Riconosciuta dall’Unesco “Urbs picta”, Padova, che festeggia anche gli ottocento
anni del proprio ateneo, sta vivendo un momento di grazia, premiata
dall’affetto dei turisti. Le riaperture hanno spinto presenze, iniziative, voglia
di riscoprire le sterminate ricchezze della città. Un abbraccio che questa
Firenze del Veneto si merita alla grande. L’arte a Padova si respira proprio
dappertutto, direi che è uno stato d’animo del luogo, e si sente subito appena
ci si incammina per le strade, ancor prima di aver raggiunto il centro. Dalla sconfinata bellezza delle collezioni civiche alla meraviglia della Cappella degli
Scrovegni, ai segni dell’arte di strada, cosicché un architrave
dipinto o un manifesto con uno strano Giotto nei panni di rapper o rocker,
che sembra seguirci con lo sguardo mentre imbocchiamo una viuzza del ghetto, riconducono
alla medesima immagine del mondo, offrendosi come appartenenze di uno stesso
crocevia culturale. È come se un’unica pulsazione governasse ogni traccia umana
e del tempo, dalle più lontane alle più recenti, come se ogni angolo si
rianimasse in questo gioco di specchi, in questo magnifico rovesciamento dove
vale tutto e tutto trova la sua necessità. Dal memoriale ai caduti di guerra,
che conserva anche i resti dei quasi mille padovani uccisi nei bombardamenti
della seconda guerra mondiale, tempio ad alta densità emotiva, alla dimensione
più lieve e conviviale dell’andare in visita, si attraversano mille sfumature,
in senso cromatico, sì, ma latamente.
Ecco
che in un’imitazione di Klimt sulla saracinesca abbassata di una bottega è pur
vivo un rimando sentimentale ai vetri dipinti riaffiorati dalle necropoli – i
vetri antichi più eccentrici, intatti, “moderni” che mi sia capitato di vedere
– esposti nelle teche degli Eremitani. Sono due universi paralleli, in teoria
lontanissimi fra loro, ma a Padova, no; dialogano, s’intendono a
meraviglia, seducono. Estrosa ed elegante, il suo patrimonio diffuso lascia
senza fiato. Il concetto di arte ovunque è una formula ambiziosa che sta
aprendo a ulteriori vie d’espressione e interessanti commistioni, premiata dal
crescente apprezzamento dei visitatori. E torniamo per un attimo davanti agli
Eremitani dove ci si sente proprio al centro del mondo. All’ingresso del museo
capita di incontrare appassionati d’arte di ogni latitudine; ci si intrattiene
contemporaneamente in italiano, inglese, portoghese, tedesco. Ma che culla
magnifica e che bel gruppo di persone all’accoglienza! Per non dire della pinacoteca,
scrigno nello scrigno, con oltre cinquecento opere può considerarsi fra le più
imponenti della regione: dalle icone veneto-bizantine a Giotto e Tiziano e poi
la sala con gli spettacolari arcangeli appesi, immersi nel buio, che osservano
il visitatore dall’alto. Apparizioni di un altro regno.
Infine,
come non menzionare quello che Marco Goldin, capofila di un bel progetto nel
circuito espositivo padovano, sta producendo al centro culturale Altinate.
Nella mostra che si è chiusa a giugno ha portato i capolavori dalla Fondazione
Oskar Reinhart, pitture incredibili che documentano da scorci poco noti le
metamorfosi dell’idea di paesaggio nell’Ottocento. Né mi è sembrato casuale incrociare
un simile percorso e la personalissima scrittura di Goldin sulle cose d’arte in
un momento in cui io stessa stavo lavorando alla ricerca di un mio linguaggio
fra letteratura e pittura, nel tentativo di gettare un ponte tra queste due sponde
che tante connessioni hanno generato e altrettante ce ne porgono.
Per
l’appunto, il titolo di cui Padova si fregia dallo scorso anno, è la perfetta
sintesi in parole del suo genius loci.
