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18 giugno 2012

Espressionismo e rivolta



Lespressionismo come rivolta generazionale



Tra l’inizio del secolo e gli anni Dieci del Novecento, quella che sarà ricordata come l’epoca delle avanguardie, della ribellione contro l’accademia, l’esistenza dei giovani sulla scena politica diventa tangibile e presente in più nazioni, in particolare nel mondo tedesco. Giovane diventa sinonimo di “puro, nuovo, rivoluzionario, salvifico”; mentre “vecchio” assume i soli significati negativi.

In un importante libro, Rites of Spring. The Great War and the Birth of Modern Age, Modris Eksteins ha identificato questa stagione, con i “riti di primavera”, facendo un esplicito riferimento all’opera di Igor Stravinskij, La sagra della primavera, messa in scena a Parigi nel maggio 1913. Come noto, il balletto si richiama ad un antico rito russo: il sacrificio di una adolescente scelta per ballare fino alla morte di fronte agli anziani allo scopo di propiziare la benevolenza degli dei in vista della nuova stagione e questo diventa simbolo sia del nuovo secolo che del prossimo sacrificio dell’Europa nella guerra.

La generazione espressionista nasce negli anni dal 1880 al 1890 e cronologicamente il movimento, che a differenza di altri è privo di un manifesto di fondazione, viene fatto iniziare attorno al 1907 e finire più o meno nel 1926.

L’espressionismo è quindi un movimento di giovani, talvolta di adolescenti. Come scrive Ladislao Mittner a proposito della lirica, si tratta di una generazione di scrittori “che si sentivano poeti in quanto erano giovani ed avevano un irrefrenabile bisogno di ribellarsi ai vecchi, al passato, a tutto il passato. ‘Invecchiare è inganno o cinismo’ spiega Ludwig Rubiner, perché i vecchi negano o almeno cercano di differire la rivoluzione”.

Tuttavia, a differenza di altri movimenti, gli espressionisti ebbero la consapevolezza di costituire una nuova generazione. Nel dramma Der Sohn Walter Hasenclever racconta la ribellione di un giovane liceale contro il padre dispotico e facendo ciò ritrae la giovane generazione: “Questo lavoro – scrive nel 1916 nel manifesto Das Theater von Morgen – fu scritto nell’autunno del 1913 e si prefigge lo scopo di mutare il mondo. È la rappresentazione della lotta attraverso la nascita della vita, la ribellione dello spirito contro la realtà”.

L’espressionismo era animato da una forte carica antiautoritaria che coinvolgeva diverse figure  ed istituzioni. La prima ad essere messa in discussione è la figura del padre. Essere padri è una condizione ontologica irrimedibile: “Quando sarà padre a sua volta, diverrà come lui. Il padre… è il destino del figlio. La favola della lotta per l’esistenza non ha più senso: nella casa paterna si accendono il primo amore ed il primo odio” – declama il Figlio al Precettore. E prosegue: “se lei avrà una volta un figlio, lo abbandoni, o muoia prima di lui. Tanto verrà il giorno in cui sarete nemici, lei e suo figlio. E allora Iddio abbia pietà del vinto”.

Si tratta di un clima diffuso: “Erano anni quelli in cui il conflitto tra padre e figlio si esigeva da ogni giovane autore promettente”, scrive Carl Zuckmayer. E nel 1919 Franz Kafka inizia così la sua lunga lettera al padre che non consegnerà mai: “Caro papà, recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari, più di quanti riuscirei a riunire in qualche modo in un discorso”. In questo scritto la figura paterna è sotto il segno della paura e del dispotismo: “ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni”.

Ma il Padre è solo un rappresentante di una schiera di figure autoritarie e la famiglia solo uno dei luoghi vissuti come inferni. Il loro mondo è il mondo della Kinderstube, retto dai numi tutelari del Padre e della Madre. L’uscita da questo mondo li getta nell’inferno dei collegi, della scuola e poi in quello ben più terribile delle trincee.

All’entusiasmo della mobilitazione, alla fede in una rigenerazione attraverso il sangue, fatti propri anche dagli espressionisti, subentra il disincanto e l’orrore. Nella Wandlung (La trasformazione o La metamorfosi) di Ernst Toller, composto tra il 1917-1918, una delle stazioni del dramma è il vagone bestiame in cui il protagonista, assieme ad altri giovanissimi, è portato al fronte. Egli, che si sente come gli altri ancora bambino, capisce di essere stato abbandonato e tradito dai genitori. Un soldato recita: “Smarriti erriamo, bimbi tremebondi/ in preda ad arbitrio insensato, uccidiamo,/ soffriamo la fame, compiamo violenze./ Ma siamo sempre bimbi tremebondi/ atterriti dal buio della notte”. E in guerra moriranno molti dei lirici come Stadler, Trakl, Sorge, Lichtenstein (e il non più giovane Stramm); e fra i pittori Marc e Macke.

