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14 ottobre 2012

Helga Schneider


Uuzym polzo ieldii
Nella mia bocca è il vento


Formula di un rituale Teleut (Siberia)

«Un’alba impaziente aveva fuso la notte come cera».
[...]
«Finalmente il treno si rimise in moto giungendo a Berlino che era buio pesto. La stazione era avvolta da tenebre impenetrabili e un ferroviere ci scortò fino all’uscita con un lume raccomandandoci di cercare un riparo perché era appena stato lanciato l’allarme aereo. Mi accodai a un gruppo che stava puntando verso un rifugio pubblico nei pressi di Askanischer Platz.
Anche l’Askanischer Platz si presentò nera come la pece con il complesso dell’Europahaus oscurato. L’atmosfera era triste e sinistra. Si sentirono i primi rombi aerei e tutti presero a spingere per mettersi in salvo il più in fretta possibile. […] L’inferno finì dopo mezzanotte. Nuova ressa per uscire.
Finalmente fuori.
Inspirai avidamente l’aria fresca e solo in quel momento mi afferrò l’emozione di essere di nuovo a Berlino».
[...]
«Stavamo percorrendo il Kurfürstendamm. Fino a qualche tempo addietro era stata un’area piena di vita e ora sembrava un luogo di fantasmi.
Silenzio, buio e poca gente per strada. Gregor osservò con disappunto: – Non capisco più i berlinesi! Cosa li trattiene dal comportarsi come una volta divertendosi e godendosi la vita? Possibile che l’obbligo dell’oscuramento sia sufficiente per inchiodare il popolo di una metropoli tra le proprie quattro mura?
– È la guerra, – non potei fare a meno di obiettare. – La guerra deprime, rende insicuri e preoccupati».
[...] 

«Ci sono stati alcuni bombardamenti sulla capitale ma per fortuna non hanno causato troppi danni. Il 26 agosto è stato colpito il centro storico e ci sono stati numerosi morti. Tutti sono molto scossi….»
Berlino, 28 agosto 1940

Portrait of Helga Schneider

Il piccolo Adolf non aveva le ciglia
di Helga Schneider
Grete è una giovane madre che sperimenta sulla propria pelle la cruda efferatezza del programma di eutanasia elaborato dal nazismo. Tutto comincia quando conosce Gregor, il facoltoso rampollo di una famiglia prussiana, destinato a una radiosa carriera nelle alte gerarchie del regime. L’unione è in apparenza felice ma molte ombre minano la solidità della coppia. Il carattere instabile di Gregor infatti non tarda a manifestarsi nella forma di una brutale crescente violenza, culminando nel rifiuto del figlio, che, appena nato, viene trasferito all’istituto di Görden, la prima struttura ad essere entrata in funzione per praticare lo sterminio di bambini affetti da malformazioni e malattie genetiche. Ma il calvario di Grete è solo agli inizi. Gregor, consapevole di non poter salvare in alcun modo il suo matrimonio, per cancellare la vergogna che ciò comporta in una società che ha eretto altari al culto dell’ordine e della perfezione, dispone il ricovero coatto della moglie in un centro di cura per le malattie mentali, avviandola a morte certa.
Solo per una incredibile fatalità Grete scampa alla camera a gas. Da questo punto in poi ha inizio la sua seconda vita, con l’adesione alla resistenza e un nuovo amore. La storia vera di Grete Schulze rappresenta il drammatico percorso del risveglio di una coscienza indottrinata, plagiata fin dall’infanzia ad accettare passivamente regole e comportamenti che ne avrebbero fatto un ottimo elemento di sostegno al partito di Hitler.
Attraverso questo romanzo Helga Schneider aggiunge un tassello importante alla sua indagine sui crimini commessi dalla dittatura nazista, affrontando un tema delicatissimo in rapporto al quale il processo di recupero di una memoria esaustiva di fatti e persone coinvolte, parallelamente alla stesura di una storiografia critica,  può dirsi tutt’altro che concluso.
L’opera è corredata di una nota di approfondimento nella quale si ricostruisce la pianificazione e la messa in atto dello sterminio di quanti furono considerati ‘inabili’ al lavoro e alla procreazione: epilettici, senza fissa dimora, disabili, malati di mente, invalidi di guerra, omosessuali. Una sintesi che permette di seguire nello spazio geografico e cronologico i terribili sviluppi di una pratica ispirata da un’ideologia folle, alla quale vanno attribuite 70.000 vittime.
(di Claudia Ciardi)

