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25 agosto 2021

Se si danno solo i numeri




Charlie Chaplin aveva capito tutto. Nel 1936 il suo film Tempi moderni, capolavoro legato all’ultima apparizione del personaggio di Charlot, sbeffeggiava i ritmi della catena di montaggio, l’alienazione prodotta dalla fabbrica, il disagio sociale e psicologico in cui versavano i più sfruttati fra gli operai. Analisi della massa nel suo spaccato più problematico di diseredati e working poors in lotta per la sopravvivenza. Già in un’intervista del 1931 l’attore dichiarava: «I macchinari che consentono di risparmiare manodopera ed altre invenzioni moderne non sono stati fatti per ricavare profitto ma per assistere l’umanità nella ricerca della felicità. La speranza per il futuro dipende da cambiamenti radicali per far fronte a questa situazione. I benestanti non vogliono che la situazione presente cambi».
E dunque, nella nostra società ipertecnologica che finalmente potrebbe (e bisognerà lo faccia) guardare a forme di affrancamento da tipologie di lavoro ripetitive, usuranti, deprimenti, siamo piuttosto inclini a un uso coercitivo di tali conquiste, potenziando sistemi di controllo del lavoratore, obbligato, minacciato, tenuto in bilico tra nuovo caporalato, tracciamenti, tutele riviste al ribasso.
Agosto si chiude con l’immagine dei dipendenti Ikea sprovvisti di green pass fatti accomodare fuori dai locali mensa, seduti per terra a consumare il pranzo. Ciò che ho scritto una ventina di giorni fa, sul rischio di esiti discriminatori, sul fatto che questo strumento nato per dare regole di viaggio sicure e uniformi in UE si frammentasse in una miriade di utilizzi pretestuosi, generando sovrapposizioni, confusione e situazioni paradossali, eccolo sotto i nostri occhi – e alla fin fine proprio quello per cui era stato concepito ha incontrato semmai una blanda applicazione, tra chi è rientrato da paesi a rischio senza essere testato e automobilisti che sono riusciti a bucare i confini senza particolari problemi (come nel caso della frontiera Italia-Svizzera). Nel frattempo si ragiona sull’estensione del pass, cercando di arrivare almeno a fine anno. Evidenze scientifiche o necessità strategica? Come ricominciare a vaccinare il personale sanitario che ha il pass in scadenza a ottobre, presumibilmente alle soglie di un’altra stagione in emergenza? Numeri che cambiano ancora. Le cosiddette prove scientifiche solo a seguire. Forse.
La pervasività dei numeri ci accompagna ormai da due anni. Quasi che elencare delle cifre fosse sufficiente a conferire maggiore autorevolezza a quel che si dichiara. Sì, certo, i numeri sono importanti ma occorre analizzarli, definirli con precisione nel contesto cui si riferiscono, raffrontarli, cose che invece si continuano a fare piuttosto di rado. Ognuno porta le sue cifre e ne astrae le proprie evidenze, quando anche il più limitato ed elementare esercizio statistico richiederebbe invece tempi lunghi e campioni molto più compositi. Ma questi due anni, se da una parte son venuti a imporre battute d’arresto, cesure, divieti, sembrano aver esasperato non di poco la fretta del giudizio, che si concede appena un paio di mesi o solo una, due settimane per rivedere parametri, tendenze, discutere benefici, decidere interventi che produrranno conseguenze e che per questo andrebbero stabiliti con criteri inclusivi e possibilmente coerenti.
Se la società è un corpo armonico, che come tale occorre si sviluppi e consolidi in tutte le sue parti – così è già nella buona teoria politica degli antichi – produrre frammentazione non si direbbe per nulla un buon affare.
L’esercizio ragionieristico pare aver sostituito progetti di ampio respiro che prevedano un ruolo consolidato e di responsabile investimento da parte delle banche. A parte la cessione del quinto, l’indebitamento costante di stipendiati e pensionati, il ricorso al prestito indotto dal sistema in cui viviamo – e non pagare adeguatamente le persone ben rientra in questo disegno –  cos’è intervenuto di diverso dal 2019 ad oggi? È cambiata forse impostazione?
Eppure ci sono tanti economisti, studiosi di nuove teorie del mercato e ricercatori impegnati in diversi ambiti disciplinari, in quei settori dove si stanno producendo i veri cambiamenti – scientifici, tecnologici, umanistici – che spingono per una riconsiderazione drastica di una gestione che ormai appare avvitata su se stessa. Chi parla di redditi universali, della presa d’atto necessaria che ci sono masse escluse dai meccanismi produttivi destinate a crescere, della crisi dei meccanismi di domanda e offerta finora alla base del nostro sistema – pur già con tutte le contraddizioni e divari del caso, anche in tempi all’apparenza non sospetti – non è un pazzo. Lo si può paragonare a un Necker che ammoniva Luigi XVI sulle necessità di non procrastinare un intervento finanziario per redistribuire risorse nel paese, mediando con gli Stati Generali. Si sarebbe evitato il dissesto. In Germania la SPD sta parlando senza tabù di patrimoniale – da sempre bollata come strumento della sinistra, precisamente vetero comunista, per rimediare a malversazioni di vario tipo. Comunque la si pensi, favorevoli o contrari, nella situazione in cui siamo io credo che non sia rimandabile l’atto di redistribuire delle risorse. Qualora non sia la patrimoniale, occorre pensare a uno strumento valido, condiviso, rapido che ponga rimedio. Se proseguiamo con i falsi moralismi all
