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30 giugno 2020

Νόστος – Il ritorno come nostalgia


C’è una frase di Antoni Gaudí, estroso architetto catalano, protagonista di una delle più vivide rivoluzioni nell’arte e nel pensiero novecenteschi, che dice: l’originalità consiste nel tornare alle origini. Emblematico che un ingegno tanto versatile e proiettato fuori dai propri confini, destinato ad attraversare mondi e culture diversi e in quella diversità per lappunto essere capito e ammirato, esprima la sua idea d’innovazione nella stretta, imprescindibile consuetudine col passato e con ciò che presiede al nostro affacciarsi alla vita. Senza aver ben in mente le proprie radici è difficile tracciare un percorso, dunque comunicare qualcosa di sé agli altri, ma anche a se stessi. L’iniziazione al viaggio ha bisogno di contenuti, la linfa che scorre in noi da quando siamo bambini e con cui sempre aspireremo a dissetarci. I seni materni e l’aria che respiriamo nel luogo che veglia sui nostri primi passi. E le parlate dialettali che ci accarezzano al pari dei canti di culla. È in questo lembo terreno, fra i visi e le voci che lo popolano, a germogliare la nostra semenza e assorbire i nutrimenti che l’accrescono. Questo sottile incanto penetra in noi molto più di quanto lucidamente ci è dato considerare cosicché a quegli sprazzi di beatitudine tenderemo sempre, anche quando ci sembrerà di averli dimenticati, anche quando tornarvi non sarà possibile. Se il tema del νόστος da Omero al tardoantico ha ispirato le pagine forse più celebri del racconto epico, lanciandosi poi alla conquista della modernità, è perché suscita un bisogno umano inesauribile. L’archetipo del ritorno è il viaggio per eccellenza; racchiude rive sconosciute ma sollecita la poesia domestica che portiamo nel cuore. Così Ulisse, in lotta tra demoni e paure, vince ogni prova per la nostalgia della casa – perché essenza del νόστος è la nostalgia, il desiderio di ritrovare quel che si è perduto. Tornare, rivedersi, recuperare frammenti di vita che ci siamo lasciati alle spalle, senza i quali la nostra presenza vacilla. Così Ovidio spera continuamente che la pena dell’esilio sia mitigata e di rivedere, un giorno, Roma. Così Rutilio Namaziano sfida i pericoli delle invasioni, il dolore causato dalla vastità delle rovine che ricoprono l’impero e torna in Gallia, perché vuole scoprire cosa resti dei luoghi della sua nascita, dove si posò il suo sguardo di bambino, unica scialuppa cui aggrapparsi in mezzo alle tempeste del crollo e della decadenza.
Eppure, anche negli abissi della perdita, il faro degli affetti, dei ricordi, dei venerati idoli, che noi almeno stimavamo tali e che ci hanno cresciuto con la loro bonaria saggezza, resiste. Alessia Rovina ci conduce per queste terre sentimentali, in un toccante racconto dove miti rustici, poesia, dialetto sono le solide radici che reggono l’albero della vita.

(Di Claudia Ciardi)  