Il successo di pubblico dell’espressionismo, soprattutto per quanto riguarda il teatro e il cinema, data l’immediato dopoguerra. Poi subentrerà la Neue Sachlichkeit e dalla presa del potere del nazismo vi sarà una cancellazione del movimento fino al culmine del 1937 quando le loro opere furono epurate dai musei e divennero “arte degenerata” (entartete Kunst), come recitava il titolo di una grande mostra itinerante. Il numero di coloro che si suicideranno è quasi impressionante come quello dei caduti nelle trincee: Ernst Toller (1893-1939) in America nel 1939; Reinhard Goering nel 1936; Walter Hasenclaver e Carl Einstein nel 1940; mentre Stefan Zweig (1881-1942) si suicidò in Brasile insieme alla sua seconda moglie.

L’espressionismo fu letteralmente riscoperto dopo la Seconda guerra mondiale e vide un fiorire di pubblicazioni e di messe in scena negli anni Sessanta. Motivo forse non secondario di questa riscoperta fuori dal ristretto ambito accademico fu forse il fatto che molte tematiche espressioniste erano in sintonia con quell’altra rivolta generazionale che negli anni Sessanta coinvolse l’intero occidente e culminò nella data simbolo del Sessantotto. Sono i temi del conflitto fra generazioni, che è centrale soprattutto nel teatro espressionista e che si articola nella rivolta contro l’autoritarismo dei padri e delle figure ad essi riconducibili (professori, militari); nella rivolta contro la morale sessuale borghese e poi nel rifiuto della guerra.


15 giugno 2012

Tagebücher - Robert Musil


Robert Musil
Tagebücher
hrsg. von Adolf Frisé
Rowohlt, Dezember 1976



Abend in der vornehmen Straße

Sera nella strada signorile

Heft 4: 1899?-1904 oder später
[p. 26]

Julinacht. Ein Klavier und ein Harmonium klagen zusammen Tristan. Das gibt eine dermaßen qualvolle Färbung des Leidens, wie sie in Wirklichkeit gar nicht existiert. So unendlich und so süß schmerzlich können diese Menschen gar nicht leiden, als ihre Töne sie glauben machen möchten…
Dann schweigt das Klavier, und das Harmonium wandelt allein wie in altmodischen Schnörkeln zwischen braungoldenen Kornfeldern, mit Mädchen in taillenlosen Kleidern und Schäferhüten…
Notte di luglio. Un pianoforte e un armonium intonano insieme il lamento di Tristano. Questo dà un’atroce sfumatura di dolore, come nella realtà non esiste affatto. Tanto infinitamente e con tanta dolorosa dolcezza questa gente non può soffrire, come le loro note lascerebbero intendere…
Poi tace il pianoforte, e l’armonium passeggia da solo in svolazzi fuori moda come tra campi di grano dorati, con ragazze in vesti per nulla avvitate e cappelli da pastore…

[…]

«Skizzenbuch eines Sensitiven» Sensitives Skizzenbuch wäre der Titel, der nicht zu viel verspricht und gerade soweit arrogant gegen mich selbst ist, als mir zusagt.
Diese Gedanken sind oft dünn wie der Zopf eines kleinen Schulmädchens…ein Passus aus der Vorrede.

«Libro di schizzi di un sensitivo» o libro di schizzi sensitivo sarebbe il titolo, che non promette troppo e proprio nella misura in cui è arrogante verso me stesso, mi piace.
Questi pensieri spesso sono sottili come la treccia di una scolaretta…un passo dall'introduzione.

[…]


8. August 1910. Berlin

Heft 5: 8. August 1910 – 14 Oktober 1911 oder später
[p. 51]

Wir sind nicht in Italien, nicht in Holland, nicht in Tirol sondern in Berlin. Das macht, daß die Kinder die Masern bekamen, das kalte Wetter erleichtert es. Auch haben sich wieder einmal die Unterhandlungen im letzten Moment zerschlagen und wir sind wegen der nächsten Zukunft im Ungewissen. Wir empfanden beide nach der Spannung des Konzessionenmachens den Wiedereintritt des Krieges als eine Erleichterung.
Ich komme eben von Martha; auf der Straße ist Luft und Licht wie im Vorfrühling. Ich dachte mir, daß aller Ausdruck doch am Licht hängt: ich hatte einen Kohlenausträger im Profil gesehen. Die Wangen aufgelöst, ihre Farben wie vom Licht durcheinandergewühlt und dann liegen gelassen, Stirn, Nasenrücken, Haare vorn direkt beschienen (aber diffuses, nur mehr über die Dächer kommendes Licht) – ich habe kein Wort für den Ausdruck dieses Menschen. […]