(Di
Claudia Ciardi)
Pagine
27 luglio 2022
Urbs picta
14 luglio 2022
Di foglie, Sibille e arte profetica
La
Sibilla è una donna affascinante, di status incerto, non immortale ma dotata di
poteri straordinari, la cui magnetica avvenenza risiede nell’imponderabile che
sprigiona la sua personalità. Donna magica scelta dal dio per avvicinare la
sua parola a quella degli esseri umani, donna eletta a presiedere un oracolo,
in latino oraculum, ossia il responso uscito dalla bocca della divinità
debitamente consultata attraverso i suoi messaggeri, poi anche il luogo dove questo responso viene dato; in
greco χρησμός [da χράω “faccio sapere”] per il responso; χρηστήριον o anche
μαντεῖον per il luogo.
I
metodi della divinazione erano vari, ma per sommi capi si possono così
riassumere: fonti sacre che, sgorgando dalle viscere della terra, sono in
comunione con il mondo sotterraneo: il loro mormorio, l’effetto su oggetti che
vi sono gettati danno il responso; alberi sacri, che “parlano” attraverso il fruscio del fogliame agitato dal vento – celebri a questo proposito le querce
del santuario di Dodona nell’Epiro, e ancora la quercia da cui gli antichi lituani traevano responsi per bocca del capo supremo del sacerdozio, situata
nel centro di un sacro recinto, e le foglie attraverso le quali si spargeva a
Cuma la sentenza della Sibilla (ce lo riferisce anche Dante in una celebre
similitudine della Commedia, «così al vento ne le foglie levi / si perdea la
sentenza di Sibilla», Paradiso, XXXIII, vv. 65-66); caverne sacre, immaginate in comunicazione con il mondo
sotterraneo – i luoghi dove per l’appunto solevano esprimersi le profetesse; i
dadi gettati sopra una tavola appositamente segnata; il fuoco, a seconda della
direzione della fiamma, del fumo, degli effetti su pelli o altri oggetti posti
a bruciare; le anime dei morti, evocate con sacrifici speciali presso la loro
tomba; l’incubazione, praticata oltre che nei santuari di Esculapio e nei
Serapei, anche in alcune sedi oracolari. Le
parole stesse dell’indovina volavano come foglie al vento e spesso non erano
comprensibili: infatti c’erano sacerdoti preposti alla traduzione del responso
(da qui si capisce l’uso dell’aggettivo “sibillino” che allude a qualcosa
di criptico).
In
un interessante documentario realizzato nel 2018 che
ha il suo centro elettivo e sacro nei Monti Sibillini si ricostruisce la storia
fra leggenda, arte e letteratura di queste creature. Un gruppo di speleologi
dell’università di Camerino ha organizzato una spedizione sulla sommità del
monte Sibilla dove si presume abitasse la cosiddetta Sibilla appenninica, la
meno nota nel presunto canone delle indovine, ma proprio in virtù della sua
“non ufficialità” la più misteriosa e potente.
La
squadra ha inteso procedere a una serie di saggi del sito per verificarne le
condizioni, che si sono rivelate alquanto compromesse, tra incuria e crolli. E
tuttavia, per un’analisi più approfondita e rivelatrice, è stato programmato
uno scavo archeologico nell’auspicio che riaffiorino tracce di una
frequentazione antropica ad avvalorare il mito.
Da
Ovidio (Metamorfosi, libro XIV, vv. 101-154) apprendiamo la storia della
Sibilla Cumana, che profetizzava nell’area vulcanica dei Campi Flegrei; pochi
versi in cui la donna racconta della sua ingenuità di fanciulla e di come si
trovi imprigionata in un ruolo non consapevolmente scelto. L’intento ovidiano
non è celebrare Roma attraverso la figura della Sibilla, come invece fa
Virgilio nell’Eneide. Il poeta di Sulmona ci parla di una trasformazione
umana, pur prendendo le mosse dal medesimo contesto virgiliano: Enea è appena
approdato sulle sabbiose spiagge meridionali del golfo di Gaeta, non lontano da
Cuma, e si dirige verso l’antro della Sibilla che ha settecento anni. La donna,
essendo proprio la sua femminilità che qui si vuole ritrarre, racconta del momento
dell’“investitura” quale messaggera dell’oracolo e, da questo ricordo che sfuma
nel tempo del mito, si apprende la storia molto singolare di una giovane che
rimane intrappolata in una dimensione di vita sospesa tra umano e divino.
