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28 novembre 2022

Rammstein - Zeit





Torno con piacere a commentare un po’ di musica dopo l’ascolto di un lavoro che è sicuramente tra i più riusciti dell’anno, e di nuovo mi avvicino a certe sonorità “berlinesi” a partire da un concept album, come già mi è capitato nel caso di Lou Reed con Berlin, sebbene le definizioni stiano sempre abbastanza strette alla creatività di artisti a tutto tondo. Qui parlo di Zeit dei Rammstein, ottavo disco per la band, lavoro nel filone della cosiddetta Neue deutsche Härte; e sarà anche nuova durezza o ruvidezza tedesca ma gli spunti lirici non mancano e in queste tracce siamo di fronte a un’opera a tratti intimista e di sicuro molto matura sul piano dei testi e delle sonorità. Quindi la prima cosa che si pensa è “che bel risveglio dopo due anni di pandemia”. Mi sono imbattuta nel brano di Zeit lo scorso aprile – un risveglio di primavera appunto, che mi ha sorpresa, molto coinvolgente, direi ammaliante. Così mi è venuta la curiosità di un ascolto completo, curiosità riaffiorata in pieno dopo il rilascio dell’ultimo video in questi giorni, basato sul singolo Adieu; tema del congedo che in una sorta di Ringkomposition abbraccia tutte le sfumature di questo tempo cantato, sviscerato, lasciato fluire in musica fino alla constatazione del suo dissolvimento.
Della voce di Till Lindemann, nativo di Lipsia, classe 1963, frontman dei Rammstein, si dice che sia una certezza e una fortezza. Di sicuro una delle voci maschili più belle del nostro tempo – per ribadire il tema musicale – una voce che il tempo lo riempie nel tentativo di dargli un senso. Ma riavvolgiamo un attimo il nastro: l’irruzione del covid aveva spazzato via, come allora per tutti i concerti, le tappe di un tour che era già sold out. Così la band ha preferito nei mesi sospesi e incerti delle chiusure raccogliere energie e concentrazione per riflettere e rappresentare quella precarietà, quel vivere angoscioso che si sapeva avrebbe generato distanze, perdite materiali ed emotive, strappi che non si sarebbero recuperati. E in queste canzoni c’è molto di quanto abbiamo attraversato, e c’è il coraggio e la capacità di essersi immersi negli eventi, analizzandoli senza filtri, in una spigolatura non semplice, perché parlare del tempo significa esser coscienti che si potrà fissare appena un momento, e in mano resterà solo, infine, una manciata di sabbia, e poi più neppure quella. Il video di Zeit esprime in accordo a ciò una bellezza filmica davvero intensa. Mentre in altri contesti le clip del gruppo mi sembrano compiacersi (ed eccedere) nel gotico, fino al lugubre e al violento, e in parodie blasfeme che non amo, qui tutto sta in armonico contrappunto nell’allegoria di vita e morte, di nascita, maternità, fuga degli anni, dissoluzione, polvere (in tedesco sono evidenti i rimandi colti alla poesia antica da pulvis et umbra sumus al cotidie morimur di Seneca passando per i moniti biblici di intonazione apocalittica). C’è la continuità della vita nel rapporto genitoriale, il desiderio erotico che è la prima pulsione dell’essere verso un altro essere, e c’è il distacco. Tutte componenti poi segmentate ed esplorate nelle altre tracce – le più ironiche come Zick Zack, Dicke Titten e Ok (qui per quanto discutibile possa essere il messaggio Ohne Kondom, emerge di nuovo un richiamo affatto superficiale all’eros descritto nella sua fisicità, nel senso più autentico del darsi, fino all’orgasmo maschile). E poi di nuovo una scrittura e atmosfera più sostenuta in ballate di grande densità emotiva, sicuramente Lügen, dove Till Lindemann ha confezionato un testo che spazia dai modelli della poesia romantica tedesca (l’incipit con l’avverbio letterario barfuß fa da apripista a una serie di immagini alte, poi destrutturate e disinnescate nella banalità di una relazione di facciata) e Meine Tränen, sul rapporto madre-figlio («Un uomo piange solo quando muore sua madre […] quando la sua stessa carne perisce nel suo sangue», eco di un’altra ballata che ha fatto la storia del gruppo, Mutter). Lindemann è uno che padroneggia molto bene i ferri dello scrivere, è un colto che può permettersi di citare, mischiare e smontare modelli letterari con una disinvoltura notevole. Dopo questo ascolto, certe cose più commerciali che si giovano di più ampia pubblicistica, ci appariranno molto abborracciate e come sotto formalina.
In Italia l
ultimo lavoro dei Rammstein è stato ben accolto; basti vedere i tanti articoli scritti un po’ ovunque, con rinnovato plauso per la coerenza progettuale di un gruppo che non si è fatto inghiottire dai cliché.
Ma vorrei dire ancora, a sostegno dello scavo emotivo e dell’analisi del tempo storico che sorregge quest’album, che perfino il Trudelturm, scelto come immagine di copertina (fotografato nell’occasione da Bryan Adams), sorta di monolite che rimanda a un set di fantascienza ma anche alle pesanti ombre del recente passato, ci parla con oscura premonizione. Quando hanno iniziato a scrivere nulla si poteva presagire della guerra che incombeva a oriente; eppure le ossessioni della guerra fredda, certi spettri di là e di qua dal muro, sarebbero tornati ad agitarsi. E in tutto questo noi viviamo la transitorietà del tempo in modo ancora più esasperante, come fossimo in una gabbia senza uscita, non interpreti del suo fluire, piuttosto sue cavie, appesantiti da inettitudini e falsità. E intanto la vita si dissolve e i nostri bambini muoiono sotto il fango e muoiono sotto i bombardamenti, e muoiono di inedia, di mancanza di prospettive, non vengono neppure al mondo perché la vita ci manca, perché se anche ci sarebbe un tempo di cui potremmo essere interpreti, non riusciamo a immaginarlo né a immaginarlo per loro.
È un album che fa riflettere – virtù sempre più rara nelle espressioni artistiche contemporanee – da ascoltare e riascoltare, un album che sembra destinato ad acquistare spessore proprio nel concatenarsi degli eventi che si affollano intorno a noi. E io dico solo grazie per il bel dono a chi me lo ha messo sotto gli occhi.


