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28 febbraio 2014

Wunden der Welt - Ferite del mondo



Ultimi giorni per visitare la mostra ospitata dalla Biblioteca S. Giorgio di Pistoia, Wunden der Welt – Ferite del mondo, nella quale sono presenti alcuni degli scatti che letteralmente hanno scritto la storia del fotoreportage dalle zone di guerra.
L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta. È uno scenario lunare quello che trafigge gli occhi dell’osservatore, ovunque, che sia la Germania del ’46 o la Cecenia dei primi anni del duemila; l’impressione davanti a queste immagini è di affondare letteralmente i piedi in un mare di macerie fisiche e emotive. Una collezione di foto d’autore, com’è in questo caso – tuttavia il discorso vale per qualsiasi supporto visivo – è strumento imprescindibile, insieme alla testimonianza scritta, se si è in cerca di comprendere qualcosa oltre la teoria sullo scenario geo-politico più recente. Kryn Taconis, membro della Untergrundkamera, gruppo clandestino che documentava l’occupazione tedesca in Olanda, Werner Bischof, svizzero di Zurigo, impegnato nel racconto della devastazione prodotta dalla seconda guerra mondiale in Europa, Philip Jones Griffiths, secondo Henri Cartier-Bresson il più grande nel rappresentare la guerra dopo Goya, i cui scatti dal Vietnam accesero l’opinione pubblica statunitense, Josef Koudelka, indimenticato narratore della Primavera di Praga, Steve McCurry, il ritrattista della giovane Sharbat, la ragazza afgana incontrata nel rifugio antiaereo di Nasir Bagh (Pakistan 1985), divenuta simbolo di un mondo millenario devastato, che pur in mezzo al male è in grado di mostrarsi fiero, di guardare con forza e intensità chi gli sta di fronte. Sono solo alcuni dei nomi raccolti in questa occasione dall'agenzia tedesca Magnum Photos e dalla scuola di giornalismo Zeitenspiegel di Günther Dahl. La loro opera straordinaria compendia e approfondisce i tanti “viaggi tra le rovine” che si sono fatti nel corso del secolo. Se si considerano letture come la Storia naturale della distruzione di Winfried Sebald o l’Autunno tedesco di Stig Dagerman o C’era una volta una guerra di John Steinbeck, anche se differenti tra loro per genere e dunque per la modalità scelta dai singoli autori nel trattare il personaggio della guerra, non faticheremo a trovare un’immediata consonanza, un’affinità tonale tra tali resoconti e quanto è riuscito a catturare e trasmetterci un obiettivo in prima linea.   
Da una guerra all’altra, cambiano i luoghi e le persone ma la miseria umana si ripete e la riflessione che ne scaturisce è sempre la stessa: di fronte alla violenza, nessun argine tiene. Gli uomini che si aggirano in queste prese ci inchiodano senza scampo alle contraddizioni del Novecento, secolo del progresso scientifico, delle grandi ratifiche in materia di diritti e ambiente, e al contempo fabbrica di sconvolgenti catastrofi.

(Testo di Claudia Ciardi)




Biblioteca S. Giorgio (01.02. – 02.03.2014)


«..Nein, nicht Wunder der Welt, sondern Wunden der Welt lautet der Titel der Ausstellung...» [ Neue O.Z.].
Dalla collaborazione di Magnum Photos e la scuola di giornalismo Zeitenspiegel di Guenther Dahl nasce l'idea di una mostra fotografica che ha per tema immagini dal mondo di luoghi teatro di guerre e catastrofi. Il titolo della mostra usa l'assonanza tra i vocaboli tedeschi: Wunde (Wunden è il plurale), ferita e Wunder, meraviglia, per enfatizzarne il significato.
Organizzatori dell'evento Andrea Holzherr, nata a Tubinga che vive e lavora a Parigi, in collaborazione con il Dr. Ulrich Bausch direttore della Volkshochschule di Reutlingen. L 'allestimento della mostra negli spazi della Biblioteca è a cura del Dr. Thomas Becker direttore artistico della Volkshochschule di Reutlingen.

Unabhängig wollten sie sein, nur der Wahrheit verpflichtet: 1947 gründeten Robert Capa, George Rodger, David Seymour und Henri Cartier-Bresson die Agentur MAGNUM PHOTOS. Bis heute steht dieser Name für das Streben, die Wirklichkeit mit der Kamera zu erfassen und zu verstehen. Die Agentur hat den modernen, unabhängigen Fotojournalismus begründet. Im Zentrum ihrer Arbeit steht bis heute die Berichterstattung über schwere Konflikte.

Ob in Vietnam, Ruanda oder Irak, ob in Beirut, Sarajewo oder Kairo: Magnum-Fotografen waren und sind Augenzeugen der Umbrüche, der Wunden der Welt, wie Henri Cartier-Bresson es ausdrückte. Viele Fotos der Agentur haben sich ins kollektive Gedächtnis der Menschheit eingegraben.

Jetzt gewährt MAGNUM PHOTOS zum ersten Mal einen Blick hinter die Kulissen: Die Wanderausstellung Wunden der Welt zeigt 53 der wichtigsten MAGNUM-Arbeiten aus sechs Jahrzehnten Kriegs- und Krisenfotografie. Begleitende Texte erläutern den Hintergrund der Bilder: Wo und wie sind sie entstanden? Was macht sie so besonders? Welchen Weg haben sie in der Öffentlichkeit genommen? Absolventen der Zeitenspiegel-Reportageschule Günter Dahl haben die Geschichten hinter den Bildern recherchiert und aufgeschrieben.



«I boschi sono i primi e i più veloci a leccarsi le ferite. Certo, qua e là tra le querce si trova qualche cannone inoperoso, con il tubo spezzato che pieno di vergogna e di rabbia guarda fisso il terreno. Gli involucri di piccole auto bruciate ai piedi dei pendii sembrano enormi barattoli di conserve, come se degli indisciplinati giganti campeggiatori avessero sostato in questi boschi che erano i più pretenziosamente ordinati del mondo. Tuttavia la guerra è passata con riguardo tra gli alberi e i piccoli paesi, che hanno vissuto bombardamenti notturni delle grandi città semplicemente come rosse aurore boreali, con il suolo che tremava e porte e finestre che sbattevano. Qualche singola casa è stata colpita per errore e lì si concentra tutta la tragedia del paese. In un piccolo comune sul Weser è stata la casa di un dentista a essere colpita una mattina di primavera durante le visite, e tutti, il medico, l’infermiera e i trenta pazienti, sono rimasti uccisi. Fuori, nel giardino, un uomo camminava avanti e indietro in attesa che estraessero un dente alla figlia, e nella sala d’aspetto c’erano anche la moglie e la madre dell’uomo, che avevano accompagnato la ragazzina per farle coraggio. L’uomo si è salvato per miracolo ma ha perso l’intera famiglia e ora va in giro da un paio d’anni per il paese come una lapide ambulante in memoria della seconda guerra mondiale – quella in memoria della prima si trova in un boschetto tra la sponda del Weser e la prima casa, ed è tuttora l’orgoglio del paese».