Apollo la vide e se ne innamorò, ma lei lo rifiutò e il dio, per convincerla a
cedere, le chiese di esprimere un desiderio: qualsiasi cosa avesse voluto lui
l’avrebbe concessa. E così la giovane raccolse da terra un pugno di sabbia e
domandò di poter vivere tanti anni quanti erano i granelli stretti nella mano,
dimenticando di chiedere che fossero anni di giovinezza. Fu così imprigionata
in una vita da mortale ma allungata a tal punto da divenire insopportabile. La
trasfigurazione di una donna così bella da essere amata da Apollo rappresenta
per Ovidio il fulcro della vicenda. Una metamorfosi estremamente terrena quanto
dolorosa. Perché il corpo della Sibilla non è fatto di essenza divina e lei
stessa lo ribadisce a scanso di equivoci o di sacrileghe attribuzioni: non
vuole essere venerata come una dea né onorata con incensi. La mutazione sarà
completa allorché la Sibilla diventerà invisibile, ma la sua voce continuerà ad
essere udita. Il suo aspetto riflette una malinconica sottomissione. Lo sguardo
fisso a terra, con il capo reclinato in attesa che il dio Apollo discenda nel
suo corpo, è un’immagine che Ovidio riprende dalla divinazione greca e di cui
si serve per dipingere con intensità la sua Sibilla. Per quanto scarso sia il
materiale iconografico superstite relativo alla Sibilla nel mondo romano,
quello di epoca imperiale giunto fino a noi riprende l’immagine offerta da
Ovidio di una giovane nel momento in cui si sottomette alla volontà di Apollo
per farsi interprete e depositaria del suo oracolo, strumento comunicante
del divino col mondo umano. È questa istantanea di una fanciulla seduta con lo
sguardo rivolto a terra e con fare dimesso, nel momento che precede il
vaticinio, che sembra imporsi nell’iconografia artistica augustea e
post-augustea (si veda il celebre affresco di Ercolano); gli artisti accolgono
quindi la versione ovidiana del mito, più umana, rispetto a quella trionfale e
fiera celebrata da Virgilio e immortalata nei volti incisi sulla numismatica
repubblicana.
Tutte
le culture antiche hanno sempre attribuito alla donna una innata capacità
profetica. Si pensava che per sua natura fosse protesa verso il mistero.
Risiedevano in luoghi remoti fra l’Asia minore e le coste del Mediterraneo.
Varrone, nel I secolo a. C., stilò un elenco di dieci, delle quali la più famosa
era la Pizia, portavoce di Apollo a Delfi. Nel mondo romano la Sibilla
tiburtina operante a Tivoli (l’antica Tibur) riscuoteva particolare successo. Da
alcuni documenti sembrerebbe collegata a quella appenninica, addirittura una
fonte dice che la divinatrice dell’Aniene si sarebbe trasferita sui monti –
resta a vedere se si tratti dei vicini Appennini o se sia un riferimento ai
rilievi marchigiani. In questo secondo caso si avallerebbe una loro
identificazione.
Nel
citato documentario vengono mostrati alcuni ambienti straordinari che
raccolgono le testimonianze del sacro dalle culture italiche all’epoca romana e
medioevale. Il Museo di Gubbio a Palazzo dei Consoli con le sue tavole eugubine contenenti le norme
dei rituali pubblici pre-romani (nel filmato il professor Ancillotti ce ne
legge un passo in osco-umbro), e che fra le altre meraviglie vanta una spettacolare sala di cosiddetti Crocifissi blu e
una straordinaria collezione di gocciolatoi romani; uno scrigno tra i più luminosi in Italia. Quindi siamo
accompagnati all’interno del Duomo di Piacenza, in quello di Spoleto, nella
pinacoteca di Ascoli Piceno; luoghi che nella pubblicistica d’arte vengono quasi
“dimenticati”, che godono di scarsissima attenzione mediatica. Eppure, quali abbaglianti
tesori hanno in serbo.
