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15 novembre 2012

Eine Fliege stirbt: Weltkrieg – Una mosca muore: guerra mondiale


Se qualcuno mi chiedesse qual è il catalogo dell’anno, non avrei dubbi: Musil en Bersntol. La grande esperienza della guerra in Valle dei Mòcheni, Bersntoler Kulturinstitut, Palai en Bersntol, Palù del Fersina, 2012.
(Musil en Bersntol. Das große Erlebnis des Krieges im Fersental)
Testo di commento bilingue (italiano-tedesco), chiara e dettagliata ricostruzione della biografia di Robert Musil nel periodo trascorso sul fronte austriaco del Trentino Alto-Adige tra il 1915-’17, presentazione di documenti e materiale fotografico, in parte inedito, in una cornice grafica di efficace eleganza.


Progetto/ Projekt:
Claudia Marchesoni

Testi di/ Texten von:
Alessandro Fontanari
Massimo Libardi

Abstracts:
pp. 44-45; 90-91

La conca, questo regno chiuso

Der Kessel, dieses abgeschlossene Reich

La descrizione fatta da Musil della Valle del Fersina risponde a un fine eminentemente letterario: dare al lettore quel profondo senso di stupore che colse lo scrittore durante la sua permanenza a Palù. Un vero e proprio senso di straniamento e di lontananza dal suo mondo, di distacco dalla civiltà e dallo spirito europeo. Al fine di creare l’immagine di un regno chiuso, lontano dal tempo, usa una serie di aggettivi che rimandano a mondi arcaici ed esotici: gli zoccoli intagliato delle donne di Palù somigliano a “piroghe” (Grigia 16); portano «calze blu e marrone come le giapponesi» (Grigia 16); «si sedevano […] in mezzo al sentiero tirando su le ginocchia come i negri» (Grigia 16). Una strana montanara ha “il cranio di un’azteca” (Grigia 44) e il villaggio sembra “un villaggio palafitticolo preistorico” (Grigia 12) mentre i suoi abitanti non sono nemmeno “buoni cristiani” (Grigia 14) e il suo sguardo è “tardivo”, “aveva percorso tutti i tempi” (Grigia 16).

[…]

Solo se si tiene conto del contrasto tra il mondo della Valle, attaccata alle sue tradizioni e circondata da una natura spesso ostile, e quello rutilante di Berlino, la più grande metropoli del mondo tedesco, dove si trova quando scoppia la guerra, si può comprendere la forte impressione che il ‘regno chiuso’ della Valle esercita su di lui.
Prima della guerra il paesaggio naturale conosciuto da Musil era soprattutto il mare, che ritornerà come uno dei luoghi dell’Altro Stato nella storia con la moglie del maggiore, e nel frammento “Il viaggio in paradiso” (USQ 1144). I richiami alla natura e all’alta montagna hanno quasi tutti origine dall’esperienza militare e in particolare nel periodo trascorso in alta Valsugana. Mare e montagna verranno a rappresentare nella geografia immaginale dello scrittore i luoghi dell’esperienza dell’Altro Stato : «Il mare in estate e l’alta montagna in autunno sono le grandi prove dell’anima» (USQ 1147), scriverà più tardi nell’Uomo senza qualità. Vi è infatti uno stretto rapporto tra il paesaggio e l’esperienza interiore: in Musil il paesaggio rappresenta una prova, una messa in gioco, un aspetto estremo.
Musils Beschreibung des Fersentals hat ein besonderes literarisches Ziel: Sie soll dem Leser jenes Gefühl des Staunens vermitteln, das der Schriftesteller während seines Aufenthaltes in Palai empfand. Ein wahres Gefühl der Verfremdung und Entfernung von seiner Welt, eine Löslösung von der Zivilisation und dem europäichen Geist. Um das Abbild eines “abgeschlossenen Reiches” zu scahffen, fernab der Zeit, benutzt Musil eine Reihe von Adjektieven, die auf archaische und exotische Welten verweisen: Die geschnitzten Holzschule der Palaier Frauen erinnern an “Einbäume” (Gesammelte Werke, VI 239); sie gingen in «blauen und brauen Strümpfen […] wie die Japanerinnen» (Gesammelte Werke, VI 239); «Wenn sie warten mussten, setzten sie sich nicht auf den Wegrand, sondern auf die Erde des Pfads und zogen die Knie hoch wie die Neger» (Gesammelte Werke, VI 239). Eine seltsame Bergbäuerin hatte, «einen Schädel wie eine Aztekin» (Gesammelte Werke, VI 250) und das Dorf erscheint ihm wie “ein vorweltliches Pfahldorf” (Gesammelte Werke, VI 236), während dessen Anwohner “keine guten Christen” sind (Gesammelte Werke, VI 237) und ihr “verspätet[er] Blick” “durch all die Zeiten gewandert” ist (Gesammelte Werke, VI 238 ).