Stig Dagerman, Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario, a cura di Fulvio Ferrari, Lindau, 2007

Titolo originale: Tysk Höst!






Related links:

Offizielle Webseite/ Sito ufficiale - Wunden der Welt

Robert Musil, Narra un soldato/ Ein Soldat erzählt, a cura  di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2012

Appunti sulla teoria della distruzione di Claudia Ciardi - Helios Magazine

In questo blog:
Once there was a war - C'era una volta una guerra, John Steinbeck
«Un libro passato forse senza troppo clamore nelle librerie italiane ma su cui vale la pena riaccendere l'attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l'autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

Los desastres de la guerra
«A compendio delle riflessioni che caratterizzano il centenario della prima guerra mondiale, riproponiamo la recensione che abbiamo dedicato alle acqueforti di Francisco Goya, raccolte sotto il titolo di Los desastres de la guerra, pubblicate in volume da Abscodita nel 2011».

August Sander - Antlitz der Zeit
«A partire dalla metà dell’Ottocento la fotografia acquista un ruolo sempre più importante, aiutando lo studio dell’uomo e delle sue abitudini. L’impiego di questo mezzo infatti, quasi per naturale predisposizione, si accompagna agli sviluppi della nascente antropologia, di cui le Società francese e tedesca erano allora le più autorevoli esponenti, dettando non a caso il metodo per la realizzazione del ritratto scientifico. All’inizio del XX secolo si assiste a un interessante mutamento della figura del fotografo antropologico che va svincolandosi dal suo compito di documentarista e inizia a coltivare in maniera autonoma alcuni aspetti più creativi insiti nel meccanismo di riproduzione delle immagini».


23 febbraio 2014

Konrad Lorenz - In principio fu il canto


Etologo, animalista e ambientalista – e come potrebbero queste cose andar disgiunte – premio Nobel nel 1973 per gli studi sulle componenti innate del comportamento e, in particolare, sull’imprinting nelle oche selvatiche, nacque ad Altenberg, sul Danubio, nel 1903. Il fiume fu mentore e straordinario complice d’osservazione.

Quando Lorenz ci descrive i suoi incontri con gli animali, serba per noi memoria di esseri di cui altrimenti nulla resterebbe, perché è nella loro natura andarsene senza lasciare traccia. Esattamente il contrario di quanto facciamo noi, impegnati in una fanatica rappresentazione di noi stessi, incuranti che questo inutile affannarci lede le più elementari regole su cui dovrebbe fondarsi la convivenza sulla terra.
Lorenz ci esorta dunque a recuperare un legame con la natura che, in seguito all’affermarsi della società industriale, è andato logorandosi fino all’impensabile. Inoltre, le sue indagini sulla ritualizzazione dell’aggressività e l’altruismo animale, hanno messo in dubbio l’opposizione tra cultura e natura, tra uomini e bestie. L’attestazione dell’esistenza di comportamenti altruisti anche fra animali significa infatti che siamo di fronte a una componente dell’evoluzione, che quindi premia la cooperazione.
Quest’anno ricorrono i venticinque anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 febbraio 1989. Vogliamo rendergli qui un breve omaggio.



La scorsa estate, nei pomeriggi in cui andavo a passeggiare lungo le rive dello Schlachtensee, amavo soffermarvi all’estremità del lago. In quel punto si poteva infatti godere di una bella vista del bosco e di maggior pace, perché pochi erano i bagnanti che avevano voglia di spingersi fin laggiù. Arrivarci significava infatti camminare per almeno altri venti minuti dopo il noleggio di barche, e già quella non è una meta tanto a portata di mano. Ma l’idea di lasciarmi alle spalle i clamori della città e poter gustare un paio d’ore di sole leggendo magari un buon libro di poesia, mi sollevava dalla fatica del viaggio.
Tuttavia, la cosa più interessante è accaduta solo quando, passati diversi giorni, avevo ormai familiarizzato con il mio rifugio. A pochi metri da me, il lago si ingolfava in un fitto canneto, dimora di libellule e ombre fantastiche. Ma un altro segreto vi si custodiva, più incantevole ancora. Poco prima del mio arrivo erano nati dei piccoli di anatra selvatica. La prima volta che mi sono goffamente sfilati davanti, intanto che il maschio si ingegnava a tenerli a debita distanza da me, sembravano delle fragili barche di carta che annaspavano sull’acqua, il collo rossiccio e spiumato, le zampette sottili e improvvide sulla corrente, a cui non riuscivano a offrire la necessaria resistenza, così che non era raro sorprenderli mentre rompevano la fila e cominciavano a ruotare su se stessi. Ho poi aspettato di vederli uscire dal canneto in cerca di cibo, scortati dai genitori. Non ho resistito a chiamarli, tentando di riprodurre i timidi mugolii che lanciavano al papà e alla mamma. Così la loro traiettoria è divenuta estremamente più vicina a quella dei miei piedi, comodamente poggiati in acqua su un tronco di betulla sommerso. Finché ho deciso di condividere con loro qualcuno dei miei biscotti. Allora il padre, un maschio piuttosto grande con una specie di rostro ben tornito che dal becco si estendeva su buona parte del capo, è venuto a ispezionare il cibo, e solo dopo, sotto lo sguardo vigile della madre, ha stabilito che i piccoli potevano avvicinarsi. Da quel momento sono riuscita ad attirare un’intera colonia di anatre. Non avevo proprio alcun ritegno a intrattenermi con loro, imitandone il verso, e i rari passanti si stringevano alle mie spalle, incuriositi. Probabilmente avranno pensato che fossi una mezza matta ma non davo alcun peso alla faccenda, che comunque suscitava diverse simpatie. Un giorno una donna si è avvicinata con la figlia per fare delle foto e mentre mi chiedevano notizie sull’età dei piccoli, ho detto: vedete, è chiaro che le lingue funzionano con gli animali meglio che tra persone. La berlinese più anziana ha confermato, lasciandosi andare a una robusta risata.
L’esperienza di osservare gli animali nel loro ambiente anche solo per qualche ora è indescrivibile. Queste creature gentili e buone e infinitamente generose ci insegnano cosa siano la pacatezza e la semplicità nei rapporti con quel che ci sta attorno, ci riportano all’armonia che abita le cose. Perfino una visione istantanea è preziosa. Io non so raccontarvi la gioia nell’affacciarmi dal treno e vedere per pochi attimi la regale figura di un airone bianco, immobile in riva a un torrente. O i nidi dei pendolini, appesi agli alberi sfogliati del litorale che corre verso Roma, calde, intime spoglie d’autunno. O la nostalgia, quasi una preghiera d’amore, che viene dalle voci dei gabbiani, quando nelle sere d’inverno si chiamano sopra i vicoli della mia città, e alla fine si tacciono, tornando ai loro ripari. E potrei dirvi anche dello spettacolo di un airone cinerino, sceso su un argine dell’Arno in un torrido giorno d’estate, uniche presenze, lui e io, in quell’ora lontana dalle case e dal tempo. Ricordo come fosse ora la sagoma maestosa dell’animale, ferma davanti al fiume, assorta e stupenda. Pur senza voltarsi mi aveva sentita, lo vidi girare appena il suo becco arrossato, provocante mezzaluna posata sul mio cuore. Sapeva che ero lì e per questo mi ha regalato il suo slancio. Eravamo all’unisono. 
Chi non comprende la perfezione racchiusa in uno di questi incontri, chi non ne coglie l’assoluta bellezza, vive talmente al di fuori del mondo da essergli estraneo e nemico.

