Da
alcuni anni mi ripromettevo di leggere integralmente questo libro. Ricordavo solo
qualche brano in vecchie antologie scolastiche e poche frettolose notizie circa
la biografia dell’autore. A gennaio, non so perché, ho sentito il bisogno di
tornare a quelle pagine. In genere, quando vado verso qualcosa o qualcuno, passato
gran tempo dal mio primo proposito, non è indifferente la ragione che mi spinge
di nuovo a incontrarlo. Così, qualche settimana fa, ho avvertito che il libro di
Pellico aveva finalmente da parlarmi.
Scriverne
ora potrebbe suonare quasi beffardo, ma chi poteva presagire solo poche settimane
fa la situazione che stiamo vivendo? Per prima cosa mi viene da pensare alle date, che un po’ mi
ossessionano, dico la verità. Non sempre, ma ci sono dei momenti in cui
sembrano portarci sprazzi del passato con toni più vividi, per correlazioni
che forse son solo nella nostra testa ma che pure non riusciamo a ignorare del
tutto. Così risalire a un evento è talvolta cercare le ragioni di un vissuto che
riguarda noi o altri, almeno coltivare ipotesi di somiglianza, per così dire.
Silvio
Pellico fu arrestato nell’ottobre del 1820. Nel suo rendiconto lascia talora spazio
a strane coincidenze, pur non annoverate esplicitamente come tali, ma che registra in forma di
episodi dai risvolti per certi aspetti premonitori. Intervengono è evidente lo stato
psicologico del detenuto e la difficoltà di dominare le forti impressioni
causate dall’arresto. Ricorda la piazzetta veneziana, nei pressi del palazzo
del Doge, che un pover’uomo gli indicò quale luogo di sventura – mesi dopo
Pellico e Maroncelli, suo compagno di prigionia, vi avrebbero ascoltato la
sentenza.
Ma
c’è anche l’attaccamento spontaneo, generoso e insperato, di molti: custodi,
intendenti, civili che vivevano nei pressi delle prigioni e che lo
incoraggiano rivolgendogli un saluto, furtive parole di affetto; immensa
carità, lo scrive più volte, per un’anima stremata. Umano conforto che ritrova
allo Spielberg nella persona del vecchio Schiller, il sorvegliante dai modi
burberi ma di gran cuore, nelle guardie che lo accompagnano per l’ora d’aria,
nei medici, nei cappellani. Proprio tale umanità gli permise di non recidere il
filo sottile che lo legava alla vita, di non sconfortarsi oltre ogni limite, di
reggere nel corpo e nello spirito, di superare le mancanze del cibo cattivo –
non furono pochi i prigionieri italiani morti per malnutrizione – di
vincere le malattie – stati febbrili, coliche, affezioni respiratorie che
sovente lo affliggevano, contribuendo a demoralizzarlo.
La grandezza di questo memoriale sta nel raccontare i travagli del corpo,
confinato in uno spazio angusto e svilito da ogni genere di tormento fisico e
interiore, senza lamento, senza accuse postume. Lo scrittore si racconta,
si mostra nei momenti più oscuri della caduta, a un passo dal cedere, ma ogni
volta mette a fuoco, nella sofferenza, quei pochi eppure potentissimi elementi
che gli permettono di sostenersi per uscire dal baratro. Perfino l’infermità di
Maroncelli, che gli comporta la mutilazione di un arto, sopportata con coraggio,
quasi sfidata, diviene un elemento che rafforza la complicità dei
due condannati e li fa approdare a uno stato di quiete – non di pura
rassegnazione – ma di calma nei confronti del mondo. Un libro scritto sulla
pelle, in senso letterale.
Al
momento dell’arresto Silvio Pellico non era una figura così nota nel panorama
culturale italiano. Eppure, quella notizia, riaccese l’attenzione sulla sua
personalità e gli avvicinò tanti nelle ore complicate del processo e della
condanna. Quello che era un mite e riservato autore di testi di teatro, uno dei
quali, la Francesca da Rimini, giunto a un discreto successo popolare,
l’attivista politico di cui poco si sapeva ma che a Milano frequentava i
migliori elementi dell’aristocrazia illuminata e dell’intellettualità
progressista italiana ed europea, conobbe, per un inquietante tiro del destino,
proprio nelle sue ore peggiori, una specie di battesimo, un riconoscimento
durevole, che alla liberazione si sarebbe accresciuto accompagnandolo per il
resto della vita. Ne sono commovente testimonianza le folle che fanno da scorta al
suo viaggio verso le carceri imperiali. Da quell’«immenso popolo» in preda al
terrore, ma presente alla lettura pubblica della sentenza, dai paesani che
salutavano il passaggio della carrozza e che le guardie facevano fatica a
tenere lontani, agli amici che vengono a congedarsi. Struggente
l’episodio degli attori di una compagnia teatrale che a Udine si travisano da
inservienti e preparano la stanza dove Pellico e Maroncelli trascorreranno la
notte prima di passare il confine. Uno sfiorarsi di mani, una stretta rubata
lungo le scale, in silenzio, coi visi rivolti a terra per dissimulare i gesti e
non farsi scoprire dalle guardie. Quanta poesia in ogni riga di questo episodio.