[…]

Nur wenn man den Kontrast zwischen der Welt im Tal, die an ihren Traditionen festhält und von einer oft feindseligen Natur umgeben ist, und dem Glanz von Berlin bedenkt, der größten Stadt im deutschsprachigen Raum, wo Musil sich vor Kriegsausbruch befindet, kann man den starken Eindruck verstehen, den das “abgeschlossene Reich” des Tals auf ihn ausübt.
Vor dem Krieg war die Musil am ehesten vertraute Naturlandschaft das Meer, das als einer der Orte des “anderen Zustands” in der Geschichte mit der Frau des Majors und in dem Fragment “Die Reise ins Paradies” (Gesammelte Werke, V 1651) wiederzufinden ist. Die Reize der Natur und des Hochgebirges sind fast alle auf Musils Militärzeit zurückzuführen und insobesondere auf den Aufenthalt in der hohen Valsugana. Meer und Berg werden in der imaginären Geographie des Schriftestellers zu Orten des “andern Zustand”. «Das Meer im Sommer und das Hochgebirge im Herbst sind die zwei schweren Prüfungen der Seele» (Gesammelte Werke, V 1655), schrieb er später im Mann ohne Eigenschaften. Es besteht tatsächlich ein enger Zusammenhang zwischen der Landschaft und dem inneren Erlebnis: für Musil stellt die Landschaft eine Probe, ein Wagnis, etwas Extremes dar.

