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15 gennaio 2014

Racconto di Berlino - Erzählung aus Berlin #1


Gli incontri a Berlino non sono mai privi di significato. Intendo con ciò che un gesto, un volto in cui ci si imbatte per le strade della metropoli hanno un’implicazione quasi metafisica, un tiro di dadi della sorte che si riserva, con opera infaticabile e cinica, di comporre gli eventi nella più esaltante combinazione. È per questo che quando mi capita di tornare in città dopo un certo periodo, la mia attenzione è quasi interamente catturata dalla gente che mi sfila accanto.
Una volta aveva spiovuto da poco, la sera ormai inoltrata. Io scendevo i viali restando un passo dietro a me stessa, inspiravo l’aria frizzante del temporale che strisciava su alberi e case come un insetto ubriaco, e sembrava che in me si facesse largo una bizzarra creatura impastata di pioggia, posseduta da frettolosa voluttà. Nell’aria serpeggiava un bagliore bluastro, molle e indolente, simile a certe confessioni che sole avvengono nei sogni. Le traiettorie di uomini e cose sbocciavano confusamente, creature soggiogate a un ritmo indecifrabile, oscurità di ingranaggi, anonimi ticchettii di ruote dentate e lancette nelle mani di un sapiente orologiaio, il tempo, che esortava a rallentare e ancor più abdicare. 
Ovattati erano anche i pensieri, fluivano madidi affiancati dall’incespicante e fuligginoso corteo di ombre che sempre scorta i passanti lungo le banchine della ferrovia sotterranea. Anche il treno di città sembrava correre su un binario d’acqua, pauroso anfibio con le fauci protese verso il muro dei pendolari. In precedenza avevo interpellato l’inserviente della stazione – ancora adesso mi chiedo se fosse un uomo o una donna – che in una bizzarra tenuta da casellante, brandendo con la sinistra una bandierina per chissà quali segnalazioni, mi aveva indicato il binario con estrema lentezza, masticando insieme alla parola “Gleis” un che di sconcertante. In compagnia di un simile augurio, alla successiva stazione di cambio, il manico della valigia ha deciso di cedere. Non me ne sono stupita poi tanto. Quindi, sospinta dall’inaudita corrente di maschere e viaggiatori sono saltata a bordo dell’ultimo treno per raggiungere casa. 
Ora il vagone dondolava, spoglio e silenzioso, pareva riconsegnarmi a uno spazio liscio e intatto, esistente da qualche parte nei ricordi come l’interno di un vaso di ceramica, ma forse ben più antico e lontano in un’infanzia che fosse perfino oltre la mia, un identico moto di stagioni che sanno l’una dell’altra senza corrispondersi, uno strascico di sentimenti come sponde in un fiume o cantilene materne. Mentre mi abbandonavo a questa e altre riflessioni, più istintive che logiche, non desistevo dal cercare attorno a me una traccia, un indizio che fosse in grado, se non di spiegare la natura di quel percorso, almeno di farmene comprendere la bontà o comunque di vederci un qualcosa di sensato.
Ed è così che nel riflesso turchese dei vetri del treno, nell’atmosfera morbida e assonnata di quell’insospettabile pomeriggio già pieno di sogni notturni, l’ho finalmente trovato. Era il viso scarno di una donna, sfumato e distante come ogni cosa in quell’ora, un viso meravigliosamente incorniciato dalle luci tenui della carrozza, il che contribuiva all’immobilismo della sua espressione, una posa quasi ieratica che dissuadeva dal soffermarsi sulla natura dei singoli lineamenti. Guardava dritto, senza interessarsi a niente, ma per un attimo – un istante, tanto è durato – ho creduto che fissasse nella mia direzione e che mi avesse riconosciuta. Sì, proprio così, riconosciuta. Come due persone che s’incontrano per strada dopo anni e, prima di proseguire, frastornati fino alla diffidenza, si scambiano un saluto, non più di un cenno in cui sono racchiuse le loro vite, incapaci di parlarsi.
Questa donna, o meglio, questo volto, mi richiamava così singolarmente a sé ma io sapevo che non poteva esserci stata nessuna conoscenza precedente. Vengo da troppo lontano, mi ripetevo, ho pochi amici qui e quei pochi mi appartengono, non può essere che tu li abbia anche per te, che tu sappia… semplicemente non può essere.
Poi il treno è scivolato in galleria. Quando siamo tornati alla luce, nel lampo azzurro e  grifagno che ci scolorava il presente, la donna – il volto – non c’era più. Impossibile. Non ci siamo fermati, non può essere scesa. Magari mi sono distratta, avrà cambiato posto.
Eppure qualcosa in me suggeriva, quasi con prepotenza, che quella nereide bistrata, la vaga indovina di quel giorno, era scomparsa. Sapevo anche che da quell’incontro il mio ritorno aveva avuto la sua benedizione. Tutto quanto non era successo in lunghi mesi, si era rivelato nel breve spazio di un viaggio in treno. Adesso potevo finalmente far pace con la via di casa.

(Foto e testi di Claudia Ciardi ©)


Schöneberg

Am Wannsee

Gesundbrunnen - Hochstraße

Gesundbrunnen - Swinemünder Brücke

Licheni nella Fabeckstraße - Flechten in Fabeckstraße

Friedrichstraße Bahnhof 2:00 a.m.

Schöneberg - Hauptstraße

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