indirizzo dei fannulloni, vetero comunisti, anarchici, disadattati che non sanno trovarsi un lavoro… possiamo anche accomodarci, tanto sempre tutto andrà in quell’altra direzione. Oltre i Necker del momento. E in Francia peraltro andò in un certo modo.
Tra coloro che premono e raccomandano azioni decise si contano ormai soggetti che per appartenenze, percorsi formativi, convinzioni politiche rappresentano una nutrita ed eclettica trasversalità. Difficile quindi incasellare simili teorie in scia a un certa scuola di sinistra o di destra, qualora anche si abbiano pregiudizi in tal senso. L’unica scuola possibile in un quadro così preoccupante è quella che chiama alla responsabilità sociale.
Detto ciò, a leggere e ascoltare i cavilli su cui si disquisisce da quando ci siamo rinchiusi nel perimetro dell’emergenza pandemica totale, viene il capogiro.
Ma torniamo al cozzare delle cifre. I numeri a tamburo battente di contagiati, tamponi, rt, indici, contro indici, istituti che predicono una cosa, centri di ricerca che ne ipotizzano un’altra. Scenario in continua evoluzione, si sente dire, giustificando così l’accatastarsi quotidiano delle percentuali, paesi dove molto si è vaccinato in cui il contagio si ripresenta massivo, protocolli che vengono costantemente ritoccati, decreti che s’incalzano fra loro, categorie divise sul da farsi. Mancano tuttavia letture di più largo respiro, un modo più rassicurante e direi corretto di aggregare i dati, di metterli in condizione di essere davvero comprensibili, dando diverse risposte in più alle troppe domande che vengono lasciate in sospeso.
Nei giorni scorsi, entrato in vigore il pass nei musei, si sono inseguiti subito diversi articoli, alcuni trionfalisti altri invece che lasciavano largo a disdette nei parchi archeologici, perdite, cali. Per leggere il disappunto della direttrice del museo Archimede di Siracusa ho dovuto cercare con il lanternino. Insomma, è evidente che si teneva a snocciolare a caldo un po’ di cifre raccolte in biglietteria per confezionare velocemente qualche pezzo. A ferragosto nei musei civici di Firenze ci sono stati 1759 biglietti in più – e la stampa parlava di un boom da green pass. Al Colosseo invece si riportava un lieve calo nell
ordine di 3000 ingressi mancati. Allora, prendendo i numeri così, se è un boom avere 2000 biglietti in più per un polo museale articolato in diverse offerte, dovrebbe essere un sonoro flop perderne 3000 per un solo monumento. La mia è una provocazione per dire che senza analisi più rigorose delle diverse realtà museali – ognuna rappresentando un microcosmo a parte, con le sue caratteristiche distintive senza concedersi un po’ di tempo per osservare le tendenze, comparandole infine con le perdite dell’anno scorso, non si può parlare né di recuperi né tantomeno di exploit.
Appendice sulla situazione torinese che vivo e conosco da tempo. Anche qui articoli su un 30% in più di ingressi nei musei. Tutto questo focus affrettato e trionfale su Torino, cioè su una metropoli che da anni, anche ante covid, è scissa da polarizzazioni in cerca di nuove rappresentanze politiche, era assolutamente atteso. La città dove si sono viste le prime piazze di protesta sociale proprio in queste ultime settimane, con migliaia di adesioni, la città che cerca risposte a un divario tra periferia e centro, in cui da tempo si creano laboratori, progetti orientati al riutilizzo di spazi e beni comuni, dove il corpo civico diviso su tante questioni – la Tav, altro elemento di scontro in cui pure non sono mancate le occasioni per denigrare pubblicamente i contestatori – sta forse provando a tracciare vie diverse, alternative a un certo ordine economico che produce ricchezza solo per pochi e lascia per strada tutti gli altri. Ecco, qui si sono creati più che altrove elementi di frizione; perciò certe letture non sorprendono. Lo stesso tono petulante in cui questi articoli massimamente rosei e positivi si sono susseguiti nel giro di pochi giorni, solleva qualche dubbio. A fare da pendant i titoli altrettanto serrati sulle piazze sempre più vuote: ma sabato 14, week-end di ferragosto, erano scese in strada più di mille persone. Cosa assolutamente inedita per la compassata Torino. E si torna alle analisi, alla necessità di leggere con minore vizio pregiudiziale i contesti, qualora si voglia informare, cioè offrire un racconto che dica veramente qualcosa.
