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30 giugno 2022

Scrivere l'architettura

 



A partire dalla recensione uscita sull’ultimo fascicolo di «Atti e rassegna tecnica», la rivista della Società degli ingegneri e architetti di Torino, si torna a parlare del lavoro di studio condotto sui documenti inediti dell’archivio schelliniano. Questo cantiere pluriennale, sotto la direzione scientifica di Daniele Regis, che ha la sua base nella multidisciplinarità e nell’incontro fra saperi politecnici – seguendo la lezione di Roberto Gabetti, vale a dire la consuetudine a frequentare e praticare arti e idee limitrofe o meno, purché poste in un rapporto di mutuo scambio o stimolate a esser tali –  questo poliedrico centro che dal 2018 ha attratto ricercatori, artisti, menti aperte non ha affatto esaurito i suoi obiettivi.

Prova ne siano le diverse scritture che in questo inizio d’anno tornano a occuparsi di neogotico piemontese e dei suoi maggiori esponenti culturali, anche nel lunghissimo e altissimo filone della fotografia autoriale – si sta pubblicando un nuovo catalogo di Michele Pellegrino dove la lode al paesaggio, l’immersione panteistica nella natura rimandano per certi versi a questo stesso sentimento di malinconico congedo, di legame interrotto con una naturalezza mancata e mancante che è tra i grandi temi della riscoperta del gotico nel XIX secolo. E ne stiamo continuando a divulgare i contenuti in alcuni articoli di prossima uscita.

Intanto colgo l’occasione del ritorno al volume collettaneo edito da Sagep nel 2021, per riproporre il testo integrale della mia lezione pubblica tenuta lo scorso dicembre sui nuclei principali della mia ricerca. Un affascinante crocevia dove gli autori della letteratura antica dialogano con l’arte e l’architettura dell’Ottocento.


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Scrivere l’architettura. Schellino e la lezione degli antichi

 