(Di Claudia Ciardi)



Konrad Lorenz – L’anello di Re Salomone
(From the book)

«È noto che i pappagalli e molti corvidi sanno “parlare”, cioè imitare delle parole umane, e a volte può esservi anche un legame concettuale fra il suono emesso e determinate esperienze dell’uccello. Per il fatto che sanno imitare, molti uccelli canori spesso danno l’impressione di “prendere in giro”: il canapino, la verla piccola, il pettazzurro, lo storno e altri sono maestri in questo campo. Questi suoni sono imitati, e quindi appresi dall’uccello, che non li possiede per via innata, e che li emette solo mentre canta, senza alcuna connessione con il significato che possono avere particolari “vocabolari”. Questo vale anche per gli storni, le gazze e le taccole, che sono assai bravi nell’imitare le parole umane. 
Altra cosa è il “linguaggio” dei grossi corvi e soprattutto dei grossi pappagalli: anch’essi imitano le parole umane in modo chiaramente giocoso e non intenzionale, come avviene per molti uccelli dall’intelligenza meno elevata, ma i corvi e i pappagalli imitano le parole umane anche indipendentemente dal canto, e innegabilmente, a volte, tali suoni sono associati a certi concetti e hanno quasi (però soltanto quasi!) un certo significato.
Molti pappagalli cinerini e molti pappagalli dell’Amazzonia dicono “buongiorno” solo al mattino, e una sola volta; quindi usano l’espressione in modo del tutto appropriato. Otto Koehler possedeva un vecchissimo pappagallo cinerino che, avendo il vizio di strapparsi le penne, era rimasto quasi pelato, e rispondeva al nome di Geier. Geier, che non era affatto bello, compensava la sua bruttezza con il talento per la lingua: diceva perfettamente a tono “buongiorno” e “buonasera” e quando un visitatore si alzava per prendere congedo esclamava con un vocione benevolo: “Be’, arrivederci!” E si noti che lo diceva solo quando il visitatore aveva veramente intenzione di andarsene: come i cani pensanti, così anch’egli comprendeva da segni impercettibili e inconsci se l’intenzione del visitatore era veramente seria. Quali fossero questi segni, noi non l’abbiamo mai scoperto, ma neppure una volta siamo riusciti a provocare il suo saluto mediante un congedo fittizio. Se invece una persona era veramente in procinto di andarsene, poteva anche congedarsi nel modo più discreto che subito, e un po’ beffardo, risuonava il “Be’, arrivederci” del pappagallo.
Il celebre ornitologo di Berlino, il colonnello von Lukanus, possedeva anch’egli un pappagallo cinerino, divenuto famoso per la sua straordinaria memoria. Accanto ad altri uccelli, Lukanus teneva anche una upupa domestica, di nome Höpfchen, e il pappagallo, che sapeva parlare bene, aveva presto imparato questo nome. Purtroppo le upupe, al contrario dei pappagalli, non vivono a lungo in cattività, e quindi dopo un po’ di tempo Höpfchen passò nel regno dei più, e parve che il pappagallo ne avesse dimenticato il nome; comunque non l’aveva mai più pronunciato. Dopo la bellezza di nove anni, il colonnello von Lukanus acquistò un’altra upupa e, appena la vide, il pappagallo disse subito e ripeté in seguito: “Höpfchen…Höpfchen…”.
Questi uccelli longevi, che quando hanno imparato una cosa ne serbano una memoria tanto tenace, sono però in generale altrettanto lenti ad apprendere. Chiunque abbia provato a insegnare una nuova parola a uno storno o a un pappagallo sa di quale pazienza ci si debba armare, quante volte gliela si debba ripetere, senza mai stancarsi. Eppure tali uccelli, eccezionalmente possono imparare una parola che hanno udito solo di rado o forse anche un’unica volta. Ciò accade però, a quanto sembra, solo in circostanze eccezionali di grandissima eccitazione, e io conosco con certezza solo due casi del genere. Mio fratello possedette per anni un magnifico pappagallo addomesticato dell’Amazzonia, vivace e straordinariamente dotato per la lingua; si chiamava, in portoghese, “Papagaio”. Per tutto il tempo che visse con noi ad Altenberg, Papagaio poteva volare liberamente come tutti gli altri uccelli e un pappagallo che vola liberamente di albero in albero pronunciando bene le parole umane fa un’impressione ancora più buffa di un pappagallo che parli altrettanto bene standosene in gabbia. Quando Papagaio svolazzava qua e là gridando forte “dov’è il signor dottore?”, e qualche volta cercando veramente il suo padrone, la scena aveva un effetto comico irresistibile. Ancor più comica ma anche notevole scientificamente, fu la seguente impresa dell’uccello. Papagaio non aveva paura di nulla e di nessuno, eccezion fatta per lo spazzacamino. In generale gli uccelli hanno facilmente paura delle cose che stanno in alto, fatto questo che è di certo connesso con l’innata paura degli uccelli rapaci che appunto piombano addosso dall’alto. Quindi ogni cosa che si stagli contro il cielo ha per loro, in un certo senso, l’intonazione emotiva dell’uccello rapace. Quando vide una volta lo spazzacamino, che già si distingueva dagli altri uomini per il suo sinistro color nero, ergersi contro il cielo ritto sul camino, Papagaio fu assalito dal timor panico, e se ne volò via con tali schiamazzi e così lontano che tememmo per il suo ritorno. Alcuni mesi dopo lo spazzacamino ritornò, mentre Papagaio se ne stava sulla banderuola del tetto litigando con le taccole che avrebbero voluto occupare loro quel posto. Improvvisamente io lo vidi divenire lungo e sottile, e guardare preoccupato verso il basso; poi prese il volo gridando ininterrottamente con voce assordante: “Arriva lo spazzacamino, arriva lo spazzacamino!” Un momento dopo lo spazzacamino entrava effettivamente dalla porta del cortile! 
Purtroppo non riuscii a stabilire chiaramente quante volte Papagaio avesse visto lo spazzacamino in passato, e quanto spesso avesse udito il grido eccitato della nostra cuoca che ne annunziava l’arrivo: era infatti, senza alcun dubbio, la voce di questa signora che risuonava nelle sue parole. Comunque non l’aveva certamente udita più di due o al massimo tre volte, a intervalli di mesi l’una dall’altra».



Related links:

Am Schlachtensee:
«La strada corre lungo il Mexikoplatz, una lingua verde a tratti quasi impudente per la fretta dei ciclisti. Ma io amo sorprenderne il volto gentile che si perde tra gli alberi e tenta di raccontare qualcosa come se facesse cadere dietro di sé molliche di pane, questo più di tutto mi seduce».