La polarità boom/calo nei musei è comparabile coi dati del turismo, trattandosi del resto di settori che si trainano fra loro. Anche qui una bella ridda, che si riassume nel siparietto che ha visto Federalberghi di Cremona smentire i dati diffusi dall’ufficio turismo del comune, scoprendo evidentemente un’ulteriore situazione di conflitto tra attori legati da interessi diversi. Se da una parte il comune cerca di limitare i danni diffondendo attraverso i suoi organi un’immagine di ottimistica ripresa, la portavoce degli albergatori ed esercenti nel settore ha descritto uno scenario desolante, in cui stentano perfino i pernottamenti per motivi di lavoro, dunque raccontando un tessuto urbano fermo, che non produce scambi né legati agli affari né allo svago: «Cremona ha una nuova attrazione turistica: l’infopoint del Comune. Ne prendiamo atto. Lo deduciamo dai toni trionfalistici del report sulla attività dell’ufficio di Piazza del Comune che annuncia numeri record per gli accessi.
Ci sono quasi più turisti lì che negli alberghi. I numeri testimoniano – nonostante le cifre siano dell’ordine delle centinaia, dunque un campione poco significativo – di un successo non solo in luglio, ma anche in questa prima settimana di agosto (in sette giorni sono stati registrati tanti utenti quanti ce ne erano stati nell’intero mese di luglio del 2020, ben quattrocento persone). Sarebbe più interessante e oggettivo avere dati sulle occupazioni alberghiere o sui biglietti venduti nei musei, solo per cercare qualche indicatore più attendibile o comunque complementare a questo dato.
Non è la prima volta che l’infopoint parla di turismo in forte crescita. Anzi, questi spot rassicuranti, sui media locali, sono ormai una regola a cui ci siamo abituati. Più plausibile l’analisi che ne fanno web e carta stampata: è un turismo di passaggio, un mordi e fuggi di qualche ora che porta poco o nulla alla città. In realtà la città è deserta e molti alberghi tra Cremona e il circondario sono chiusi (anche quelli che non lo avevano mai fatto in passato) perché, senza prenotazioni, si hanno solo i costi di gestione». (Alessandra Cattaruzzi, presidente Federalberghi Cremona, 11 agosto 2021).
Infine, guardando fuori dall’Italia e diciamo, dall’Europa, dato che la Brexit sembra ormai acquisita. Quest’estate abbiamo visto immagini di supermercati del Regno Unito con scaffali vuoti, dei quali si sono riportate le difficoltà di approvvigionamento. Ci sono persone che abitano in certi quartieri londinesi che parlano di negozi dove scarseggia la merce, mentre in altri la distribuzione risulta regolare. Nelle grandi catene di fast food – McDonald’s, Nando’s, Kfc – mancano diversi prodotti dal menù, come il pollo e i frullati. Anche in questo caso emerge tutta la fragilità sistemica cui si accennava all’inizio, laddove queste aziende prosperavano su margini di guadagno dovuti in larga parte alle basse remunerazioni dei camionisti est europei (che con Brexit hanno battuto in ritirata). Poi ci sono certamente i problemi logistici dati dall’infinito covid. E qualcos’altro che lascia ancor meno tranquilli, perché sembra vacillare l’intero edificio della libera circolazione delle merci, della domanda e dell’offerta – come si diceva all’inizio – insomma di quei fondamenti che abbiamo dato per acquisiti finora. In attesa che qualcosa di diverso prenda posto nei vuoti che si aprono, non si annunciano tempi facili. E il problema non è il panino ipercalorico che non trovi più al fast food, ma tutto ciò che serve davvero al vivere quotidiano.
In ultimo. Segnalo i 60 miliardi persi in borsa nella prima metà di agosto dai produttori di vaccini. Non un
inezia. Fa scalpore che in piena pubblicistica vaccino a tutti i costi”, un signore che non è proprio il primo venuto nellambiente delle analisi di mercato e dei rischi, Geoffrey Meachan, analista per Bofa-Merryll Lynch, si sia reso protagonista di un downgrade ai danni di Moderna e Biontech, definendo ridicole le quotazioni raggiunte dalle due società. Tentativo di ridimensionare una bolla finanziaria made in Big Pharma? Anche qui, speriamo se ne possa capire qualcosa in più, magari attraverso ulteriori report.
Concludendo, se si danno solo i numeri, la realtà non ci parla né con maggiore né con minore forza. Ci trasmette solo quel che vogliamo vedere. Cifre impugnate dagli uni per trionfare, dagli altri per controbattere. Poi abbassandosi il polverone rimane tutta l’incertezza che stiamo vivendo. Ci si aspetta piuttosto che queste cifre vengano restituite a un contesto dialogante con diverse altre istanze, raccontandole dandosi un po’ più di tempo e non sull’onda emotiva del momento. Magari provando con un po’ di obiettività a capirne qualcosa in più. Che poi dare i numeri, dipende come, vuol dire non starci neanche tanto con la testa.

