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11 aprile 2012
Stemma di Berlino
Stemma di Berlino: poesia tedesca della metropoli
di Franco Buono
Edizioni Dedalo, 2000
Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui l'autore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile. A Berlino questi due elementi girano come all’interno di un acceleratore di particelle, liberando una energia che si scopre accresciuta all’inverosimile dai tanti moltiplicatori architettonici, meccanici e pubblicitari, di cui a inizio ‘900 il tessuto metropolitano pare nutrirsi con inaudita frenesia.
«In nova fert animus mutatas dicere formas corpora», l’incipit ovidiano diviene la formula incantatoria con cui la nuova arte cerca di guadagnarsi l’ingresso nel mutevole cosmo urbano. E questo ambiente incorniciato dall’accigliata sagoma delle fabbriche su cui vacillano pallide comete di luci a gas diviene una cosa sola con la materia dove l’incisore imprime il proprio passaggio creativo, inquieta matrice scossa dalla memorabile battaglia di spettri e ombre che si consuma nel sottosuolo. Non è da intendersi come un fatto casuale che l’analisi critica di Franco Buono si indirizzi proprio alle tavole di Frans Masereel, autore di un romanzo per immagini, Die Stadt (La Città), considerato uno dei best seller del periodo espressionista. Né minore risonanza ebbero i disegni di Heinrich Kley, ritrattista di fauni lascivi e fantasmi beffardi, tremendi guardiani a cavalcioni di ponti e palazzi, fatti per ricordare al passante la doppia anima che alberga nella città. Non furono pochi i poeti che da queste rappresentazioni trassero linfa preziosa per alimentare il loro immaginario, uno su tutti Georg Heym, precoce e tragico ingegno della Slesia che al dio della città sacrificò il suo franto e malinconico lirismo.
«Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà facilmente un labirinto. Così fa l’istinto negli episodi che precedono la sua soddisfazione». Walter Benjamin ha ben fotografato il viaggio nella sua tortuosa ricerca di un compimento. Alla fine del percorso resta quel nudo corpo di segni muti che evocano a chi li osserva la tempesta della storia da cui sono stati forgiati. È lo stemma di Kolmar, donna e luogo, straniera eppure più di chiunque altro intima interprete delle proprie radici. All’origine di ogni città, come di ogni forma individuale sta un sacrificio. Una parte del suolo e del sé viene consacrata a qualcosa, e ciò che è a un tempo una lacerazione, uno strappo traumatico ma necessario attorno a cui si organizza la vita della comunità e del singolo non cessa di reclamare nel tempo il proprio rito d’esorcismo. La poesia di Berlino nel primo ventennio del ‘900 nasce da queste membra spezzate e dal bisogno di dar voce all’istinto mai sopito che le chiama continuamente alla metamorfosi.
Links:
English database on Berlin / database in inglese sulla metropoli come corpo vivente:
Berlin: the city as body, the city as metaphor
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Walter Benjamin - Enthebe mich der Zeit / Liberami dal tempo
Georg Heym - Die Höfe luden uns ein / Ci invitarono i cortili
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