Intervista con Elisa Cutullè su Vivisaar (parlando, tra gli altri, di Konrad Lorenz)

L’uomo cantava come un fringuello. La nascita del linguaggio di Robert C. Berwick, «La Repubblica», 18.10.08:
«Proprio come quando battiamo il tempo con il piede a ritmo di musica, così l’uomo o gli uccelli parlano o cantano senza incespicare. Questa è l’origine del linguaggio. Tutti gli animali esposti ad un apprendimento vocale ricorrono a questo sistema per formare ritmi in assenza di parole, contrariamente a quello che fanno «discenti» privi di apprendimento vocale come gli scimpanzé. Gli scimpanzé possono fare ricorso alle parole, ma non hanno ritmo e non dispongono di un «collante». In assenza di quest’ultimo ingrediente, pertanto, non possono sviluppare il linguaggio in quanto incapaci di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare un vero linguaggio occorrono parole, ritmo e un «collante». In questa prospettiva, la vera essenza della specie umana si è caratterizzata attraverso il canto e le parole, ovvero con l’Opera. Ma gli italiani lo sapevano già da tempo!».

Alla base del linguaggio umano c'è il canto degli uccelli, di Milly Barba, «L'Unità», 07.03.13


16 febbraio 2014

Weimar – La tentazione delle similitudini storiche



La si è sentita evocare, di tanto in tanto, durante l'ultimo quinquennio di crisi economica che, attraverso il grande crash innescato dai mutui subprime negli Stati Uniti, ha investito i paesi dell’unione europea. Citazione colta, non c’è dubbio. La Repubblica di Weimar infatti è cosa misconosciuta ai più – basta pensare ai nostri programmi scolastici, che non di rado si interrompono assai prima o, se anche capita di esplorare insieme agli studenti qualche aspetto del ventennio tra le due guerre, finisce per essere liquidato piuttosto frettolosamente. Il periodo weimariano è tuttavia argomento infido e sterminato pure per gli addetti ai lavori e avvicinare la molteplicità di questioni che tale decennio, poco più, porta con sé, implica destreggiarsi in mezzo a robuste letture che spaziano dalla saggistica storica alla letteratura, dall’approfondimento sociologico alle scienze politiche. 
Di coloro che hanno fatto ricorso alla similitudine tra l’attuale situazione attraversata dall’Europa e la crisi vissuta negli anni di Weimar, Antonis Samaras, premier greco, è certamente colui che più ha lasciato il segno. Erano i primi di ottobre del 2012, la Grecia, in attesa della seconda tranche di aiuti internazionali che tardava a essere erogata, tornava a occupare le prime pagine di tutti i giornali. Vedendo avvicinarsi nuovamente l’incubo della bancarotta, Samaras si lasciò andare all’esternazione secondo cui di lì a poco in Grecia sarebbe scoppiato il caos, come accadde nella Germania del primo dopoguerra. Difficile dire quanti abbiano capito il riferimento. Ma i suoi interlocutori, all’indirizzo dei quali lo sfogo era principalmente rivolto, cioè il governo della Cancelliera, certamente sì. Va comunque detto che il parallelo tra l’attualità e la febbre inflazionistica che fece vacillare, fino al loro cedimento, i deboli equilibri su cui si reggeva la repubblica tedesca, ha assai più del romanzesco rispetto a una reale pertinenza storica.
Il tedesco colto con incarichi dirigenziali viene educato nel sacro timore dell’iperinflazione che fece la sua comparsa in Germania come fenomeno devastante e fuori controllo nel 1923, non a caso soprannominato l’“anno inumano”. Questa traumatica eredità storica e culturale, frutto del concatenarsi di diversi fattori, tra i quali non è di poco conto la dissennata gestione del “caso Germania” da parte dei paesi vincitori della Grande Guerra, non va sottovalutata nell’attuale linea di austerità sostenuta oltralpe come unica ricetta per l’uscita dalla crisi. Samaras agitava lo spettro di Weimar forse anche per suggestionare i ministri tedeschi a prendere una decisione energica e chiara sulla Grecia, ottenendo però poca comprensione e molte reazioni dettate da aperta insofferenza. Ricordare a chi si ha davanti un momento complesso della propria storia che ha fatto da viatico a un periodo ancor più duro, non è il modo migliore per predisporlo a considerare il proprio disagio. Per i tedeschi il capitolo weimariano è sinonimo di catastrofe sociale e confusione politica, due elementi che non sono mai stati rimossi dall’inconscio collettivo. La Grecia alla ricerca di empatia fra i partner europei, si è fatta tentare dalle similitudini storiche ed è rimasta isolata, rassegnata alla lettura passiva dei dispacci di Bruxelles e all’esecuzione dei “compiti a casa” – i rigidi memoranda che hanno raggiunto i tavoli degli amministratori greci come ingiunzioni di sfratto. 
Ma allora, se nella storia il terreno dei parallelismi non fruttifica, perché è affascinante proprio in questo momento approfondire la vicenda di Weimar? Innanzitutto vi è il fattore economico. Se si vuole scoprire come una crisi può essere gestita nel modo peggiore, gli anni della repubblica sono un manuale impietoso. Subito dopo c’è il dato politico. E, secondo me, se s’intende addentraci un pochino nella similitudine, pur con tutti i distinguo del caso, è forse più riconoscibile una fratellanza spirituale tra la progressiva perdita di terreno dei partiti in campo nella Germania degli anni Venti e quel che sta accadendo ora, ad esempio, in casa nostra (in Italia in maniera più vistosa, ma anche nel resto d’Europa si registra un pauroso appiattimento e arretramento del dibattito pubblico). 
Il Partito nazionalsocialista si affacciò alla scena politica nel 1920 (la Repubblica era nata l’anno prima). Da allora una torma di provocatori, scalmanati, agitatori, picchiatori non mancò di aggirarsi per le strade della Germania, profittando di qualsiasi occasione di sbandamento del paese per farsi largo e spianarsi la strada verso il potere. Queste masnade e i loro masnadieri esistono sempre e ovunque. Aspettano di soffiare sul fuoco per i propri interessi. E i più pericolosi fanno capo a quel genere di burattinai che stanno nell’ombra fino all’ultimo minuto, finché non sono sicuri che il carro passi dalle loro parti in sicurezza e trionfo. Quale regia, ad esempio, si celava dietro i cosiddetti “forconi”, cui si è cercato di ridare forza alla fine del 2013?
La storia di Weimar, se ha da insegnarci qualcosa, è rivelatrice proprio in questo: ci mostra come gli attivisti della propaganda a buon mercato si fanno sotto agitando il bene comune in una mano, comodissimo passepartout quando in una collettività serpeggiano fame, disoccupazione, stanchezza, e nell’altra la rivoltella. Il loro pretesto? Necessità dell’ordine, necessità dell’ordine, necessità dell’ordine. Non vedono l’ora di dirlo.