Eine Fliege stirbt: Weltkrieg Una mosca muore: “guerra mondiale” 
La mosca caduta dalla carta moschicida che muore sola e nell’indifferenza, è una cruda e forte immagine della morte dell’uomo in guerra – una morte abituale e insignificante, un numero statistico – quella guerra di trincea e di massacri che Musil stesso sperimenterà sul fronte dell’Isonzo nel novembre 1915.
Nel passo dei Diari compare un legame esplicito: «Una mosca muore: guerra mondiale» (Grigia 53). Un identico schizzo narrativo si trova nelle pagine del diario romano del 1913 con il titolo La carta moschicida Tanglefoot. Dopo Grigia sarà ripreso in Pagine postume pubblicate in vita: in quest’ultima versione, elaborata dopo la guerra, le mosche morenti sembrano uomini feriti e caduti che cercano invano di rialzarsi e che si trascinano in agonia su di un campo di battaglia.
La mosca che muore dopo essere stata catturata dalla carta moschicida è anche l’uomo medio imprigionato dalla civiltà europea come un pezzo intercambiabile di un meccanismo che lo sovrasta e di cui è vittima inconsapevole. Nell’Uomo senza qualità, riflette su come gli uomini si ritrovino nella maturità imprigionati in un ruolo e in un’esistenza ben diversi da ciò che avevano immaginato in gioventù, «quando la vita si stendeva loro dinanzi come un mattino senza fine, colmo di possibilità e di nulla» (USQ 124). E riprende l’immagine della mosca nella carta moschicida: «qualcosa ha agito nei loro confronti come la carta moschicida nei confronti d’una mosca; qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché sono sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale» (USQ 124).
Infine la mosca che muore con un gesto così umano di vittima sacrificale, «quando la morte sopravvenne, la morente giunse le sue sei zampette strettamente e le tenne così, in alto» (Grigia 26-27), può alludere alla stessa prossima morte di Homo, una morte solitaria, nel silenzio e nell’abbandono.
La domanda che Homo mormora piano tra sé, prima di gettare la mosca morta in faccia al maggiore – «uccidere, e pur sempre avvertire Dio; avvertire Dio e tuttavia uccidere?» (Grigia 27) – è la constatazione della radicale contraddittorietà dei valori su cui si fonda la civiltà europea che chiede all’individuo di credere in Dio e contemporaneamente, nella guerra, di uccidere. Inoltre è ancora un riferimento a ciò che può emergere in una situazione eccezionale come la guerra: lo stesso uomo può diventare sia una bestia, sia un eroe.
Die von dem Fliegenpapier herunter gefallene Fliege, die einsam in der allgemeinen Gleichgültigkeit stirbt, ist ein grausames und starkes Abbild des Todes eines Mannes im Krieg – ein gewohnheitsmäßiger und unbedeutender Tod, eine Zahl in der Statistik – in diesem Krieg voll Schützengräben und Massakern, den Musil selbst an der Isonzo-Front im November 1915 erlebt.
Ein ähnlicher Erzählungsentwurf findet sich in seinem römischen Tagebuch aus dem Jahre 1913 mit dem Titel Das Fliegenpapier Tanglefoot.
Nach Grigia wird der Vorfall nochmals im Nachlass zu Lebzeiten aufgegriffen: in dieser lette, nach dem Krieg ausgearbeiteten Version, erinnern die sterbenden Fliegen an verwundete und gefallene Männer, die verzweifelt versuchen sich aufzurichten und die sich in Agonie auf einem Schlachtfeld daher schleppen.
Die auf einem Fliegenpapier sterbende Fliege ist auch ein Abbild des Durchschnittsmenschen, der von der europäischen Zivilisation gefangen ist wie ein austauschbares Teil eines Mechanismus, der ihn beherrscht und dessen unbewusstes Opfer er ist. Im Mann ohne Eigenschaften denkt Musil über Männer nach, die in ihrer Reife in einer Rolle und in einer Existenz gefangen sind, die deutlich abweichen von denen, die sie sich in ihrer Jugend vorgestellt hatten als «das Leben noch wie ein unerschöpflicher Morgen von ihnen, nach allen Seiten voll von Möglichkeit und Nichts» (Gesammelte Werke, I 131). Wiederum greift er das Bild der auf dem Fliegenpapier sterbenden Fliege auf: «Es ist etwas mit ihnen umgegangen wie ein Fliegpapier mit einer Fliege; es hat sie da an einem Härchen, dort in ihrer Bewegung festgehalten und hat sie allmählich eingewickelt, bis sie in einem dicken Überzug begraben liegen, der ihrer ursprünglischen Form nur ganz enfernt entspricht». (Gesammelte Werke, I 131).
Schließlich könnte die Fliege, die mit einer so menschlichen Geste wie ein Opfer stirbt («Als aber der Tod kam, faltete die Sterbende ihre sechs Beinchen ganz spitz zusammen und hielt sie so in die Höhe», Gesammelte Werke, VI 245), eine Anspielung auf Homos zigene bevorstehenden Tod sein, einem einsamen Tod, in Stille und Verlassenheit. Die Frage, die sich Homo leise stellt, bevor er die tote Fliege dem Major ins Gesicht wirft – «Töten, und auch Gott spüren; Gott spüren, und doch töten?» (Gesammelte Werke, VI 245) – ist eine Feststellung der radikalen Widersprüchlichkeit der Werte, auf denen die europäische Zivilisation basiert und die von dem Individuum verlangt, an Gott zu glauben und gleichzeitig im Krieg zu töten: Darüber hinaus ist sie auch ein Verweis auf das, was in einer Ausnahmesituation wie dem Krieg zum Vorschein kommen kann: Der Mensch selbst kann sowohl eine Bestie als auch ein Held werden.

Martha Heimann

 Grazie all’istituto dei Mòcheni, nella persona di Leo Toller
«Sulla storia militare, economica e diplomatica del periodo [la prima guerra mondiale] disponiamo di intere biblioteche; minore attenzione è stata riservata, invece, ai modi in cui gli europei cercarono di comprendere e quindi di superare la catastrofe prodotta dalla guerra. I tanti luoghi della memoria  e del lutto, sia pubblici sia privati, creati sulla scia del conflitto, non sono mai stati oggetto di un’analisi comparata. Ed è proprio a questi aspetti che vogliamo rivolgere la nostra attenzione. La memoria fa parte integrante del paesaggio».