Per rispondere alla domanda di Andrea Longhi, direttore della rivista «Atti e rassegna tecnica», che ringrazio per il tempo dedicato alla lettura del mio contributo, vorrei prima ripercorrere brevemente le tappe di questo mio studio.
Quando ho iniziato a occuparmi delle miscellanee schelliniane non potevo pensare che mi sarei trovata immersa in così tanti puntuali riferimenti alla letteratura antica. Ricordo lo stupore del momento in cui ho avuto sotto gli occhi l’elenco di autori greci e latini specialisti in trattati sull’arte dell’agricoltura. Vero e proprio catálogos (κατάλογος), nel senso etimologico greco, una lista paradigmatica di personaggi e fatti notevoli considerati rappresentativi per un tema d’interesse.
Al di là dell’aspetto contenutistico che evidentemente per Giovanni Battista Schellino era rilevante, data la sua formazione e i modi del suo stesso operare in un territorio che idealmente considerava una sorta di ager publicus nel senso dei latini e che come tale andava curato attraverso il proprio lavoro, c’è un risvolto morale non minoritario che anzi si intreccia profondamente alla visione progettuale dell’architetto doglianese.
Prendersi cura del territorio, ognuno col proprio sapere e mestiere, significa essere coscienti di un ruolo attivo nella società, della necessità di essere parte organica di un tutto, di offrire un contributo che valga per il qui e ora ma sia anche di pubblica utilità per il futuro. Tanto più che Schellino fu a lungo consigliere comunale a Dogliani, dunque vero e proprio civis impegnato a tempo pieno a servire e preservare la comunità come costruttore di edifici materiali e spirituali.
Man mano che mi addentravo nello studio delle miscellanee, raccolte che per struttura, caratteri e temi privilegiati ho posto in contiguità e perciò proposto di analizzare insieme, mi divenne evidente che la messe di citazioni letterarie, in larga parte orientate ai volgarizzamenti dei classici, non era un semplice e meccanico esercizio di copia lasciato al tempo libero. Poteva certo prendere le mosse dai momenti di pausa, di intimo raccoglimento di questo ingegnoso progettista, ma non era qualcosa di astratto, di avulso dalla realtà vissuta. Appariva invece chiaro che quelle frasi che una dopo l’altra riempivano con disciplina e continuità tanti fogli manoscritti, non erano tra loro svincolate ma si richiamavano all’insegna di valori, immaginazioni, ideali fortemente sentiti dal loro copista.
Quindi, venendo alla domanda formulata dal dottor Longhi, se i materiali poetici e narrativi raccolti e rielaborati da Schellino siano da interpretare o come chiavi di lettura funzionali al lavoro di costruttore oppure siano esclusivi attestati di una cultura letteraria estesa, se vogliamo un riverbero di quello sfaccettato eclettismo sapienziale di cui il nostro architetto è completamente imbevuto, rispondo che le due cose non si escludono fra loro. Longhi si riferisce in particolare a un passaggio del mio articolo che desidero qui riportare: «Le parole, per Schellino, sono forme di architettura in potenza, strumenti attraverso cui edificare, mattoni dell’immaginazione, segnacoli in grado di enunciare e rivelare la trama delle sue suggestioni».
Nel momento in cui qualcosa di ciò che legge colpisce la sua mente, la mano corre subito ad annotarla. I rapporti tra scrittura e ars operandi sono certo più evidenti laddove la citazione proviene da un manuale di tecnica o da uno dei tanti opuscoli divulgativi su arti e mestieri che nell’Ottocento trovarono larghissima diffusione. È il caso della frase attribuita a Celeste Clericetti, saggista interessato al gotico e in particolare ai lasciti della presenza longobarda in Italia, di cui ho ipotizzato una conoscenza piuttosto attenta da parte di Schellino. Ma pure nelle fonti più propriamente letterarie, interpretabili come elementi a cui la sensibilità schelliniana guarda con l’atteggiamento reverenziale del lettore curioso e appassionato, si colgono potenzialità valide all’integrazione in un progetto di architettura. Autentiche tessere di un mosaico selezionate sulla base di un disegno interiore, coerente per quanto poliedrico con l’opera edificata sul territorio.