(Di Claudia Ciardi)




Gunther Mai, La Repubblica di Weimar [Die Weimarer Republik]
ed. it. Il Mulino, 2011

From Introduction:

«Quando verso la metà del gennaio del 1933 la crisi della repubblica di Weimar toccò il culmine, il governo del Reich era impegnato a discutere di pomodori, formaggi e cavoli. Si trattava di decidere se i contratti commerciali con l’Olanda e la Svezia dovessero essere rinnovati o lasciati scadere. Se si fosse deciso di non rinnovarli, bisognava mettere in conto possibili ritorsioni ai danni dell’esportazione dei prodotti industriali tedeschi. La possibilità di evitare la nomina di Hitler a cancelliere sembrava a prima vista un problema secondario. Eppure era una questione cruciale, la cui importanza per le sorti della repubblica non era certo inferiore ai contrasti che tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930 erano sorti in merito all’aumento di un quarto di punto dei contributi per l’assicurazione di disoccupazione. Anche questo conflitto apparentemente irrilevante aveva prodotto una svolta decisiva: la sua mancata soluzione provocò infatti la fine della Grande coalizione guidata dalla SPD, portò a un radicale cambiamento del quadro politico-parlamentare, con l’ascesa della NSDAP, [Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori – la formazione di Hitler] e segnò l’inizio del passaggio a un regime presidenziale autoritario. Nel 1930 la lotta per il potere si concluse a favore dell’industria e contro la SPD e i sindacati. Nel 1933, sullo sfondo del dibattito sui cavoli e sul formaggio, si consumava uno scontro di potere tra industria e agricoltura. In quei giorni di gennaio le associazioni di tutti i grandi gruppi sociali fecero visita al cancelliere e al presidente del Reich. Per una volta stranamente d’accordo, sindacati e industriali sostenevano all’unisono che il rincaro dei generi alimentari non avrebbero solo aggravato le già difficili condizioni di vita dei lavoratori e soprattutto quelle dei sei milioni di disoccupati, ma avrebbe ulteriormente ridotto la domanda di prodotti agricoli e industriali.
[…]
Gli agrari ebbero la meglio e provocarono la caduta del governo Schleicher. Mossi dal timore che il governo Hitler-Papen che ormai si andava delineando, potesse optare per una politica autarchica vicina agli interessi del mondo agricolo, all’inizio di febbraio gli industriali non solo cercarono di convincere Hitler che bisognava favorire l’«ulteriore espansione dell’export per creare nuova occupazione», ma gli fecero anche minacciosamente presente che il governo avrebbe potuto incontrare difficoltà se avesse optato per una «politica troppo sbilanciata in favore dell’agricoltura». Nel corso delle trattative che intavolò alla fine di gennaio, anche il gruppo parlamentare del partito di centro cattolico (Zentrum) chiese a Hitler se era favorevole a rafforzare il mercato interno, come Walther Darré, il suo esperto di questioni agricole, aveva sollecitato in una lettera aperta al cancelliere del Reich, o se egli riconosceva piuttosto la necessità di incentivare le esportazioni sul mercato mondiale, come si poteva evincere da alcune sue dichiarazioni. Hitler si guardò bene dal fornire i chiarimenti richiesti.
Dietro questi conflitti c’era una rilevante questione: il Reich era uno stato agricolo o industriale? Questo dibattito era sorto all’inizio del XX secolo e il Reich imperiale aveva risolto d’autorità il conflitto optando per la parità, decidendo quindi in pratica a favore dell’agricoltura, che però stava sempre più perdendo importanza nell’ambito dell’economia nazionale. La monarchia dipendeva da un forte ceto nobiliare, che aveva le sue radici economiche e culturali nelle campagne e nell’agricoltura, in particolare in Prussia.  Con la Adelskammer (Camera dei nobili) le costituzioni del XIX secolo avevano riservato al ceto nobiliare una posizione privilegiata. Quando nel 1918 questo privilegio venne meno, la bilancia tra l’industria e l’agricoltura cominciò a pendere dalla parte della prima per effetto dei nuovi rapporti di forza che si andavano delineando nella società. Ma il vecchio mondo era ancora abbastanza forte, come dimostravano la persistenza sulla scena delle vecchie élite, il perdurare di una certa mentalità collettiva, le abitudini di vita, nonché la lunga durata dei modelli culturali e delle interpretazioni ideologiche del mondo. È vero che nel 1918 l’aristocrazia fu quasi ovunque privata dei privilegi legali e delle istituzioni di rappresentanza, ma non ancora (o comunque poco) delle basi economiche, dell’influenza politica e dell’egemonia culturale nelle campagne. Nondimeno, la grande proprietà terriera, regno pressoché incontrastato dell’aristocrazia, perdette gradualmente l’appoggio dei contadini, che cominciarono a dar vita a propri partiti, leghe e associazioni. Ancor più profondamente polarizzate erano le relazioni nell’ambito industriale, dal momento che sindacati e imprenditori erano divisi su tutto e lottavano secondo il più classico schema della lotta di classe. Il risultato era un equilibrio assai precario e soggetto a continue rotture tra i vari gruppi e classi sociali. E dal momento che anche i loro referenti politico-parlamentari si paralizzavano a vicenda lottando per l’egemonia politica e culturale, alla fine sembrò che da questa situazione di stallo si potesse uscire solo con un sistematico ricorso alla violenza: dal basso con la rivoluzione, dall’alto con la dittatura. In nessun periodo della recente storia europea si dà il caso di un così massiccio ricorso alla violenza sul piano della politica interna: dagli scioperi politici allo sciopero generale, dai vari tentativi golpisti e rivoluzionari fino a un’accanita guerra civile.
[…]
La repubblica di Weimar dovette fare i conti con la fase probabilmente più difficile del passaggio da una società ancora largamente agricola a una capitalistico-industriale. Nel periodo tra le due guerre, d’altro canto, analoghi sviluppi caratterizzarono tutta l’Europa, come pure – fatte le debite differenze – l’America settentrionale e meridionale, e perfino alcune aree dell’Asia. Questo passaggio epocale si compì sullo sfondo di un rapido susseguirsi di crisi congiunturali e strutturali: dalla «grande depressione» del periodo 1873-1895 fino alla crisi economica mondiale del 1929-’36 passando per l’economia di guerra, l’inflazione e la deflazione degli anni tra il 1914 e il 1923. La guerra mondiale e le rivoluzioni che scoppiarono un po’ dovunque nell’immediato dopoguerra non furono all’origine di tali trasformazioni (anche se presso i contemporanei prevalse questa riduttiva interpretazione), ma impressero loro una drammatica accelerazione: tuttavia la prima guerra mondiale fu la vera rivoluzione, mentre il periodo tra le due guerre fu caratterizzato dalla ricerca di nuovi modelli politico-sociali. In quegli anni si delinearono in Europa almeno cinque di questi modelli o percorsi di sviluppo: 1. quello europeo-occidentale della ricerca di un consenso parlamentare difficile ma alla lunga produttivo; 2. quello scandinavo basato sull’equilibrio parlamentare tra socialdemocrazia e contadini; 3. quello tedesco e italiano basato sull’eliminazione del dissenso con la violenza totalitaria; 4. quello delle dittature dell’Europa orientale e meridionale impegnate nello sviluppo “forzato” dei loro paesi con metodi autoritari; 5. quello russo dell’esperimento comunista-bolscevico. Come la democrazia parlamentare in molti stati europei, anche la dittatura era un esperimento storicamente inedito, una soluzione che a molti sembrò adatta ai tempi e alle circostanze.
[…]
In Germania molti si convinsero che si poteva sacrificare la repubblica di Weimar sull’altare di una dittatura presidenziale, che per di più poteva ancora richiamarsi alla “costituzione di riserva” insita nella costituzione weimariana. Il continuo alternarsi di governi presidenziali a partire dal 1930 evidenzia il processo di ricerca e di sperimentazione della forma più adatta di regime autoritario.
[…]
In ordine di tempo, la dittatura fu la decima a essere instaurata in Europa. Nel 1939 solo 11 dei ventotto stati europei erano ancora democrazie parlamentari, mentre in tutto il mondo lo erano solo 17 su 65 stati sovrani: dati che mostrano con chiarezza quanto fosse instabile il sistema politico affermatosi dopo la prima guerra mondiale. Il parlamentarismo non sopravvisse a lungo in nessuno dei paesi sconfitti. Le rivoluzionarie trasformazioni seguite alla sconfitta militare non vennero accettate da vasti strati della popolazione, e le dure clausole dei trattati di pace contribuirono ad aggravare la crisi: basti pensare alla perdita di status e di prestigio, alle conseguenze economiche, alle mutilazioni territoriali e alle aspirazioni secessioniste delle minoranze etniche.
[…]
In questo contesto europeo la repubblica di Weimar non può essere giudicata partendo dalla sua fine, vale a dire come mero antefatto del Terzo Reich o come intermezzo tra un autoritario Kaiserreich e una dittatura totalitaria. Allo stesso modo sarebbe ingiustificato giudicarla come una repubblica “debole” per via delle “possibilità non sfruttate” nella sua fase costitutiva e dunque come una repubblica il cui fallimento si dovette più ai limiti intrinseci che al potenziale distruttivo dei molti nemici. Ci sono stati, e ci sono, molti tentativi di spiegazione monocausali… […] La repubblica, insomma, non era votata al fallimento. Ma se si guarda all’Europa di quegli anni, il suo collasso rientrava nell’ordine delle cose possibili o in qualche modo prevedibili, anche se lo stesso non si può dire del successo del Terzo Reich».