Il contatto, negato per regolamento ai prigionieri, talvolta possibile grazie
alla condiscendenza delle guardie, torna a più riprese, sprigionando una forza
che si trasmette al lettore senza filtri retorici. Una sensazione che con
immediatezza passa dal protagonista a chi ripercorre i fatti insieme a lui;
potere irrefrenabile del gesto, l’umano che travalica la parola e di là dal
linguaggio comunica tutto se stesso.
Nell’agosto
del 1820 l’Austria aveva emanato un editto assai duro contro i reati politici,
che contemplava la pena di morte per gli affiliati alla Carboneria. Chi
incappava nella giustizia si aspettava allora il peggio. La polizia austriaca
avrebbe comminato pene esemplari, per fiaccare l’adesione ai moti patriottici.
Pellico lo sa e non teme tanto per se stesso, quanto per il dolore che ne
avrebbero avuto i genitori una volta venuti a conoscenza della sua esposizione politica.
Il
raffronto tra la pacifica condizione di intellettuale attivo nei circoli
milanesi, fino all’anno che precede la sventura, e l’abbrutimento generato
dalla prigionia, con l’angoscia che si addensa sui giorni trascorsi in cella, è
uno dei centri radiali della narrazione. In questo spossante contrasto, la
figura di Pellico è sul punto di spezzarsi. Eppure, quando ormai pare non
potersi riprendere, trova energie nuove dentro di sé, riuscendo a risollevarsi.
Il pensiero dei propri cari, la convinzione di non aver smarrito i principi
guida della morale in ogni scelta compiuta, la consolazione della fede.
Le
memorie di quest’uomo minuto, la cui fisicità lo faceva apparire inerme ai disagi della reclusione, ma che aveva una forza nella
propria mente, una disposizione caratteriale che gli hanno permesso di non
sgretolarsi mai, di parare i colpi della sorte e volgere gli eventi alla
propria salvezza, si sono mostrate un faro acceso nella tempesta. All’inizio
dell’anno, quando ho ripreso in mano quest’opera, le sue parole sono giunte
inaspettate, l’eco di un tempo trascorso che però a tratti mi pareva anche estremamente
contiguo al mio. E poi, le immagini della sua vicissitudine affidate a una prosa
così asciutta, incisiva, dove il resoconto di fatti monotoni e angoscianti – la
lunga carcerazione in Moravia e prima ancora il fermo a Milano e le fasi
dell’interrogatorio fino alla sentenza a Venezia – apre poeticissimi squarci
che sorprendono il lettore proprio perché calati in un contesto ossessivo, di
claustrofobica incertezza. Due righe bastano a circoscrivere un fatto,
l’espressione di una persona, l’attimo di una giornata trascorsa nella più
fosca disperazione in mezzo alla quale una voce cade improvvisa, recando sollievo al
prigioniero.
Quando
si decise a divulgare la sua esperienza del carcere, era il 1832. La stesura
iniziò nell’estate del 1831 e il manoscritto fu dato alle stampe dall’editore
Bocca di Torino ai primi di novembre del 1832. L’opera ebbe un riscontro di
pubblico immediato, non solo in Italia. Le traduzioni si moltiplicarono ovunque
anche se ciò non significò un incremento dei guadagni da parte dell’autore –
per contratto Pellico si vide corrisposte le sole 900 lire dovute alla consegna
del libro. Anche questa una storia molto italiana, purtroppo. Entusiasmo e
apprezzamenti arrivarono da tanti personaggi di spicco – Puškin lesse il libro pervaso
da ammirata riverenza per colui che definì “il martire mansueto”, la nobiltà
piemontese gli offrì la propria amicizia, Luigi Filippo di Francia lo richiese
come precettore del suo ultimo figlio. Metternich invece nelle settimane di
quel successo masticava amaro. Fu tentato inutilmente il sequestro censorio,
vennero scritte due confutazioni da parte austriaca – una delle quali di pugno
del governatore della Moravia – ma si decise di non pubblicarle, pervennero
note di protesta ad alcuni governi, tra cui ovviamente la monarchia piemontese.
Si provvide a un ritiro pro forma del volume che nei fatti continuò a
circolare.
Nel
turbamento con cui Silvio Pellico ripercorre i dieci anni di carcere, colpisce
l’attenzione per tanti minimi dettagli che tuttavia s’impongono alla vista come
preziosi intarsi. Dopo dieci anni la sua memoria è integra, nitida, non ha
rimosso niente, non risparmia persone e circostanze. Il dolore per non aver
potuto salutare un compagno, la pena per l’essere impedito dall’alleviare le
sofferenze di qualcuno. Altra stupenda poesia: il vecchio Schiller che ormai malato
si trascina in un piccolo cortiletto a leggere e riposare; la fine è vicina.