E qui si aprirebbe anche uno stimolante dibattito sul rapporto tra arte e scrittura che personalmente mi coinvolge molto, al quale ho finora dedicato e sto dedicando diverse delle mie ricerche. Se vogliamo attingere ancora a un exemplum, che direi tra i più rappresentativi in tal senso, rimanderei al lavoro di ristrutturazione del Castello Allara Nigra a Novello, la cui committente era per l’appunto una letterata. Questo incarico svolto nell’arco di un decennio dal 1870 al 1880 circa, accompagnato da un rapporto di amicizia e reciproca intesa culturale, può considerarsi forse per quel che riguarda Schellino la massima espressione plastica del dialogo fra i due mondi creativi cui accennavo.
Dunque, architettura come scrittura di uno spazio, come polo di un immaginario che si nutre di altri immaginari, contaminandoli e venendone contaminata. Per Schellino, autodidatta, versatile, ingegnoso, la disciplina umana nel lavoro, nei rapporti col prossimo, nell’osservanza di una dirittura morale, era un carattere imprescindibile sia per la liberazione di energie positive utili allo sviluppo armonico della società sia per fronteggiare l’industrializzazione, veicolo di molteplici opportunità ma anche del rischio di uno sradicamento nei contesti d’impatto.
Vengo dunque alla seconda parte della domanda di Longhi, in una certa misura già risolta all’inizio di questa mia dissertazione. Le miscellanee, compilate presumibilmente in età avanzata, risentono non poco dello sguardo rivolto a uno squilibrio crescente nella società, e nelle campagne più che altrove. Le Langhe con le loro tradizioni antiche, legate ai tempi lunghi dei rituali agresti, lontane dalle principali vie di comunicazione che attraevano i grandi flussi di genti e di cose, rischiavano di esser tagliate fuori qualora avessero mancato l’incontro col carro del progresso ma anche, nella velocità e voracità dell’assorbimento, di perdere i propri riferimenti culturali.
Di nuovo il parallelo con gli scrittori del mondo antico impegnati a parlare della vita nei campi quale fondamento della virtus del buon cittadino si fa nitido. Come poteva Schellino non sentirsi compenetrato dalla vicinanza sentimentale a questo sistema di valori e ai loro messaggeri? A Roma le lotte politiche fra i triumviri aprirono un lungo periodo di incertezza, segnato da anni di guerra civile, anni che devastarono il territorio, impoverirono la popolazione e sancirono la fine della repubblica. Scrittori come Varrone e Virgilio intesero nelle loro opere mettere in guardia dalla disgregazione derivante da una cittadinanza divisa, da un potere che aveva perso di vista il bene collettivo, che aveva completamente smarrito il quadro morale necessario alla convivenza pacifica e proficua degli esseri umani. C’è evidentemente una condivisione simpatetica fra Schellino e la saggezza di queste antiche voci. Guide in un periodo storico che correva gli stessi pericoli, autori che rassicuravano e ammonivano sui cammini da intraprendere per un rinnovamento senza strappi, senza cadute, senza sconfessare la propria storia e identità.
Chiudo auspicando che dagli studi fin qui compiuti intorno alla personalità di Giovanni Battista Schellino possa crearsi un polo di ricerca e di scambi in tempi che speriamo vicini, più sereni e più adatti alle manifestazioni culturali libere, largamente partecipate, orientate a una collaborazione multidisciplinare ad ampio raggio. Per i numerosi spunti che i progetti schelliniani sono capaci di suggerire a chi vi si confronta, per l’alto valore che le sue costruzioni esprimono avendo contribuito in modo significativo alla conoscenza culturale del neogotico e delle Langhe, c’è da augurarsi che l’invito a costituire un centro studi di respiro nazionale e internazionale possa finalmente e degnamente essere raccolto. 