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4,2 Billionen Mark – das ist unser Inflationstrauma, «Die Welt», 13.11.13
Im November 1923 war ein Dollar 4,2 Billionen Reichsmark wert. Die Menschen hungerten, Millionen wurden ruiniert. Die Einführung der Rentenmark brachte Besserung. Und der Staat sparte radikal.

Prostituierte in der Weimarer Republik - blog.stuttgarter-zeitung.de

Tauentzielgirl team

In questo blog:


Inflation:
L’analisi economica del periodo weimariano in Germania è un tema stimolante perché ci narra una delle crisi più spaventose vissute nel continente europeo, esplosa non a caso dopo la prima guerra mondiale. Quella che viviamo oggi è una situazione diversa, soprattutto per le cause che l’hanno determinata e per il fatto che il contagio coinvolge quasi tutte le economie del mondo, in un andamento sussultorio di scarse riprese, più annunciate che reali, e immediate ricadute. [...] La micidiale svalutazione del marco tedesco tra il 1921-’23 ricostruita nelle pagine di Fergusson diviene allora una materia in grado di attirare il lettore di oggi, soprattutto in quanto gli viene offerta la possibilità di approfondire dinamiche e ricadute sociali di un fenomeno che sta di nuovo erodendo le certezze di molti paesi, giocando pericolosamente con le aspettative di milioni di persone.

«La Repubblica di Weimar evoca i timori sia della possibili conseguenze del mancato consenso sociale sulla direzione da prendere, sia della trasformazione di differenze magari limitate in battaglie politiche vitali; con la conseguente diffusione dell’assassinio e della battaglia di strada, e le minoranze che diventano comodi capri espiatori delle forze antidemocratiche. Un segno ammonitore, si diceva, perché tutti sappiamo come andò a finire, con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo il 30 gennaio 1933».

Weimar fu una stagione di grande vitalismo politico e culturale ma anche di tensioni e difficoltà di ordine sociale ed economico che finirono per produrre molte delle fratture esiziali alla sua sopravvivenza.
Questa coraggiosa fabbrica dell’alternativa sociale, nata dal dramma della guerra, ebbe un cammino affatto agevole e fece non poca fatica a sfuggire ai bassi tiri del conservatorismo e ai maneggi di certi professionisti della politica e delle arti, il cui unico obiettivo era servire il proprio interesse, flirtando il minimo indispensabile con la repubblica per tirare avanti e aver garantita la propria esistenza all’interno della collettività.

9 febbraio 2014

Los desastres de la guerra


Francisco Goya, I disastri della guerra - The Disasters of War


Francisco Goya, Las resultas (1813-'14)

A compendio delle riflessioni che caratterizzano il centenario della prima guerra mondiale, riproponiamo la recensione che abbiamo dedicato alle acqueforti di Francisco Goya, raccolte sotto il titolo di Los desastres de la guerra, pubblicate in volume da Abscodita nel 2011.
Si tratta di un libro d’arte in cui i crudi contorni del figurativo accolgono venature espressioniste, ma anche di un documento storico estremamente attuale che molto ci dice delle aberrazioni e dei traumi di lunga durata che il deflagrare di una guerra porta nel vivere civile. Del resto, se da sempre alle guerre si sono riservate ampie trattazioni dal punto di vista della strategia militare e della teoria politica, più recente è il loro approfondimento sul piano antropologico, ossia lo studio di quelle dinamiche collegate all’agire umano e alla sua psiche inevitabilmente innescate dalle criticità di un conflitto.
L’opera di Goya è un resoconto ante litteram della considerazione della guerra quale caduta regressiva e violenta nella cultura umana. L’arte diviene qui un mezzo di rappresentazione potentissimo in grado di dare voce a un monito universale. Non è solo una volontà di cronaca a guidare la mano dell’artista ma la consapevolezza di essere testimone della storia e, attraverso questa esperienza, fermare con tratto indelebile lo scempio che tanto efferatamente può abbattere la vita umana.