 
(Di Claudia Ciardi)

20 agosto 2021

Leonardo Sciascia - Sulla fotografia



Le fotografie scattate da Leonardo Sciascia negli anni Cinquanta sono presentate per la prima volta al pubblico italiano in questo agile librino ben curato da Diego Mormorio, studioso di antropologia culturale, esperto di storia della fotografia e grande amico del maestro siciliano.
Sciascia è stato un profondo appassionato del tema, che gli ha sollecitato diversi contributi, tra cui il saggio Verismo e fotografia, la prefazione al volume Capuana, Verga, De Roberto fotografi, l’articolo Il ritratto fotografico come entelechia a introduzione della mostra torinese Ignoto a me stesso, tenuta alla Mole Antonelliana nel 1987, di cui fu curatore. Una fascinazione derivante soprattutto dalla resa del soggetto umano, con le sue espressioni, l’ineffabile richiamo dello spazio e del tempo che lì viene suscitato, l’idea ossessiva e pure mutevole della “persistenza della memoria”. Al punto da suggerire allo scrittore l’idea di un aleph per l’obiettivo fotografico: «Borges ha esplicitamente inventato [l’aleph] come magica contrazione dello spazio e che implicitamente è, in tutta la sua opera, sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio: e appunto perciò investito da un estremo fulgore. […] Tra le cose magiche che senza magia conosciamo, non si può conferire all’aleph una qualche analogia con l’obiettivo di una macchina fotografica?».
Sulla china di un simile incantesimo Sciascia ricorda fra stupore e ammirazione artistica le strane imprese di Luigi Capuana, autore verista che volle confrontarsi col mezzo quando ancora la sua pratica mostrava limiti tecnici di non poco conto. Acceso seguace del vero, dell’arte come strumento per raccontare la realtà, è singolare che per lui la fotografia rappresentasse una fuga verso il mistero, se non l’invisibile. Volle essere immortalato disteso su un cataletto funebre, sdrammatizzando così il momento della morte, e si sa che non disdegnasse di prender parte a sedute spiritiche, nel tentativo di catturare fantasmi e altre presenze. Un personaggio in cui il nostro letterato vede spinto alle estreme conseguenze «il piccolo dramma metafisico» fulcro di umana inquietudine come poche, ossia il disagio, la vertigine di fronte al senso del tempo, la sua insuperata dicotomia che lo fa elemento tangibile e oltremodo labile.
E ciò regala a Leonardo Sciascia un’altra preziosa riflessione sul confronto tra fotografia e scrittura, un nesso centrale nella sua creatività, che è alla base di questa pubblicazione, e che il curatore Diego Mormorio arricchisce di ulteriori sfaccettature, riportando episodi che hanno ispirato lavori a quattro mani o altri temi coltivati in autonomia. «La fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto; ma appunto nel suo essere umile, nel suo essere quotidiana, nel suo essere oggi ovunque in agguato o invadente, in un certo senso violenta, raggiunge e sorpassa – anche nei suoi risultati più grezzi, più brutali o banali – le altre forme, già illustri, di guerra contro il tempo: la storia, il romanzo» (Sciascia, Gli scrittori e la fotografia).
Quanto alle sue stesse fonti d