Non siamo in Italia né in Olanda né in Tirolo ma a Berlino*. Il che comporta che i bambini si son buscati il morbillo, e il tempo freddo gli facilita il compito. Ancora una volta all’ultimo momento sono andate in fumo le trattative e per il prossimo futuro siamo nell’incerto. Abbiamo considerato entrambi un sollievo, dopo la tensione del fare concessioni, la ripresa della guerra.* Torno proprio ora da Marta; sulla strada aria e luce come in primavera. Mi immaginavo che ogni espressione dipendesse certamente dalla luce: ho visto un fattorino del carbone di profilo. Le guance dissolte, i loro colori come confusamente frugati dalla luce e poi lasciati riposare, la fronte, il dorso del naso, i capelli illuminati proprio davanti (ma in una luce diffusa, proveniente da sopra i tetti) – non ho parole per descrivere l’espressione di quest’uomo. [...]

*Robert Musil viveva allora a Berlino nel sobborgo di Wilmersdorf, Kaiserallee, 177
*Il riferimento è alle difficoltà incontrate da Martha Heimann, compagna di Musil, poi sua moglie, per ottenere lo scioglimento del matrimonio con l'italiano Enrico Marcovaldi, dal quale aveva avuto due figli, Gaetano e Annina
Traduzione/ Übersetzung

Claudia Ciardi



Collegamenti/ links - sulla metropoli/ on 'Metropolis mood':

Antonella Gargano, Progetto metropoli. La Berlino dell'espressionismo, Silvy edizioni, 2012

Gerog Heym, Ci invitarono i cortili e altre poesie, a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, dicembre 2011

La Stampa e Via del Vento edizioni - 9 giugno 2012

6 giugno 2012

Berlin Metropolis


Berlino prima di Weimar. Ebrei e avanguardie



Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino.
Guglielmo II combatté molto energicamente contro i nuovi movimenti artistici e in particolare le correnti moderniste che lambivano la Germania. In un simile contesto gli ebrei si trovarono a gestire non poche leve culturali, contribuendo all’accelerazione di un processo di svecchiamento dei sempre più improponibili modelli imperiali. Una società essenzialmente agricola nel 1850 fu trasformata in una delle più avanzate nazioni industriali a partire dal 1890. Dal momento che gli ebrei avevano lasciato i loro villaggi per le città più o meno una generazione prima rispetto agli altri tedeschi, giocarono un ruolo centrale in questo processo, e alcuni avevano cominciato a diventare abbastanza importanti nella vita economica tedesca proprio dal 1890.
Nonostante le molte opportunità a disposizione durante questo periodo, essi erano tuttavia ancora esclusi da importanti aree della vita pubblica tedesca, come l’esercito, la burocrazia di stato e le università. Essendo loro negato l’accesso alle sfere pubbliche, si volsero così agli ambiti meno organizzati della vita urbana, come i giornali, le riviste, le gallerie d’arte, i caffè, il teatro e i gruppi politici. In questa congiuntura della storia tedesca, gli ebrei erano pienamente tedeschi, ma ancora outsiders della società. Gli uomini e le donne coinvolti nel modernismo appartenevano alla generazione transitoria degli ebrei tedeschi: abbastanza lontani dalla vita tradizionale della comunità ebraica, coinvolti nella cultura tedesca, ma non ancora del tutto assimilati dalla società.
Come ha scritto Frederic Grunfeld: «….fu precisamente questo problematico strato di “ebrei del margine” – i  cosiddetti Grenzjuden – che fornì la maggior parte degli artisti e intellettuali che aiutarono a creare la più esaltante epoca della storia culturale tedesca. L’autentica precarietà della loro posizione a cavallo di due culture dette loro uno straordinario punto di vantaggio da cui esaminare il paesaggio culturale dell’Europa».