Titolo: I disastri della guerra
Titolo originale: Estragos o Desastres de la guerra
Autore: Francisco Goya
Collana: Mnemosyne
Data pubblicazione: gennaio 2011
Casa editrice: Abscondita
Euro 35,00

L’uomo, soprattutto colui che meglio sa esprimere la propria sensibilità, fa risuonare dentro di sé l’incertezza del mondo, rivelandone le più brutali miserie e cadute. 
La sua discesa, sofferta quanto piena di vertigine, tocca «dolorose cose», secondo la sintesi rilkiana dell’esperienza poetica, e risulta fecondata da quella prossimità al caos che nutre lo slancio del narratore. Al pari di un funambolo, l’artista riporta una visione al limite e, spinto da ciò che Elias Canetti ha definito «la responsabilità per la vita che si distrugge», si sente chiamato a mostrarla agli altri, perché possano averne memoria.
Goya è autore di un’epica per immagini nata nelle strade della Spagna, che il suo occhio vorace attraversa, agitato dal fremito della testimonianza ma prima ancora da un innato istintivo desiderio di raccontare, di dar conto dell’attimo stesso che precipita gli esseri umani nella follia. 
Un secolo di sospetti, isolamento e paure, cui hanno dato il loro esiziale contributo la gretta tirannide monarchica, il feudalesimo e il clero, esplode infine in un abisso di crudeltà. Le false mitologie di un paese, in cui lungamente si sono ossequiate la menzogna e il pregiudizio, sono travolte da una violenza che non risparmia nessuno. Nascono così I disastri della guerra
Uscito a gennaio 2011 per l’editrice Abscondita, questo volume fa parte della collana Mnemosyne. Uno straordinario cantore del mito antico, Cesare Pavese, nella Musa-Memoria riconosceva la madre e le figlie, ossia quella voce e quei gesti che presiedono a tutta l’arte:  «….immenso tema. Chi scrive sa bene di avere osato non poco avvistando un solo nume nelle nove…». Di questa memoria mutevole e molteplice, Francisco Goya sembra dunque inseguire le tracce nel tentativo, se non di fermarla, almeno di ritrarne qualche espressione. La sua grandezza, il suo merito artistico, se così conviene definire un percorso tanto esteso per soggetti ed eventi elaborati, sta nel fatto che la pittura entra nella storia, letteralmente si imbatte in «un’occasione storica», come non manca di sottolineare Renato Guttuso nella sua introduzione. Questo implica «un cambiamento del corso, del senso dell’esplorazione, un cambiamento di piano geometrico»; il segno pittorico scava seguendo una verticale, taglia la realtà, incide, pelle su pelle, il sanguinoso affollarsi delle vicende. 
Siamo negli anni dell’occupazione napoleonica della Spagna, tra il 1808 e il 1814. Il popolo subisce angherie, vessazioni, patisce stragi, torture, fame. Tutto ha inizio con La fucilazione del 3 maggio 1808, fotografia della disperata resistenza dei contadini all’invasore. L’artista è lì, in mezzo a loro, annota ogni cosa nel suo taccuino, non si può tacere la vergogna, bisogna che l’uomo sieda di fronte a se stesso e prenda atto del proprio smarrimento. Così Goya scende all’inferno e, dal 1814 in poi, saccheggi, assassini, stupri rivivono tra le sue mani. Tutta quella inenarrabile densissima tragedia trova il modo di rappresentarsi. Ma non è un viaggio che l’artista porta a compimento in patria. Allorché dopo l’occupazione straniera tornano a farsi avanti oscurantismo e Inquisizione, Goya parte per Bordeaux e nei sei anni di esilio volontario lavora al suo cospicuo archivio di schizzi sulla guerra. 
Al 1820 si contano ottantacinque acqueforti che compongono una sorta di quaderno-poema dal titolo di Fatali conseguenze della sanguinosa guerra spagnola contro Bonaparte. E altri capricci enfatici. Epilogo del dramma e dei suoi protagonisti, vittime di un’umanità che ha abdicato a se stessa.
Nel medesimo periodo (1819) Géricault realizza Le Radeau de la Méduse, sul naufragio che colpì la zattera della Medusa, cumulo di perseguitati su cui si staglia il fallimento di un’epoca. Non siamo forse di fronte a una tremenda attualità? La pubblicazione di Abscondita arriva in un momento cruciale della storia del Mediterraneo; non è volersi affidare a tutti i costi ai ricorsi storici. Eppure, questa concomitanza dona alle incisioni di Goya una rinnovata espressività. 
Gli apparati di Francesco Martini, attento curatore dell’edizione, contengono brevi commenti a tutte le tavole goyane dei Desastres, ben contestualizzate sia sul piano cronologico che tematico, oltre alla galleria di disegni preparatori utili a cogliere l’opera mentre esce dalle mani dell’autore-levatore.
Le guerre, ebbe a dire John Steinbeck, bisogna ricordarle per non ripeterle. E non risuona forse nelle litografie di Goya quello stesso monito che lo scrittore americano si trovò a lanciare, oltre due secoli dopo, al ritorno dal fronte della seconda guerra mondiale?
«Adesso ci siamo nutriti per anni di paura e solo di paura, e la paura non dà buoni frutti. Da essa nascono crudeltà e inganno e sospetto, germogliati nelle nostre tenebre. E così come è certo che stiamo avvelenando l’aria coi nostri esperimenti atomici, è altrettanto certo che abbiamo l’anima avvelenata dalla paura, da un terrore senza volto, stupido e necrotico».
La serie di láminas inventadas y grabadas al agua fuerte, frutto dell’osservazione diretta di una delle grandi atrocità commesse in Europa, ha cercato di metterci in guardia. Di fronte a quella testimonianza noi sentiamo, adesso, tutto il peso del nostro ingombrante passato. Le ombre, le maschere, le creature mostruose e fantastiche che incombono sui morti e i disperati delle tavole, popolano da sempre l’immaginario occidentale ma oggi soprattutto la loro presenza corre veloce e insidiosa accanto a noi. Nada e Murió la Verdad, titoli che pesano come macigni. Ma anche nel pieno fosco disincanto Goya sembra invitarci ad avere il coraggio di fissare il nostro sguardo sull’orrore, per smascherarlo senza indugiare neppure un istante di più.      

(Claudia Ciardi, aprile 2011)



1 febbraio 2014

Erika Mann - The Lights Go Down


The Lights Go Down - Wenn die Lichter ausgehen


Erika Mann als Pierrot, 1934

Erika Mann (Monaco di Baviera, 1905 – Zurigo 1969) è l’eclettica figlia di Thomas Mann. Scrittrice, attrice, giornalista, col padre – il “Caro Mago” al quale tra affetto e ammirazione si rivolge nelle lettere – ebbe un rapporto di scambio continuo, sia sul piano personale che su quello artistico, fino a influenzarne la decisione di lasciare la Germania per gli Stati Uniti. 
Nel suo percorso di intellettuale la Mann non conobbe allineamento alcuno con le polarizzazioni ideologiche che impegolarono la politica di prima e dopo la seconda guerra mondiale.
Questa donna ha vissuto tutto in maniera estremamente indocile, rifiutando ogni compromesso che esigesse in cambio di addomesticare l’originalità della propria parola e smorzarne l’intento polemico. Perciò la Mann fu una outsider, sempre. Osteggiò il nazismo ma non condivise nulla della spartizione del mondo successiva alla guerra. Provò disagio e insofferenza per lo schiacciamento dell’Europa tra i due blocchi. Il comunismo sovietico, il terrorismo bellico, l’imperialismo americano erano quanto di più lontano dalle radiose promesse di rinascita e libertà dell’estate ’45.
Non mancò di scagliarsi contro il clima della guerra fredda e si batté perché l’Europa ritrovasse una propria dimensione culturale e politica, in grado di suffragare un dialogo franco, aperto e inclusivo della maggioranza dei punti di vista dei suoi interlocutori.
Si spiega così la cocente delusione che gli riservò l’America maccartista, tanto da spingerla a ritirare la domanda per la cittadinanza.
Scoprire le contraddizioni della società che le aveva dato rifugio dalla barbarie nazista, fare i conti con le ansie psicologiche della patria adottiva comportò il crollo delle ultime certezze che quel mondo le aveva offerto fin da prima dell’ascesa al potere di Hitler. Quando gli opposti rivelarono in maniera tanto scoperta e perfino con cinico compiacimento le loro somiglianze, Erika Mann abbandonò per sempre la scena.