Jay Winter

Robert Musil, DAS FLIEGENPAPIER

Das Fliegenpapier Tangle-foot ist ungefähr sechsunddreißig Zentimeter lang und einundzwanzig Zentimeter breit; es ist mit einem gelben, vergifteten Leim bestrichen und kommt aus Kanada. Wenn sich eine Fliege darauf niederläßt - nicht besonders gierig, mehr aus Konvention, weil schon so viele andere da sind - klebt sie zuerst nur mit den äußersten, umgebogenen Gliedern aller ihrer Beinchen fest. Eine ganz leise, befremdliche Empfindung, wie wenn wir im Dunkel gingen und mit nackten Sohlen auf etwas träten, das noch nichts ist als ein weicher, warmer, unübersichtlicher Widerstand und schon etwas, in das allmählich das grauenhaft Menschliche hineinflutet, das Erkanntwerden als eine Hand, die da irgendwie liegt und uns mit fünf immer deutlicher werdenden Fingern festhält. Dann stehen sie alle forciert aufrecht, wie Tabiker, die sich nichts anmerken lassen wollen, oder wie klapprige alte Militärs (und ein wenig o-beinig, wie wenn man auf einem scharfen Grat steht). Sie geben sich Haltung und sammeln Kraft und Überlegung. Nach wenigen Sekunden sind sie entschlossen und beginnen, was sie vermögen, zu schwirren und sich abzuheben. Sie führen diese wütende Handlung so lange durch, bis die Erschöpfung sie zum Einhalten zwingt.
Es folgt eine Atempause und ein neuer Versuch. Aber die Intervalle werden immer länger. Sie stehen da, und ich fühle, wie ratlos sie sind. Von unten steigen verwirrende Dünste auf. Wie ein kleiner Hammer tastet ihre Zunge heraus. Ihr Kopf ist braun und haarig, wie aus einer Kokosnuß gemacht; wie menschenähnliche Negeridole. Sie biegen sich vor und zurück auf ihren festgeschlungenen Beinchen, beugen sich in den Knien und stemmen sich empor, wie Menschen es machen, die auf alle Weise versuchen, eine zu schwere Last zu bewegen; tragischer als Arbeiter es tun, wahrer im sportlichen Ausdruck der äußersten Anstrengung als Laokoon. Und dann kommt der immer gleich seltsame Augenblick, wo das Bedürfnis einer gegenwärtigen Sekunde über alle mächtigen Dauergefühle des Daseins siegt. Es ist der Augenblick, wo ein Kletterer wegen des Schmerzes in den Fingern freiwillig den Griff der Hand öffnet, wo ein Verirrter im Schnee sich hinlegt wie ein Kind, wo ein Verfolgter mit brennenden Flanken stehen bleibt. Sie halten sich nicht mehr mit aller Kraft ab von unten, sie sinken ein wenig ein und sind in diesem Augenblick ganz menschlich. Sofort werden sie an einer neuen Stelle gefaßt, höher oben am Bein oder hinten am Leib oder am Ende eines Flügels.
Wenn sie die seelische Erschöpfung überwunden haben und nach einer kleinen Welle den Kampf um ihr Leben wieder aufnehmen, sind sie bereits in einer ungünstigen Lage fixiert, und ihre Bewegungen werden unnatürlich. Dann liegen sie mit gestreckten Hinterbeinen auf den Ellbogen gestemmt und suchen sich zu heben. Oder sie sitzen auf der Erde, aufgebäumt, mit ausgestreckten Armen, wie Frauen, die vergeblich ihre Hände aus den Fäusten eines Mannes winden wollen. Oder sie liegen auf dem Bauch, mit Kopf und Armen voraus, wie im Lauf gefallen, und halten nur noch das Gesicht hoch. Immer aber ist der Feind bloß passiv und gewinnt bloß von ihren verzweifelten, verwirrten Augenblicken. Ein Nichts, ein Es zieht sie hinein. So langsam, daß man dem kaum zu folgen vermag, und meist mit einer jähen Beschleunigung am Ende, wenn der letzte innere Zusammenbruch über sie kommt. Sie lassen sich dann plötzlich fallen, nach vorne aufs Gesicht, über die Beine weg; oder seitlich, alle Beine von sich gestreckt; oft auch auf die Seite, mit den Beinen rückwärts rudernd. So liegen sie da. Wie gestürzte Aeroplane, die mit einem Flügel in die Luft ragen. Oder wie krepierte Pferde. Oder mit unendlichen Gebärden der Verzweiflung. Oder wie Schläfer. Noch am nächsten Tag wacht manchmal eine auf, tastet eine Weile mit einem Bein oder schwirrt mit dem Flügel. Manchmal geht solch eine Bewegung über das ganze Feld, dann sinken sie alle noch ein wenig tiefer in ihren Tod. Und nur an der Seite des Leibs, in der Gegend des Beinansatzes, haben sie irgend ein ganz kleines, flimmerndes Organ, das lebt noch lange. Es geht auf und zu, man kann es ohne Vergrößerungsglas nicht bezeichnen, es sieht wie ein winziges Menschenauge aus, das sich unaufhörlich öffnet und schließt.