 
(Di Claudia Ciardi, dicembre 2021)


«Atti e rassegna tecnica» LXXV numero 3, dicembre 2021-giugno 2022, ospita una recensione del volume collettaneo su Schellino pubblicato da Sagep, pp. 108-109.

Qui il mio intervento disponibile anche come audio lezione

 

Per una panoramica del progetto si rimanda al seguente articolo:

Nel segno di Schellino e di Dante

 

 

 

 

13 giugno 2022

Wunderkammer

 



Fate di un museo un reame somigliante a una Wunderkammer e io me ne innamorerò perdutamente. Alla fin fine l’idea di collezionare e conservare è nata in questi luoghi eccentrici, quindi il fatto di riportare qualcosa dalle stanze della meraviglia alle nostre ordinate sale non sarebbe poi così illogico. La passata attitudine a riunire oggetti secondo simbologie estetiche, richiami misterici, puro desiderio di ricerca, in un dialogo serrato fra suggestione magica e inclinazione scientifica, è peraltro di un’attualità stupefacente.
Nel riflettere una caratteristica innata dell’essere umano, vale a dire la curiosità e la voglia di compenetrare ogni ambito del sapere, di cui l’accumulazione degli oggetti è un segno tangibile proprio perché non si esaurisce né soddisfa mai completamente se stessa, la Wunderkammer sembrerebbe oggi riportare in auge il suo messaggio. Tanto più che di uno sguardo meravigliato sulle cose abbiamo davvero un bisogno vitale.
Tessere trame fra culture e immaginari diversi può consegnarci chiavi di lettura inedite. E ancora, può liberarci da una mentalità selettiva e iper specialistica che non raramente ci ha relegati in meccanismi autoreferenziali, dai quali finiamo per guardare con sospetto ogni avvicinamento tra zone del sapere considerate discontinue in modo aprioristico.
Il documentario di Francesco Invernizzi ricostruisce il sentimento della meraviglia nello spazio e nel tempo, e ci offre un filmato che appare come una dimora fatata dove si snodano percorsi quasi impossibili fra antico e moderno. E in una storia ai limiti del possibile (e del pensabile), come avviene ad ogni ingresso che ci si appresta a varcare, non poteva non aspettarci un’epigrafe: «Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie» (Tacito). Che bello, la voce di uno storico romano – e non uno a caso, perché Tacito in quanto autore della Germania si era soffermato proprio su quel mondo nordico le cui immaginazioni sono alla base delle meravigliose stanze qui aperte. Una storia che mischia fantasia e visione politica e che irradia dal centro Europa fra XVI e XVII secolo.
Moda, ricerca, fasto, affermazione di potenza; ricordiamo che le Wunderkammern più opulente erano appannaggio dei ceti più che aristocratici, dei reali addirittura. In Italia fra le maggiormente sfarzose si ricordano quelle realizzate dai Medici, collezionisti che non è esagerato definire compulsivi. Poi, sempre in zona podio per estensione e ricchezza, ci sono le collezioni di Alberto di Baviera, di Rodolfo e Ferdinando d’Asburgo, quest
ultima ancora oggi visitabile a Vienna.
Un luogo di piacere che prepara la mente a incontri surreali, con le proprie ombre e le scene d’inconfessabili sogni, quindi anche sede di malintesi e contraddizioni. La mescolanza come vera ratio, come chiave di lettura adattabile, soggetta a continua metamorfosi. L’accostamento fra oggetti di vario tipo, naturali, archeologici, esotici, inventati dà origine a narrazioni del tutto fuori dai canoni, che permette di gettare lo sguardo su mondi altri e lontani, superando il filone unico e limitato del collezionismo di reliquie predominante nel Medioevo. Si tratta anche di un lungo racconto affidato a una fitta selva di cataloghi, perché in moltissimi casi le stanze originali sono andate perdute e l’unico modo per recuperarne una presenza storica è tuffarsi in queste mirabolanti pubblicazioni, fatte di tavole minuziose, disegni raffinati, evocazioni di atmosfere fuggevoli ed effimere presenze.
In questo affascinante resoconto le voci di eccentrici appassionati, moderni realizzatori di Wunderkammern, si alternano a quelle dei curatori museali (dal Mudec al Poldi Pezzoli di Milano, alla Tate Modern di Londra). In aggiunta, mi piace menzionare anche la GAM di Torino, la cui nuova direzione ha rivoluzionato tutto e cambiato gli allestimenti, valorizzando gli splendidi depositi relegati nei magazzini. Il frutto è una sala di mostre temporanee, battezzata in modo emblematico Wunderkammer, che dà spazio a ciò che altrimenti resterebbe confinato nelle segrete. Un
idea espositiva che attinge a un preciso concetto darte: fare largo alla bellezza senza porsi limiti, osare, creare nessi fra cose dimenticate alla vista.
Spunti, temi, diramazioni, deviazioni che scaturiscono da un elemento congenito all’umano, qual è il desiderio di conoscere. Dunque, musei dell’insolito. O non è forse l’insolito a costituire la vera ossatura di un museo? In effetti, non vi è ordine che prima non sia passato per un magnifico disordine, non c’è bellezza che non sia il frutto di un’affollata ricerca tra armonie dissonanti. Le Wunderkammern rovesciano continuamente il gioco dell’arte, spingono le regole fino a farle stridere… ma alla fantasia nulla è proibito.
Meraviglia, performatività, collasso, incredulità e contraddizione, sono questi i punti cardinali in cui nei secoli si sono creati tali ambienti
così nella sintesi di Andrea Lissoni, curatore alla Tate Gallery di Londra. E non sono forse le nostre stesse collezioni digitali, costruite sull’assemblaggio di immagini, una sorta di Wunderkammer ispirata dai cortocircuiti che ci mette davanti la navigazione in rete? Un gioco inesauribile, a quanto sembra, perché sta tutto dentro la mente umana e lì si rigenera, traendo nuova linfa, in base ai tempi e alle mode.   


(Di Claudia Ciardi)

 


Francesco Invernizzi, Wunderkammer - Le stanze della meraviglia
Magnitudo film, 2017
Durata 83 minuti









La stanza delle meraviglie - Palermo




Arte sommersa - Dalla mia bacheca
«Vissi darte»