ispirazione, vediamo qui raccolte per lo più immagini di paesaggio, con la sola eccezione dello scatto di apertura che ritrae un gruppo di ragazzi di strada intorno a un fuoco. Al di là dei ritratti riservati ai propri familiari, ci sono poi soltanto due contadini occupati a mungere una capra sulla soglia di casa, che a differenza dei ragazzi della prima immagine non guardano il fotografo e annullano ogni dimensione di spensieratezza. Soggetti e narrazioni provenienti da quella vita dei borghi che gli era particolarmente cara e che intendeva rappresentare. Quella bellezza difficile, non istantanea, non alla portata di tutti, ma selvatica, chiusa, che richiedeva tempo, e faticosa, perché più faticosamente raggiungibile, posta così nell’interno, un interno aspro, in apparenza senza idoli né consolazione, com’è l’entroterra siciliano. Eppure, proprio qui, era sbocciato il suo immaginario letterario, nelle lunghe estati passate immerso nella campagna racalmutese, tra le mura della casa di famiglia in contrada Noce, dove anche le figlie piccole avevano imparato subito a conoscere il valore di quelle radici roventi, piene di forza e di oscura vitalità.
Un itinerario fotografico tra ruderi, casette isolate, vicoli alle pendici dell’Etna che mi ha fatto tornare in mente alcune questioni dibattute al PAU (Patrimonio Architettura Urbanistica, Reggio Calabria), in occasione di un convegno sul patrimonio culturale costituito dai nostri borghi fra abbandono e recupero, cui partecipai come auditrice: «Il degrado delle strutture dello spazio antropico è dovuto all’obsolescenza, al superamento della loro funzione. Si tratta allora di considerarle veri e propri beni culturali e di ispirarsi, per il loro recupero, a modelli culturali ed economici in controtendenza rispetto all’attuale. Si tratta di accettare la cesura dettata dall’obsolescenza ed individuare un percorso non di adattamento ma di co-evoluzione. Se non c’è cura per lo sviluppo complessivo, cioè cultura dell’intorno e pianificazione dell’intervento sul borgo non si va lontano». (novembre 2018)
Le fotografie di Sciascia si offrono come tasselli di questa stessa urgenza, voglia di dar voce a un bisogno sociale che passi per una rimodulazione economica, di nuova inclusione e partecipazione attiva dell’essere umano veramente interprete e attore del territorio, delle sue stratificazioni culturali, delle sue criticità cui occorre andare incontro, farsene carico nel tentativo di comprenderle, e forse di risolverle. È la segreta bellezza delle aree interne, appunto, quella non immediatamente a portata di mano ma che tanto dice sull’identità e la storia dei luoghi. La bellezza ruvida, inattingibile e ciclopica, raccolta nei versi tratti da La Sicilia, il suo cuore (1952): «queste nuvole accagliate,/ i corvi che discendono lenti;/ e le stoppie bruciate, i radi alberi/ che s’incidono come filigrane».

Di questa via al cielo e alla terra Sciascia è stato validissimo ritrattista nell’opera letteraria e scopriamo adesso, grazie a questa pubblicazione, anche attraverso gli scatti che hanno accompagnato alcuni dei suoi viaggi. Una piccola galleria che arricchisce il nostro sguardo sull’autore ma che ancor più pone questioni importanti sui modi d’intendere l’arte, nel dualismo tra pittura e fotografia, e in generale la cultura, alla ricerca di tracce meno affrettate, di un’autentica comprensione su dove siamo, via maestra per salvare il nostro passato e i nostri sogni. 


(Di Claudia Ciardi)


Leonardo Sciascia, Sulla fotografia.
A cura di Diego Mormorio,
collana “Sguardi e visioni”, Mimesis, 2020