Paternità - Foto di Alessia Rovina ©
 

Quel necessario tornare
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Nel seno di ogni partenza, o ri-partenza, per qualsiasi viaggio sta il rapporto con la banchina che si è dovuta – o voluta – lasciare. Tenendo nel cuore il bellissimo Elogio alla fuga di Henri Laborit, per chi come me si sente da sempre un Argonauta destinato a trovare una meta-altra, arriva poi pure un momento in cui si è costretti a riavvolgere il gomitolo del proprio trascorso, a dover edificare una qualsiasi dimora, su una base però che sa di origine. Origine, come ci insegna la sua stessa etimologia, ha il significato di nascita e di provenienza: un nucleo potenzialmente eterno e profondamente non scelto, non selezionato, in barba alle tante distopie – talvolta tragicamente reali – che ci illudono della possibilità di decidere come meglio manipolare le unicità di chi dovrà originarsi. Un punto di energia centrifuga e centripeta, da cui dobbiamo emanciparci per non rischiare di marcire – così avvertiva il lirico Pindaro nella sua Pitica IV a proposito dei nostri mitici marinai, pronti a pagare con la vita la scoperta del proprio valore – e un luogo a cui dover ritornare, per quella, a parer mio, eterna riconciliazione con il passato che è la vita. La mia base è quel lembo di terra pianeggiante e rustica, ubertosa e afosa cantata dal Virgilio più profondamente commosso – quello degli espropri sofferti e del fitto cicalare estivo – e, in tempi molto più vicini a noi, dal Guareschi e dai suoi adattamenti cinematografici, che in quella striscia di piccolo mondo antico fa litigare e gioire quegli idoli novecenteschi profondamente vivi nel cuore di chi, come me, qui cresce, e inizia a sognare. Vantiamo qui una porzione della prodigiosa varietà dialettale propria della nostra bella Penisola, lingua arcaica e spesso incomprensibile, regolata da strane grammatiche che abbondano negli armadi tarlati dei Nonni, con cui la sapienza e la poesia si tramandano, e non solo in casa. Poche date qui sono pari al Natale. Una, è sicuramente il 29 Giugno. È il giorno in cui cade la festa patronale dei Santi Pietro e Paolo, non i veri protettori del Paesello, ma i custodi della speciale distribuzione dai campi del frutto locale, pesante sfera di aspettative: il melone – nel nostro dialetto del basso Mantovano: al mlòn. Come in un antico rituale panico, pienamente aderente al nostro génos mediterraneo, il popolo si riunisce, senza distinzione alcuna, e si prepara a godere di questa grande celebrazione terrena, non senza l’intervento dei nostri cantori, aedi anziani, con la pelle raggrinzita dal lavoro campestre di una vita e vestiti di cenci colorati, esperti sapienti e custodi del nostro bagaglio di fantasticherie. Il nostro Omero è da sempre Pèdar, l’om da la gamba stanca, un prodigioso musicista e poeta dialettale, conquistatore di grandi riconoscimenti, intrattenitore di quella comune preghiera di ringraziamento alle divinità ctonie ancora presenti, intervenute nella rinascita del frutto del Sole, ancora propizie con un paese che vorrebbe abbandonare la propria origine, ma che trova pur sempre piena identità in quei tramonti magenta che si distendono, stanchi, sugli interminabili campi di grano. L’estate, folta di zanzare e della Golena fluviale che rivive dopo il pesante bagaglio delle nebbie, è sfrontata, come in quella parte più vera dell’Italia, e batte la sua lingua nei filòss, equivalente padano dei simposi e del ciacciàre toscano, in cui un qualsiasi giro di Quartiere diviene un poema epico fatto di tappe burlesche tra quei circoli di sedie legnose in cui le anziane risdùre  – meraviglioso termine il cui significato è ristoratrici, concordi con lo spirito di queste mogli rustiche, forti e accoglienti – ancora avvolte nei loro grembiuli che sono impregnati del profumo della noce moscata e del cacio, interrompono sicure il tragitto del viandante, sconosciuto e conosciuto, per saluti, doni mangerecci e sempre immancabili pettegolezzi di paese. Femio e Demodoco sono così la sciura Maria e la sciura Rina, e le imprese eroiche, quelle vere, diventano le rivolte dei partigiani nelle vie dei Giardini, il lavoro duro, nobile, per mantenere le famiglie, il continuare a sognare nonostante un mondo che loro per prime vedono andare in frantumi, prima ancora che i giovani vi si affaccino, e le convivenze dei preti con gli storici comunisti del Paesello. Le novelle riportate, i proverbi, saranno compagni inaspettati di tutta la nostra vita, tanto che, se faremo una scelta di vita radicale, naturista, e per così dire francescana, saremo a la manéra ad Ramòn, la nostra vedetta del Grande Fiume, un anziano signore da sempre stabile in una roulotte sullo Spiaggione del Po, mentre, se sceglieremo come Don Abbondio di stare dalla parte del più forte, nascondendoci nei nostri comodi, avremo deciso di stàr da la banda dal furmantòn, di stare dal lato del granturco, al cui fittizio riparo possono pensare di star sicuri una moltitudine di esseri viventi. Qui, l’estate è spietata e non lascia scampo. Sorride volgare nella sua pesante calura, ed elargisce frutti nella stessa misura con cui poi si tramuterà in nebbia, che tutto confonde e cela. Unica salvezza, allora, sarà in Novembre arrivare al rogo del brüsa la vécia, una consuetudine non solo Padana, ma anche Bolognese e Romagnola, e in quanti altri luoghi, Ispanici, Calabri ed Ellenici, nel cui rituale incendio del vecchio, dell’infruttuoso e dello sterile, ci si prepara ad accogliere una nuova vita. Ancora dura e ancora nascosta, ma foriera di nuove avventure. Un dolce e struggente Amarcord, quel nostro singolo romanzo di formazione eterna. Ecco, le origini: un debito imposto, non scelto, con cui ripetutamente saldare il conto, stimandolo necessario nelle sue più acute asperità, nei suoi inciampi, giudicandolo prezioso, per il potenziale che dona, che è sì un tornare continuo… Ma è anche un sentiero che porta nelle profondità più vere e più ricche del nostro personale ed irripetibile destino.

(Di Alessia Rovina, 26/06/2020
classicista e appassionata di teatro,
account twitter: @rovina_alessia)