(Di Claudia Ciardi)

22 novembre 2022

Shigeru Mizuki - Guida agli Yokai



Basta vederlo in foto, con le sue espressioni comiche e scanzonate, per sentirsi subito vicini alla sua bella e ricca personalità. Shigeru Mizuki (1922-2015) è stato uno dei maggiori mankaga, artista disegnatore di fumetti – ma è una definizione ben riduttiva – nonché membro della società di antropologia culturale giapponese. Personaggio assai noto in patria (e all’estero per le tante edizioni tradotte dei suoi lavori), la sua vita è stata oggetto di una fiction e nella città che gli ha dato i natali, Sakaiminato, oltre a una via che ospita un’esposizione permanente di statue in bronzo riproducenti i suoi personaggi, si è anche istituito in suo nome un centro studi internazionale.
Dal grande alveo dell’ukiyo-e, tra i tanti rivoli che hanno tenuto a battesimo i moderni filoni dell’arte nipponica dell’incisione, si annoverano maestri raffinatissimi che proprio nella graphic novel hanno trovato un terreno elettivo per la loro creatività. Anzi, hanno fatto del libro a fumetti un genere a se stante, del tutto peculiare, un genere aperto e mutevole che spazia dal racconto illustrato all’illustrazione pura; quando ero liceale, periodo di iniziazione a queste letture, mi capitò un manga sulle quattro stagioni “fotografate” a Tokyo – una narrazione intensa e minimalista di sole tavole dedicate a botteghe, cortili, angoli di città risparmiati dalla frenesia – le uniche parole erano per l’appunto i nomi delle stagioni. Mi viene poi da citare la Divina Commedia di Go Nagai come esemplare di un altro versante glorioso e mirifico che si volge ai capolavori occidentali innestandovi spunti narrativi propri.
Nel caso di quest’opera di Shigeru Mizuki ci troviamo di fronte a un volumetto enciclopedico, una vasta e scrupolosa guida mitologica all’universo demonico giapponese, una guida visuale tra le più originali ed esaustive, a detta degli esperti in materia. E davvero, sfogliandola, non si può che restare affascinati dalla quantità di creature che ci sfilano sotto gli occhi: fantasmi, animali spettrali, apparizioni in forme diverse, bizzarre, terrificanti, innocue o incorniciate da una malinconica poesia. Sono per lo più personaggi legati a contesti rurali e di montagna; e lo si può comprendere facilmente: la nebbia alle pendici dei monti dà luogo a strane fantasie
, sembra una presenza viva. Streghe montanare, che ricordano talora le masche piemontesi, megere dispettose, esseri che si manifestano di notte, tra le sepolture, in parata insieme ad altri demoni (come per Halloween), e creature dalle fogge estravaganti, in cui si ravvisano apparentamenti con i mostri del mondo greco come non cogliere affinità con la Gorgone nella Amanozako, Yokai assurto alla dignità letteraria nel teatro Edo. Per me che ho scritto una tesi sulle Erinni e che su questi immaginari ho meditato nei pressi della Muda dantesca, dove non causalmente ritengo stessero i libri su certi argomenti – predestinazione dei luoghi! –  è un piacere che si rinnova percorrere simili narrative.  
Nel presente lavoro di Mizuki affiorano qua e là tracce di altre importanti opere di compilazione, a testimonianza che quello che sembra un testo divertente, figlio di un’arte considerata leggera, di intrattenimento, ha in sé tutta la meticolosità dell’esercizio filologico, l
attenzione per le teorie del folclore, la dedizione per lo studio di un patrimonio culturale denso e stratificato. Qui fa capolino per esempio il Supplemento ai cento demoni del presente e del passato di Sekien Toriyama che forse ha ispirato anche i Cento racconti di fantasmi di Hokusai. Dunque in un contenitore versatile vocato a rivisitare tradizioni locali o estranee attraverso formule e sguardi irrituali, si scorge una matrice nei propri padri classici tuttaltro che sfuocata, che attinge anzi con precisione ai “modelli alti” della trattatistica e manualistica più antica.
Un tascabile – poco più spesso di un tascabile – da leggere in treno, in bus o metro. Pagine che sembrano perfette anche per intrattenere i bambini, depositarie come sono di ogni immaginazione. Quest’anno ricorre il centenario della nascita dell’illustratore e ci fa piacere contribuire al suo omaggio ricordandolo in una galleria di contenuti e disegni così variegata e coinvolgente.

(Di Claudia Ciardi) 

 

* In copertina: Chokeshin - La metamorfosi della farfalla [Yokai con sembianze di animali]

 

Edizione consultata:

Shigeru Mizuki, Guida agli Yokai giapponesi, Kappalab, 2022

 

 

 

 

 


 






Hokusai, Il fantasma di Oiwa [Oiwasan], 1831

xilografia policroma

Scheda e illustrazione tratte da Hokusai, presentazione di Théodore Duret, Skira [collana Skira Masters], 2016