L’occasione di una mostra che si è tenuta al Jewish Museum di New York dal novembre del 1999 al marzo del 2000 ha ispirato un bel catalogo, che non solo rappresenta un prezioso approfondimento sulla cultura contemporanea nel vecchio continente ma cerca anche di divulgare tra un pubblico più ampio un pezzo imprescindibile di identità europea. La densa raccolta di saggi, corredata da un interessantissimo apparato illustrativo, che va dai ritratti dei principali animatori della scena culturale del tempo, alle riproduzioni di molte opere d’arte frutto di quei sodalizi magnifici, fino alle locandine degli spettacoli di teatro e cabaret, colma una lacuna su un passaggio storico fondamentale qui avvicinato con esaustiva competenza. 
Il volume, organizzato da Emily D. Bilski, racconta un entusiasmante ventennio a Berlino. Dal 1890 al 1918. Un’avventura culturale e umana che acquista forza e cresce di intensità in quella fervida stagione che segue all’unificazione della Germania e vede Berlino al centro di una clamorosa rinascita di ingegno e creatività.
Un Big-Bang architettonico e tecnologico, sotto l’egida del quale l’estro di molti elementi che provenivano dalle comunità ebraiche, affluiti nella capitale dalle province, sommato alla curiosità delle avanguardie non ebree si mescolano in un sorprendente meticciato artistico.
Una vicenda poco nota e che vale la pena approfondire, perché oltre a rappresentarsi come un magnifico viaggio attraverso gli ambienti e le personalità che hanno presieduto il rito modernista a Berlino, peraltro negli stessi anni in cui Londra era travolta dall’onda vorticista e imaginista degli anglo-americani, qui si tratta anche di una storia dell’integrazione figlia di un momento ideale e perfetto in cui per la prima volta sembra di poter raggiungere un’intesa conciliante e carica di stimoli. Urbanizzati, elettrizzati dal progresso economico e culturale, molti ebrei trovarono nella fremente aria berlinese un tessuto ideale per esprimere la loro identità e quella che intendevano conquistare.
È l’epoca delle riunioni alla Die neue Gemeinschaft dei fratelli Hart, dove artisti e intellettuali ebrei e non ebrei si confrontavano in libertà, e degli incontri al Café des Westens tra un giovanissimo Walter Benjamin e una incontenibile Else Lasker-Schüler. E tuttavia l’ombra della prima guerra mondiale cresceva, da una parte guadagnando metri al tramonto delle censure guglielmine, positivo superamento questo di residue contraddizioni dalle origini antiche, ma anche dal lato opposto inghiottendo in modo inarrestabile quel periodo di elezione, quasi aureo, in cui Oskar Kokoschka, Karl Kraus, Herwarth Walden si erano ritrovati nella “festa mobile” di Berlino.
La risposta alla chiamata alle armi che per molti ebrei significava l’abbattimento dell’estremo muro dell’emarginazione, si trasformò nell’inizio del disincanto. La Repubblica di Weimar fu l’ultimo fragilissimo baluardo di una ideale pacifica convivenza prima della catastrofe.

Il volume oggetto di questo commento è: Berlin Metropolis: Jews and the New Culture, 1890-1918, a cura di Emily D. Bilski, University of California Press and The Jewish Museum, New York, 1999-2000
Per approfondire:
Dalla candela ai quanti. La storia della luce nella filosofia, nell’arte, nella scienza, Arthur Zajonc, Red edizioni, 1999, in particolare il paragrafo La filosofia della vita, pp. 251-254

Sulle attività del Café des Westens si veda la voce di Wikipedia curata da Claudia Ciardi e ispirata al capitolo a tema di Berlin Metropolis
Liberami dal tempo e altre poesie, a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, ottobre 2011, volume Acquamarina n. 44
Su Weimar:

La cultura di Weimar, Peter Gay, introduzione di Cesare Cases, Dedalo Libri, 1978
Per una fotografia di Berlino nel periodo weimariano si veda in particolare da p. 171 a 191 

Per un ritratto critico della Berlino modernista a conclusione dell’esperienza di Weimar:

Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931) / titolo originale: Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte (1921-1931), Elias Canetti, Bompiani Tascabili, 1989, su licenza Adelphi. Si veda in particolare la parte quarta, La ressa dei nomi, Berlino 1928, pp. 271-317

1 giugno 2012

Stemma di un vagabondaggio


Stemma di un vagabondaggio
Wappen einer Wanderung
A coat of arms for a pilgrimage
di/von Claudia Ciardi

