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31 ottobre 2013

Woher und wohin – Ebraismo e Wanderung


Bruno Schulz, acquaforte - Chasidi
Woher und wohin
zieht sich mein Weg
so schwer und so träg
ohn’ Ende und Beginn?

Da dove e verso dove
si dirige il mio cammino,
così greve e così lento,
senza fine né inizio?

Simeon Samuel Frug (1860-1916), poeta russo e yiddish, in Claudio Magris, Lontano da dove, Einaudi, 1971, cit., p. 48


Claudia Sonino ©

Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est.
Con testi di Heine, Lessing, Zweig, Döblin, Roth,
Mondadori, 1998


Il processo di emancipazione degli ebrei in Germania giunge a una battuta di arresto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nel sostanziale peggioramento del quadro politico internazionale. L’integrazione dell’ebreo nella società tedesca era andata avanti tra non poche difficoltà, oggetto di sentimenti ambivalenti e contraddittori. Assimilarsi aveva significato divenire borghesi, recidendo e tradendo per buona parte quel patrimonio culturale originario che faceva dell’ebreo un soggetto assolutamente peculiare all’interno delle nazioni europee. Come il poeta ebreo-tedesco Heinrich Heine aveva rilevato con largo anticipo, l’ebraismo non poteva trovare rappresentazione attraverso le categorie della religione e della filosofia; si trattava piuttosto di un modo di essere. Il viaggio di Heine nella Polonia prussiana determinò l’antefatto culturale che un secolo dopo verrà ripreso dai principali esponenti dell’intellighenzia ebraica in Germania, per esprimere il disagio e la crisi di identità che allora laceravano la coscienza dell’ebreo-tedesco. La diversa percezione dell’ebreo orientale messa in evidenza da Heine nel suo resoconto, non potrà che costituire un termine di paragone imprescindibile per tutti coloro che, alle soglie del Novecento, cominceranno a rivolgere a se stessi domande sempre più pressanti circa il proprio ruolo di intellettuali ed ebrei all’interno della società tedesca. All’immagine ‘differente’ dell’ebreo e al rinnovarsi di una riflessione sviluppata entro i poli della sua duplice esistenza, da un lato fatta di integrazione e dell’altro di attaccamento, più o meno consapevole, alla propria specificità, concorrevano in quel momento tre fattori: l’antisemitismo politico di massa, i crescenti nazionalismi e la nascita del sionismo.
Germania e Austria si erano improvvisamente trovate a fare i conti con un processo di industrializzazione che dalla metà dell’Ottocento avanzava a ritmi vertiginosi. La naturale conseguenza fu la crescita del divario sociale con sacche di povertà sempre più estese. La destabilizzazione che investì queste collettività organizzate su basi contadine non va sottovalutata se si vogliono capire molti dei fatti accaduti nel primo trentennio del XX secolo. Alla fine dell’Ottocento la borghesia ebraica era andata progressivamente concentrandosi nelle grandi città: su mezzo milione di ebrei in Germania, centomila vivevano a Berlino. La capitale, che sempre più rapidamente evolveva a metropoli, in quegli stessi anni di grandi cambiamenti e cantieri dello spazio e dello spirito, accoglieva nutrite masse di diseredati, ingrossate per buona parte dalla consistente immigrazione degli ebrei orientali. Questi Luftmenschen, senza patria e senza dio, già da prima della Grande Guerra e ancor più durante, furono i protagonisti di un esodo da est a ovest di consistenti proporzioni, così da costituire per gli stati di accoglienza un problema politico e culturale di estrema complessità. Analizzando le condizioni in cui versavano i berlinesi nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, vale la pena ricordare che il settanta per cento dei residenti viveva concentrata nei quartieri settentrionali, orientali e periferici della capitale, occupando talora fatiscenti baraccopoli cresciute spontaneamente alle porte della città, vicino alle stazioni, o trovando riparo all’interno di vagoni ferroviari in disuso e rimesse. Si trattava di disoccupati, di inquilini colpiti da provvedimenti di sfratto o costretti ad abbandonare la propria abitazione perché incapaci di far fronte all’aumento quasi semestrale dei canoni. Tutt’altro che rari gli scontri tra i senzatetto e le forze dell’ordine (uno dei più duri fu quello del 26 agosto 1872 quando la polizia caricò per far sgomberare la zona occupata del Landsberger Tor). In questo divario che vedeva Berlino al centro di numerose turbolenze va riconosciuta la premessa della ribellione generazionale, propugnata con forza dall’avanguardia espressionista, e delle grandi manifestazioni popolari che colpiranno al cuore l’assetto politico e amministrativo della città, determinando la storia del Novecento.
Dunque, l’ondata di profughi ebrei orientali si riversò nelle città della Germania in una situazione economica interna affatto agiata, e ciò avvenne contemporaneamente all’aggravarsi della questione ebraica sia in Russia, dove le violenze dei pogrom furono anzi una delle cause principali dell’incremento dell’esodo, sia in Francia. Qui, l’affaire Dreyfus (1894) è emblematico di questo clima storico-culturale. Vicenda scoppiata nella Terza repubblica, finì per avere implicazioni assai profonde nella storia politica e giudiziaria della Francia, andando ben oltre quell’ambiguo intreccio di antisemitismo e spionaggio nei quali il caso si manifestò. Mise cioè in risalto le contraddizioni di una società che, pur avendo operato il consolidamento delle proprie istituzioni, alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, da una posizione laica e moderata, ne aveva poi disperso il beneficio democratico e progressista, portata fuori strada dalle dinamiche di gestione del potere e da un patriottismo venato di icone nazionalistiche.
Fu questo il terreno in cui l'antisemitismo riprese vigore in Germania, sostenuto da un ampio consenso popolare e intellettuale sia perché in grado di «favorire la costruzione di un’identità nazionale ancora estremamente fragile» sia perché ci si poteva servire degli ebrei come «capro espiatorio contro il quale stornare il malessere sociale generato da uno sviluppo industriale ed economico che scuoteva in profondità l’ordine tradizionale».
In un simile contesto, la scelta di alcuni tra i maggiori intellettuali ebrei-tedeschi di ‘tornare a oriente’, di visitare i luoghi delle proprie origini come nel caso di Joseph Roth, nativo della Galizia, e di Alfred Döblin, in cerca di una risposta alla perdita di riferimenti nella vita del padre, ebreo orientale emigrato in Germania, il viaggio a est di queste personalità implica la riscoperta dell’ebraismo come dimensione metastorica, da opporre alla distruzione della guerra, “madre di tutte le catastrofi”, al trauma subito dai popoli europei e al lutto collettivo che ne seguì. 
Sollecitati dagli eventi, accomunati dal rifiuto del carattere autoritario e militarista del Reich, che a partire dal 1914 aveva fatto mostra della violenza insita nello statalismo, gli scrittori ebrei-tedeschi si misero in cammino alla ricerca di un Heim ideale, scoprendo così un patrimonio perduto di narrazioni e mentalità, che al di là dello specifico ebraico e tedesco ha contribuito a sollevare alcune tra le principali questioni in cui si è dibattuto l’uomo contemporaneo.