Pellico lo intravede, lo segue qualche attimo con lo sguardo, vorrebbe sorreggerlo.
Così l’Austria sfumerà in un’immagine rothiana fermata nel parco di Schönbrunn. Alla
scarcerazione i prigionieri, accompagnati per Vienna affinché prendano atto della magnificenza dell’impero asburgico, passeggiano per le vie della
residenza imperiale. D’improvviso «ne’ magnifici viali […] passò l’imperatore,
ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone
non l’attristasse».
Al dramma della prigione sottentrano quindi le limpide memorie dell’infanzia
e della giovinezza, il caro parente che gli dà riparo a Lione, quando la
bottega del padre a Torino inizia ad andar male, provvedendo alla sua educazione
umanistica. Lo studio e la conoscenza di coltissimi amici a Milano, dove incrocia
i nomi di punta che collaboravano al «Conciliatore» e dove lui stesso diviene
precettore nella casa del conte Luigi Porro Lambertenghi.
Nelle
attuali dialettiche cui la politica e l’opinione pubblica attingono per rappresentarsi,
appare chiaro come si faccia ricorso molto più frequentemente alla resistenza
che al risorgimento. Non solo per una vicinanza generazionale, a mio avviso. La
semplificazione del dibattito comporta una lettura più comoda e facilmente
utilizzabile dei fatti relativi alla resistenza, laddove il risorgimento si
configura come lotta nazionalista. Negli stessi racconti relativi alla
resistenza gli elementi patriottici tendono a essere ridimensionati, sfumati in
una guerra più grande e complessa in cui convivevano diverse istanze. E va bene,
ma liberarsi dagli oppressori era liberare la patria. Nel
Novecento come un secolo prima. Questo contenuto nazionalista ci si pone come un divieto, oggi. E divide fortemente gli intellettuali. Opere come Le mie prigioni
e i tanti scritti prodotti da quella cultura resistente e congiunta nello
sforzo di unire l’Italia, sono percepiti quasi come letteratura minore; dove ci
sono i primi tasselli di una memoria collettiva, voltiamo le spalle, convinti
che non si tratti di cose poi tanto importanti. Ma è l’ignoranza di quei testi,
il fatto che ci si tiene a distanza dalle fonti, a non farci acquisire un
giudizio storico schietto, che sappia guardare agli avvenimenti per ciò che realmente
hanno prodotto. Peggio ancora, è questa ignoranza del fatto storico e dei suoi protagonisti
che impedisce di ricordarci a noi stessi.
La
decisione di scrivere l’autobiografia del decennio passato in carcere fu tutt’altro
che semplice per Silvio Pellico. Era tornato in famiglia a Torino con molti
problemi fisici. Impiegò più di due anni per riprendersi dalle artriti e dai
problemi polmonari. Nei cosiddetti capitoli aggiunti parla delle difficoltà di
ristabilirsi completamente e di come la madre, preoccupata, vegli di continuo
sul suo stato di salute, perfino mentre dorme. C’è anche qui un momento di
poesia assoluta. La prima notte di settembre del 1830, a casa, dopo un lungo viaggio
affrontato tra febbri e timori che la liberazione venisse ritardata a causa dei
moti occorsi in Francia alla fine di luglio. La madre si aggira per le stanze e
vigila sul sonno del figlio, assicurandosi che stia bene. Questa scena, seguita
subito dopo dal risveglio e dall’abbraccio tra i due, nel silenzio assoluto del
mattino, placa di colpo tutte le angosce patite, i dolori, le asprezze di quei
miseri anni di separazione. Simili doni che non pensava più di ricevere, permettono
al prigioniero di riscattarsi, di rientrare a poco a poco nella propria vita.
Le
polemiche sulla sua conversione in carcere, gli attacchi politici, anche veementi
a mezzo stampa, di chi non aveva voluto comprendere il suo memoriale, non lo
fiaccarono. Si tenne alla larga dalle contrapposizioni, lasciò che si
esaurissero. L’essere tornato al centro dei propri affetti, l’aver lottato con
dignità, la crescente risonanza pubblica bastarono al suo messaggio.
(Di
Claudia Ciardi)
* Le foto a corredo di questo articolo sono di Daniele Regis ©
La foto di copertina ritrae la tomba di Silvio Pellico al Cimitero Monumentale di Torino
Edizione consultata:
Silvio Pellico, Le mie prigioni, a cura di Angelo Jacomuzzi, Mondadori, Milano 2012 [prima edizione 1986]
*molto valida per il ricco apparato di note provvisto dal curatore
Per i cosiddetti "capitoli aggiunti":
Edizioni Paoline, Bari 1951
Iscrizione celebrativa della stesura di Le mie prigioni in Via Barbaroux a Torino, presso quella che fu l’abitazione di Silvio Pellico
Via Barbaroux - Torino