Tribute to Gertrud Kolmar and Walter Benjamin


                                                 
                                     Collana curatori-autori - Gattili edizioni



                                  Stemma di un vagabondaggio

Nella stanza c’è un aleph. So stabilirne con precisione il punto. È una mattonella sbiadita ai piedi del letto. Da lì s’intravede chi ci ha abitato e molti passi ancora risuonano su questi solai, a volte me li sento vibrare fin dentro le scarpe e non so se il mio cammino prosegue quello di un altro. Una tenda sanguigna guizza dal quadro di una finestra come un aquilone spezzato o una coda di lucertola. Davanti c’è sempre il fiume, gravido, gorgogliante intorno ai piloni, col suo odore pungente di melma che stropiccia senza sosta quei fianchi troppo stretti, il corpo di una bestia che scarta da tutte le parti per disarcionare il suo padrone. Onde torniscono le sue vertebre di bragia e la testa impagliata rotola nelle pieghe della corrente. Anni fa c’era qui un luna park che riempì un pomeriggio della mia adolescenza. L’argine potato somiglia a una cresta ispida dove gli insetti vagano confusi alla ricerca di vecchi steli. Lascia affiorare scheletri. Oggetti appartenuti a una quotidianità, forse neanche troppo lontana, si fanno sorprendere indecifrabili e desueti, mentre gli alberi si sfrondano insieme ai rumori della stazione rovesciati sull’erba incanutita e rada.
Il ghiaccio mi scricchiola sotto i piedi. Esco da questa specie di ghetto in cui sono entrata mio malgrado tre anni fa. Esco, ed è come se mi partorissero veramente adesso. Lungo il corridoio ancora addormentato, non una luce, non una presenza nel mattino stagnante. Un passo dopo l’altro fuori, per scardinare l’attesa, la folle pesantezza degli anni e il ferro con cui siamo stati marchiati, lo stesso che di nuovo ci spinge fuori. Il mio corpo è un centro di gravità, un palpito sulla curva invisibile in cui si decide lo stacco del funambolo. Al mio pallido involucro l’aria avvolge la sua lingua, è gelida, mi porta un canestro di spine davanti al viso, è tutto quello che sa offrire.
Mi credono un mendicante ma è pur vero che perfino gli dèi si son vestiti di stracci per provare la benevolenza della gente. Vita, non vedi che mi son fatta mendica per attaccarti il mio orecchio alle viscere?
E attraverso di nuovo la mia regione, dal mare all’interno. Quanto mi è costata questa ennesima discesa nel grembo che mi ha messo al mondo. In questa geografia si è decisa la mia vita e il mio esserci si è nutrito di questo ventre. Ma troppi sono ancora i momenti in cui non mi sento parte nulla e il distacco pende uguale a una corda che era una volta la carrucola di un pozzo. Ne abbiam fatto lo stemma di un vagabondaggio, dalle braccia e le fiamme ammutolite, che incoronano i soffitti della nostra piaga. Mentre l’ora scende sull’umida valva delle strade, il mio velo si squarcia insieme alle barbe del tempo che l’aria smuove sopra le crepe. Ho stinto la mia biacca ai bordi di questi fossati e uno strascico d’ossa mi premeva tra nidi d’ombra, dove i ragni tessono muti il fiato ubriaco dei lampioni.

Sito ufficiale/ Official site - Gattili

Antonio Pellegrino - Gattili edizioni su Google Books


Appendix
Stemma di Berlino / Wappen Berlins

Lo stemma cittadino ha la seguente descrizione araldica: «In un campo d'argento, un orso rampante nero, armato e linguato di rosso. In alto, una corona d'oro decorata con otto fioroni dello stesso metallo, di cui cinque in vista.»
L'origine dello stemma è sconosciuta, tuttavia si suppone che esso sia stato adottato in omaggio ad Alberto I di Brandeburgo (1100-1170).

Wappen der Stadt Berlin von 1920
(Entwurf von 1934)
Beschreibung des Wappens:
In weißem Schild ein aufrecht, nach rechts schreitender schwarzer Bär mit roter Zunge. Der Schild ist rot umrahmt und trägt eine stark stilisierte rote fünftürmige Mauerkrone.
Geschichte des Wappen:
Mit der Revolution von 1918 werden die Adler im Schild "überflüssig". Seit 1920 steht der Bär allein im Wappenschild, als Symbol der neuen Stadtgemeinde. In diesem Jahr wurde aus 8 Städten, 59 Landgemeinden und 27 Gutsbezirken die neue Stadtgemeinde Berlin geschaffen. Der Wunsch den neuen Bezirken eigene Wappen zu vergeben, blieb aber bis 1945 unerfüllt. 1934 unterbreitet Sigmund von Weech einen Entwurf für ein neues Berliner Wappen. Dieses zeigt den Bären in weißem Feld mit roter Schildumrahmung und roter Mauerkrone. Dieses Wappen wurde praktisch unverändert bis 1990 von Ost-Berlin benutzt.