Heike riprende a respirare
Su licenza della Salani Editore (2008), TEA ripropone nel 2011 un intenso romanzo di Helga Schneider, "Heike riprende a respirare", dove la scrittrice, scampata alla furia della battaglia di Berlino e da molti anni in prima fila nel rappresentare il dramma del popolo tedesco annientato dal delirio nazista, torna a riflettere sulle distruzioni fisiche e morali della guerra.
L’inizio del 2011 ha visto dare alla luce diverse pubblicazioni su questo tema, pensiamo al bel volume di Abscondita che presenta in nuova veste editoriale il quaderno-poema di acqueforti, Estragos o Desastres de la guerra, realizzato da Francisco Goya tra il 1814 e il 1820; guardiamo agli appunti scritti durante la seconda guerra mondiale da John Steinbeck, mentre era al fronte come corrispondente per l’esercito americano, usciti a gennaio per Bompiani; e ancora il Cendrars di Via del Vento edizioni, reduce e invalido di guerra che cerca di far proseguire la propria vita. Questi lavori arrivano in un momento cruciale per l’assetto geopolitico del Mediterraneo. Non è volersi affidare a tutti i costi ai ricorsi storici. Eppure, quella che va presa come un’innegabile coincidenza, senz’altro conferisce maggior vigore ai messaggi di autori che tornano ad affacciarsi nel panorama culturale dell’occidente proprio in una fase delicatissima, nella quale quotidianamente abbiamo sotto gli occhi esodi e violenze. Di un simile aggirarsi per macerie umane e culturali la scrittura della Schneider si fa carico con straordinaria intensità, proiettando la narrazione pezzo per pezzo verso la fragile quinta di una realtà desolata.
Al pari di una macchina da presa, il racconto indugia ripetutamente sul paesaggio lunare di una città che non c’è più, non solo per il venir meno dei suoi spazi ma anche, e soprattutto, in seguito alla fine delle consuetudini e della quotidianità vissute dai suoi abitanti. C’è un respiro spezzato nelle architetture e uno, interrotto con strazio ancora più grande, nelle persone: lo spazio offeso scandisce il ritmo di una lacerazione corale. Peraltro la memoria dolorosamente infranta dal dramma di un’epoca è al centro anche di altri resoconti. Uno su tutti, il romanzo di Anne-Marie Hirsch, esule in Francia dall’avvento del nazismo. Nel suo Ritorno a Weimar la Hirsch, compiendo un percorso in parte simile a quello della Schneider, che la porta tra le rovine delle città tedesche, da Berlino ad Halle, comincia un lento ritorno a quel mondo, violentemente strappato alla propria vita e perfino al ricordo, quindici anni prima. Ogni giorno, i sopravvissuti, sotto l’assedio di una sorta di spasimo del nulla, cercano di rintracciare la strada che porti a una guarigione dal trauma, se non arrivando a superarlo, almeno aspettandosi di sanare la tensione che ancora, alla fine del disastro, tiene lontana l’anima dal sé, non a caso, per gli antichi, soffio vitale e centro sensibile. Un’esistenza più che stentata quella in cui si trascina il popolo delle Trümmerwohnungen, abitazioni di fortuna ricavate da case distrutte. E ciò a partire dalle due protagoniste, Heike, cugina berlinese della scrittrice, e la madre, vittima prima delle violenze dei Russi e poi della brutta depressione che le sarà fatale. Dopo il bombardamento della casa, convertita la cantina in alloggio, le due donne lottano per dare un senso alla loro vita familiare, in attesa dell’arrivo del padre e marito. Ma la volontà di andare avanti viene meno a Margie, lentamente consumata da un dolore insidioso, quasi l’ammorbante scenario di sconforto, che non lascia intravedere alcuna speranza, reclami da lei ogni intento di salvezza, finché un pomeriggio la fa finita, assumendo una massiccia dose di Veronal. Heike si trova disperata e sola, in un mondo di solitudine e devastazione col quale combatterà la sua personale e durissima battaglia, per poter ritrovare se stessa e lo spazio che le appartiene. Come per un’assurda fatalità, l’estremo gesto della madre le riporta il padre. E tuttavia, il genitore è a sua volta confuso e svuotato dall’atmosfera di un paese nel quale fa fatica a riconoscere e recuperare i cocci della propria vita, precedente lo strappo della guerra. La Schneider riflette molto bene in questo lavoro su un tema centrale nella società tedesca postbellica, affrontato ad esempio, con grande semplicità e immediatezza, anche dal diario di Marta Hillers: la frustrazione maschile per la sconfitta, la perdita dei punti di riferimento nel contesto privato e pubblico e il ruolo delle donne le quali, al prezzo di una sofferenza non minore ma che hanno saputo volgere in positivo, perlomeno in molti casi, si sono messe a scavare, letteralmente e moralmente, tra le rovine del proprio paese per ricostruirne le case e, soprattutto, le persone. Del resto, già un paio di millenni e più orsono, Eschilo ci aveva mostrato quanto delicato fosse il dialogo e lo scambio, all’interno della pólis, tra le attività e i rapporti del nucleo familiare e le istituzioni. E aveva messo in guardia i propri concittadini dal fatto che un irragionevole sentimento di paura, generato dai cattivi governanti, e la stásis, ossia la guerra interna, sua inevitabile conseguenza, facessero correre pericoli esiziali alla società. Le macerie del Pireo e quelle di Berlino si osservano in controluce e mettono a fuoco la stessa tragedia. Heike ha solo dieci anni, eppure trova il coraggio di gridare il suo disagio e di scuotere il padre dal torpore che sempre più lo sottrae a lei. È, certamente, una ribellione ingenua, che non manca di metterla in serio pericolo, ma nel tempo sortisce i suoi effetti.
In questo nulla umano i soli elementi di rifugio e consolazione, grazie ai quali Heike si sente ancora in contatto col mondo, sono gli alberi e la lingua che parla con loro. Proprio l’alternanza tra la polvere e l’aridità della terra, e l’improvviso aprirsi di rigogliosi squarci di verde, danno un respiro tutto particolare alla narrazione. Le piante, fiorite nel deserto, incarnano la resistenza della vita, che dentro se stessa trova la forza di uscire dalla catastrofe.
(di Claudia Ciardi)