(Di Claudia Ciardi)


Bruno Schulz, acquaforte - Refraktor

«Nel suo duro isolamento, il carattere dell’ebreo in Polonia divenne un tutto unitario; respirando l’aria della tolleranza, questo carattere ebbe il suggello della libertà. L’uomo interiore non diventò un miscuglio di sentimenti eterogenei e non intristì nella costrizione dei muri della Judengasse a Francoforte, grazie alle sapientissime ordinanze municipali e alle amorevoli limitazioni legali. Con la sua sporca pelliccia, con la sua popolatissima barba, l’odore d’aglio e con tutto il suo gergo, l’ebreo polacco mi è ancor sempre più caro di taluni in tutta la magnificenza dei loro titoli di stato».

Heinrich Heine, Sulla Polonia [Über Polen], 1822

«Difficilmente un altro popolo che vivesse la vita in catene subita da parecchi ebrei orientali non sarebbe andato eticamente i rovina. Gli ebrei orientali hanno retto all’ultima prova, che negli scritti rabbinici suona così: l’emergenza dell’abbrutimento. […] Se come ebrei possiamo attribuirci una superiorità del sangue, questa mi sembra essere nel fatto che la nostra sorte ci ha insegnato l’interiorità e la modestia. Uomini più contenti, più fortunati che crescono nella propria terra, possono inclinare alla supponenza e all’autodivinizzazione. Noi, però, di questa supponenza, che induce a ritenere la propria etnia il sale della terra, abbiamo sofferto così terribilmente che dovremmo essere garantiti dal cadere in questo genere di autoadulazione».