Purtroppo
nel 2016, con il terremoto di Marche, Umbria e Lazio, un enorme patrimonio artistico
diffuso sulle pendici appenniniche del versante adriatico e tirrenico è stato distrutto
o severamente danneggiato. Molte delle case crollate avevano al loro interno
decorazioni, pitture, rilievi, stucchi legati all’immaginario sibillino. Queste testimonianze non esistono più. L’anno precedente sulle montagne era stata avvistata un’ombra,
un profilo femminile che sembrava urlasse – a voler credere alla leggenda, e chi
si avventura lassù non può astenersi dal farlo, la Sibilla, Musa presaga potentissima,
aveva manifestato tutto il suo dolore. I recuperi hanno fatto tornare in vita 16.000
opere fra cui il Santuario della Madonna dell’Ambro, fulcro della comunità
sibillina. All’interno sono raffigurate dodici Sibille (lo stesso numero degli
Apostoli) ritratte all’inizio del Seicento da Martino Bonfini. La Cappella
della Madonna, dove sono effigiati i volti, miracolosamente non ha subito gli
effetti del sisma.
Ed
è questa anche una storia letteraria e di imprese editoriali, desiderando portare
il discorso su un tema che ci è particolarmente caro nel fertile intreccio fra
immagine e parola scritta. Dal Guerrin Meschino, vero e proprio bestseller del
medioevo, racconto delle imprese cavalleresche di Guerrino che venne accolto
nel regno della Sibilla appenninica – la narrazione contribuì a far conoscere
universalmente questa figura mitologica – al libro di viaggio del francese
Antoine de La Sale, che più o meno nello stesso periodo delle avventure del
suo alter ego letterario, si incamminò alla ricerca della grotta profetica. E non meno rilevante la personalità di Cecco d’Ascoli,
poeta, medico, insegnante, alchimista, astrologo, condannato a Firenze dalla
Chiesa nel 1327 per la sua frequentazione di Montemonaco e del lago di Pilato
nei Sibillini, a quanto sembra prendendo parte in loco a pratiche di
negromanzia.
Sibilla
è colei che porta il libro sacro. Non è un soggetto facile per i pittori, non
esistendo un modello vero e proprio cui ispirarsi. In quanto legata a un immaginario
orientale, indossa solitamente dei copricapi simili a turbanti. L’iconografia
più diffusa la ritrae un po’ malinconica, secondo lo spunto ovidiano che si
diceva all’inizio, nell’atto di scrivere o di stringere a sé il gran tomo delle
profezie. Con l’umanesimo si inaugura una stagione all’insegna di una sintesi
tra pensiero pagano e cristiano. Il primo ad aver dato forma visiva a questo
connubio è stato Michelangelo nella Cappella Sistina, anche in ciò rivoluzionario. Da lui in poi infatti l’associazione Sibille-Profeti viene largamente imitata,
in una reinterpretazione cristiana del personaggio mitico in qualità di messaggera
che prefigura la venuta di Cristo.
La carica simbolica di questa storia sembra ancora assai vitale. Quando la si
avvicina, la corrente di mistero che ne sgorga ha tuttora il potere di
affascinare e attrarre. Per incontrarla, perché lei lasci entrare nel suo regno, bisogna avere nobiltà d’animo. Secondo alcuni interpreti il fatto che la grotta sui Sibillini sia al momento rinserrata, sta a significare che la nostra non è un’epoca di cavalieri. Eppure fa riflettere che nell’imperante materialismo in cui
siamo immersi, questa presenza così umbratile e sfuggente si imponga, anche solo nel suo arcano riflesso, con assai
più forza di tante altre patinate e stridule sirene.
(Di Claudia Ciardi)
Documentario:
La Sibilla tra leggenda e realtà, Sydonia
Production, 2018
La
Sibilla Delfica di Michelangelo con la sua splendida veste verde acqua-
verde muschio,1508-1510 circa