Il rogo di Berlino 
«Perché piango? Io non lascio niente, tranne il buon vecchio Opa. Ma quanto fa male! Lascio una città che mi ha rifiutato tutto: una madre, un padre, la nonna. Una vita normale, un’infanzia serena. Una città che mi ha dato solo dolore, privazioni, terrore, solitudine, tristezza, angoscia e disperazione. Perché piango?»
"L’addio a Berlino" di Helga Schneider è una delle dichiarazioni d’amore più toccanti e appassionate che si possano rivolgere a una città. Helga, che aveva otto anni quando si è trovata a vivere i mesi della caduta del Reich in una Berlino bombardata con eccezionale violenza e condannata a un’agonia lenta e terribile, scrive una testimonianza asciutta degli eventi che hanno segnato la sua infanzia e quella del fratello minore Peter.
Le corti di Berlino, spettrali e deserte, la vita di una città che è costretta ad abbandonare spazi e consuetudini, una ferita che si allarga e sanguina di infinita devastazione. Ovunque rovine e il “muto sconcerto” che si abbatte su tutto. L’immenso rogo di una città chiusa in un dolore attonito, assurda prigione di corpi dove la morte, nella veste di un’infaticabile sorvegliante, si è aggirata febbrilmente per mesi. Helga ha vissuto in una cantina, insieme alla famiglia e agli altri abitanti del suo palazzo, i mesi atroci dell’assedio di Berlino. La condanna a un’esistenza sotterranea, piena di privazioni. Inaudite condizioni di sopravvivenza. Gli stenti della fame e della sete e i pericolosi viaggi, nei brevi intervalli tra i bombardamenti, in cerca di qualcosa con cui andare avanti. Le urla di chi ha scelto a rifugio i sotterranei della metropolitana, i corpi sorpresi per strada dalle incursioni aeree, il fischio impressionante degli “organi” di Stalin. Cumuli di macerie, dappertutto, la vita saccheggiata a una città e alla sua comunità.
Di origini austriache, alla fine della guerra, in seguito al ritorno del padre, l’autrice rimpatria con i genitori nel proprio paese. Ma la tragedia di Berlino, gli anni nella città che dentro di sé ha espiato il dolore del mondo, le settimane nella cantina dove ha rischiato di morire non si possono dimenticare. Si può dire addio a Berlino? Pianto di liberazione, pianto di nostalgia, pianto di un tempo che non può passare soltanto. Berlino è un’ossessione e un legame per la vita. Se volete capire questa città, leggete il libro di Helga Schneider.
(di Claudia Ciardi)


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Helga Schneider è nata in Slesia ed è cresciuta in Germania e in Austria. Sopravvissuta alla battaglia di Berlino, drammatica esperienza di cui fu testimone diretta all’età di otto anni, è un’infaticabile narratrice dei crimini del nazismo e degli orrori della guerra. Dal 1963 vive a Bologna, portando avanti il suo lavoro di narratrice, per il quale ha scelto la lingua italiana, oltre a dedicarsi all’attività didattica rivolta soprattutto alla sensibilizzazione dei giovani su questi temi.

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