Theodor Lessing, La Galizia: una difesa [Galizien. Zur Abwehr] in «Allgemeine Zeitung des Judentums», Berlin, 18 febbraio 1910

«Eppure, la Galizia, il grande campo di battaglia della Grande Guerra, non è stata ancora riabilitata. Neanche agli occhi di coloro che nei campi di battaglia vedono i campi dell’onore. Benché i corpi di tanti  europei occidentali si siano sfaldati in terra galiziana e l’abbiano concimata. Benché dalle ossa in putrefazione dei soldati del Tirolo, della Bassa Austria, del Reich germanico fiorisca il granoturco di questo Paese. […] Queste immagini di santi tra le spighe dei vasti campi, ai margini dei prati, nelle radure dei boschi sono state nella Grande Guerra distrutte, sforacchiate, storpiate e riedificate, ridipinte, di nuovo provviste di iscrizioni, là dove lo spirito di sacrificio dei contadini era grande quanto era profonda la loro pietà. Non è così dappertutto. In un piccolo villaggio della Galizia orientale c’è ancora quel Cristo diventato celebre, la cui croce fu mandata in frantumi da un proiettile sarcastico, così che non rimase un Salvatore di pietra con i piedi sanguinanti inchiodati al mozzicone della croce e le braccia spalancate nella disperazione di non capire il silenzio di Dio e di tutto quello sparacchiare del mondo; un Salvatore crocifisso senza che pendesse dalla croce; l’esito simbolico di un fortuito caso guerresco. A giusta ragione questo miracolo è stato lasciato così. Tutt’intorno, lentamente, le trincee hanno preso a rimarginarsi. […] Colonne e colonne di salmerie son passate per queste strade, pesanti cannoni han lasciato tracce profonde, i cannoni sprofondavano fino alla sella – me lo ricordo, me lo ricordo ancora. Ho percorso una volta queste e altre strade, uomo da soma tra bestie da soma, e il fango immortale ci divorava come ora divora la massicciata. […] Ma sul piatto Paese trascorre incessante un vento perennemente uguale, che quasi non avverti. Colline, avvisaglie dei Carpazi, azzurreggiavano in lontananza. Cerchi di corvi alti sui boschi. Sono sempre stati di casa qui. Dai tempi della guerra si sono infoltiti. Non una fabbrica, un cartello pubblicitario, niente fuliggine. Nei mercanti si vendono primitivi burattini di legno, come in Europa duecento anni fa. Che l’Europa qui sia venuta meno?
No, non è venuta meno. I rapporti tra l’Europa e questo Paese messo per così dire al bando sono continui e vivaci. In certe librerie ho visto le ultime novità letterarie inglesi e francesi. Un vento culturale sparge semi in terra polacca. Il contatto con la Francia è il più intenso. Al di sopra della Germania, che sembra galleggiare in uno spazio morto, è uno sprizzare di scintille nelle due direzioni.
La Galizia è una solitudine sperduta e tuttavia non è isolata; è bandita, non tagliata fuori; ha più cultura di quanta non faccia presumere la sua insufficiente canalizzazione; molto disordine e, ancor più, stranezze. In tanti la conoscono dal tempo della guerra; quando però nascondeva il suo volto. Non era un paese. Era una tappa, o il fronte. Ma ha i suoi propri piaceri, i propri canti, la sua gente e il suo splendore; lo splendore triste dei denigrati».

Joseph Roth, Viaggio in Galizia [Reise nach Galizien] in «Frankfurter Zeitung», 22 novembre 1924


Bruno Schulz, acquaforte - Bestia

See also:

Bruno Schulz, L'epoca geniale,
traduzione di Lorenzo Pompeo, postfazione di Marco Ercolani,
coll. «I quaderni di Via del Vento»
volumetto n°46
pag. 32, ISBN 8887741859
Euro 4,00


Cover, Via del Vento ©
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