La carta moschicida

La carta moschicida Tangle-foot è lunga all’incirca trentasei centimetri e larga ventuno; è spalmata di una materia viscosa tossica e gialla, e proviene dal Canada. Se una mosca vi si posa — non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre— resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette. Sensazione lieve, inquietante, come quella che si proverebbe camminando nel buio a piedi nudi, e inciampando all’improvviso in qualcosa che altro non è ancora se non una resistenza indefinibile, morbida e calda, in cui fluisca già a poco a poco l’orrore di essere umana, di rivelarsi una mano messa lì chi sa come per artigliarci con le sue cinque dita sempre più percepibili.
Poi le mosche si tendono tutte in uno sforzo massimo, come tabetici che vogliono nascondere il loro male o come vecchi militari tentennanti (le gambe un po’ arcuate, come quando si sta su una cresta aguzza ). Si danno un contegno, chiamano a raccolta facoltà ed energie. Di lì a pochi secondi la risoluzione è presa, e incominciano come possono a districarsi frullando le ali. Questa frenetica manovra continua sinché lo sfinimento le costringe a interrompersi. Segue una breve pausa e poi un nuovo tentativo. Ma gli intervalli si fanno sempre più lunghi. Stanno lì, e io sento il loro smarrimento. Dal basso salgono vapori che vanno alla testa. Allungano la lingua tastando tutt’intorno come un piccolo martello. Hanno il capo peloso e bruno, quasi ricavato da una noce di cocco: sembrano idoli negri in forma umana. Si piegano avanti e indietro sulle zampette invischiate, puntando le giunture e si irrigidiscono come chi tenta di smuovere ad ogni costo un carico troppo pesante: più tragiche degli operai nella loro fatica, più vere di Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo. E poi viene il momento, sempre ugualmente strano, in cui l’esigenza immediata di un attimo trionfa di tutti i potenti istinti di conservazione. E’ l’istante in cui lo scalatore lascia volontariamente l’appiglio perché gli dolgono le dita, l’uomo sperduto nella neve vi si abbandona come un bambino, il fuggiasco braccato si ferma con i lombi in fuoco. Le mosche non hanno più la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane. Subito sono afferrate in un altro punto; più in alto sulla zampa, o dietro, sull’addome, o alla estremità di un ala.
Quando hanno superato l’esaurimento psichico e, dopo una breve tregua, riprendono la lotta per la vita, sono già in una posizione sfavorevole e i loro movimenti diventano sempre meno naturali. Allora irrigidiscono le zampe posteriori e appoggiandosi sui gomiti cercano di alzarsi. Oppure stanno riverse a terra, inarcando le braccia, come donne che invano si sforzano di strapparsi dalla presa di un uomo. Altre ancora giacciono sul ventre, teste e braccia protese, come cadute in piena corsa, soltanto la faccia è ancora levata. Ma il nemico resta sempre passivo e sfrutta semplicemente i loro attimi di smarrimento, di disperazione. E “quello”, è un nulla che le inghiotte. Così lentamente da essere appena percettibile, e per lo più con una improvvisa accelerazione verso la fine, quando sopraggiunge l’estremo tracollo interno. Allora si lasciano cadere bruscamente in avanti, sulla faccia, sulle zampe; o di fianco, con le membra annaspanti all’indietro. Così restano a giacere. Come aeroplani abbattuti, con un’ala protesa nell’aria. O come carogne di cavalli. O negli infiniti atteggiamenti della disperazione. O come dormienti. Ancora, l’indomani, accade che una si svegli, agiti una zampa, o batta un’ala. Qualche volta uno di questi movimenti si propaga per l’intero campo, poi affondano tutte un poco più giù nella loro morte. E solo da un lato del corpo, presso l’attaccatura della zampa, palpita un organo piccolissimo che vive ancora a lungo. Batte con regolarità – non lo si può vedere senza lente d’ingrandimento – simile a un minuscolo occhio umano che indefessamente si apre e si chiude.
Robert Musil, Pagine postume pubblicate in vita, Torino, Einaudi, 1970, trad. Anita Rho

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