’era inteso nel cosiddetto periodo aureo del fordismo dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta circa, ha gettato intorno a sé frammenti, estensibili, di precarietà. Lavoro dipendente e lavoro autonomo si sono ricollocati nella parte inferiore della scala sociale, costretti a subire l’aggressività di leggi di mercato sempre meno mediate, portati a reinventarsi, attori inediti nei fatti dotati di limitatissima capacità di azione e autodifesa dai contraccolpi di uno sviluppo economico progressivamente più liquido e indecifrabile. Forza lavoro di regola sommersa, molto più di rado salvata.   
Da ciò deriva che pure l’esercizio della cittadinanza risulti esposto a una altrettanto forte divaricazione. Essere cittadino non è infatti giocare un ruolo passivo. La passività si attaglia a quella cittadinanza dimidiata, spinta sull’orlo del baratro, quando non spinta fuori dai riti regolati del vivere comune. Si coglie dunque «la divaricazione radicale tra élite e popolo, con le prime proiettate in alto, nel grande circuito dei flussi ad ampio raggio, e l’altro ancorato ai propri luoghi. Le une titolari di un’ipercittadinanza in un sistema-mondo a scorrimento veloce che riconosce solo la legge del più forte e le stelle di prima grandezza, l’altro di una cittadinanza dimidiata, inerte, inevitabilmente passiva». 
Essendo trascorsi dieci anni da questa scrittura, possiamo affermare che le dinamiche qui trattate si sono oggi espresse con brutale compiutezza, allargando questa intollerabile divaricazione, scagliando moltissimi in quella zona d’ombra tragicamente ampliata che segna il confine tra miracolati, nuovi poveri o a rischio povertà.
Fenomeno tuttora in atto questo del depauperamento di massa, che in occidente ha il volto di un feroce disincanto: colpisce infatti una platea di consumatori in preda alle più alte e ottimistiche aspettative, ma li costringe a scontrarsi con le loro ridimensionate possibilità. Parlarne è quasi un tabù, perché la povertà spaventa, e il solo evocarla è inteso come una iattura; non la razionale riflessione su un problema che sta facendo deflagrare le nostre società, ma una intollerabile lettura pessimistica di qualcosa di endemico, vecchio quanto l’uomo. È questa attitudine, peraltro, a giustificare politiche orientate all’indifferenza o al ridimensionamento. Basti pensare alla bufera che ha investito il reddito di cittadinanza, ancora al centro di polemiche, se non attacchi velenosi al limite dell’intolleranza, in un’Italia che nell’ultimo decennio ha visto evaporare il proprio pil e buona parte delle proprie rendite di posizione, arrivata nel bel mezzo della lunga crisi con ammortizzatori sociali scarichi e senza salvagenti sociali, unico caso europeo insieme a Grecia e Ungheria. E ancora si trovano argomenti per litigare perfino su questa misura di civiltà, difesa a ragione dallo stesso Marco Revelli in un suo recente intervento.   
Senza rientrare nell’ottica di uno stato di diritto, senza tutele degli ampi strati sociali caduti ai margini se non fuori dal sistema, senza riattivare quei meccanismi strategici e vitali di redistribuzione dei redditi, unica terapia in grado di abbassare il livello o prosciugare i serbatoi di invidia, livore, intolleranza, odio, il rischio concreto di una regressione dei fondamenti democratici è dietro l’angolo. Tutti i giorni si abbassa l’asticella e scatta un fosco preallarme. Implementare le tutele, significa garantire la tenuta di quegli strati sociali che sono l’unico argine funzionale a contenere il disastro. Qualche metro più in là c’è un fiume in piena. Stiamo camminando, in equilibrio sempre più precario, a pochi passi dalla piena.   

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consultata:

Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, 2010 (e ristampe)