Erika Mann, Quando si spengono le luci. Storie dal Terzo Reich,
a cura di Agnese Grieco, Il Saggiatore, 2013
pp. 267
Euro 19,50
ISBN 978-88-428-1295-1

Uno straordinario talento per il teatro, un’attitudine alla performance e alla critica irriverente per tutto ciò che alimenta un rigido classismo, questi gli aspetti che tengono a battesimo la creatività della primogenita di Thomas Mann. Il carisma di Erika si mette in luce già dal 1921, su un piccolo palco improvvisato entro la cerchia di amici e familiari dei giovanissimi interpreti, il Laienbund Deutscher Mimiker. E non avrebbe potuto essere altrimenti per una ragazzina cresciuta all’ombra del genio paterno e che da parte di madre vantava una nonna e una bisnonna protagoniste dell’emancipazione femminile a Monaco e Berlino. Hedwig Dohm, la bisnonna, è un personaggio magnifico, quasi l’eroina di un romanzo. Giornalista e scrittrice aderisce ai movimenti femministi; la sua è una delle prime voci a sostegno del diritto al voto delle donne in Germania. Quando, infine, l’entusiasmo per l’inizio della prima guerra mondiale avrà contagiato tutti, sarà tra i pochissimi intellettuali a respingere con lucidità ogni slancio per quella che riconosce immediatamente come una tremenda carneficina.
Erika Mann nasce dunque già contaminata dall’aria familiare anticonformista e battagliera; questo peraltro continuerà ad essere il destino dei Mann con l’arrivo al potere dei nazisti. 
Quando Erika lascia Monaco per studiare recitazione a Berlino è il 1924. Ottiene importanti ingaggi senza tralasciare la collaborazione col fratello Klaus, scrittore e critico di teatro. Un sodalizio e un’alleanza che si interromperanno solo nel 1949, in seguito al suicidio di Klaus. Per Erika sarà come perdere metà del proprio mondo. I due infatti avevano condiviso praticamente tutto, vocazione artistica, amicizie, viaggi, esilio. Un doppio nel quale si legge in controluce il manifesto dei figli che si sentono estromessi dai padri, che sperimentano sulla propria pelle la crisi del sistema di valori in cui sono cresciuti e rivendicano uno spazio per autorappresentarsi.
È proprio questa presa di coscienza generazionale a confluire nel famoso «Macinapepe», il Kabarett politico letterario nato nel 1933 di cui Erika è l’indiscussa animatrice. I testi sono ironici, mordaci con qualche nuance espressionista ma senza zavorre ideologiche. Il «Macinapepe» viene inaugurato nello spazio della Bonbonniere, a Monaco, il primo gennaio del ’33. A febbraio Hitler tiene il suo discorso di accettazione dell’incarico di cancelliere nell’edificio confinante. Fatalità della storia – espressione verso cui la Mann, a ragione, provava una grande insofferenza. Di fatto questo episodio annuncia tempi difficili per il Kabarett. Dopo un rapido ripiegamento della compagnia a Zurigo, anche qui nascono ben presto dissapori con le autorità e nel ’35 gli artisti sono costretti a fare fagotto. Gli spettacoli vengono portati in giro per l’Europa, il pubblico non manca, tuttavia i problemi per la messa in scena si moltiplicano. Erika organizza il trasferimento in America ma oltreoceano è un flop completo e la compagnia costretta a sciogliersi. I tre anni del «Macinapepe» restano in ogni caso un esempio di infaticabile attivismo politico mentre il vecchio continente si apprestava a mettere in soffitta senso critico e progresso sociale.
I racconti che compongono il volume pubblicato da Il Saggiatore, per la cura di Agnese Grieco, che nella sua articolata postfazione ricostruisce in dettaglio la storia dei Mann sullo sfondo di una Germania annichilita dal regime, risalgono al 1939. Erika ha ormai intrapreso con successo in America l’attività di conferenziera. Si dedica anima e corpo alla scrittura, anche quella per bambini, che suscita molti apprezzamenti, cercando così di ricostruire un presidio di opposizione politica alla dittatura. La Mann, in questo catalogo di tipi e situazioni fotografati in una non meglio precisata città tedesca, intende portare all’attenzione dei suoi lettori lo scandalo di un’opinione pubblica anestetizzata dalle ‘verità’ di regime e da una ben orchestrata retorica bellica. I protagonisti delle sue narrazioni assurgono a exempla di una piccola borghesia ripiegata su se stessa, in preda a uno sconcertante fatalismo storico, secondo cui le cose non possono che andare nella direzione presa, visione pusillanime e acritica come la Mann in più punti non manca di sottolineare. La denuncia della abulia che immobilizza la società tedesca colpisce di rimbalzo anche chi da fuori assiste alla catastrofe pianificata dalla Germania, senza opporvi la necessaria resistenza, in una colpevole attesa degli eventi.
Il ‘decalogo’ che ci scorre sotto gli occhi mostra in tutte le sue sfaccettature il processo che comporta l’occupazione dei vertici dello Stato e di ogni posizione disponibile nella società da parte di soggetti incompetenti e totalmente pervertiti dall’indottrinamento. Si tratta della messa a nudo di un vizio umano che nella Germania hitleriana conobbe una stagione trionfale, con tutte le nefaste conseguenze che ne derivarono, ma a fronte del quale ancora oggi è importante mettere in campo tutte le risorse disponibili per restare vigili e non cadere in tentazione.

(Di Claudia Ciardi)

Vincent van Gogh, La ronda dei carcerati, 1890

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Entartete Kunst

«La questione non è banale. A entrare in gioco, infatti, nella definizione formulata dai nazisti per bollare negativamente le opere dell’avanguardia sono sia l’idea di arte che il regime intendeva divulgare sia il processo, a ciò strettamente legato, di elaborazione di una damnatio memoriae che, se osservato più da vicino, si scopre estremamente ambiguo».

Un articolo su Tacito, Elias Canetti, Ezra Pound, James Joyce, Giuseppe Ungaretti, Claudio Magris
Fabula fluit. Corpi fluviali e geografie letterarie
di Claudia Ciardi

«Intendiamo qui svolgere una riflessione affiorata durante lo studio dei Pisan Cantos (2008-2010), che nel (per)corso della nostra lettura sono venuti rappresentandosi come un corpo fluviale. Il dettato poundiano ha sollecitato così l’approfondimento di uno dei nessi da sempre forse più vitali a livello di “inventio” letteraria che vede replicarsi nel fluire della “fabula” il moto inesauribile dei fiumi. Il saggio con cui tentiamo di dare forma a questa idea si nutre di appunti e osservazioni personali non a caso proposti in un andamento estremamente ondivago, nel quale voci antiche e recenti di scrittori e poeti si mischiano, alimentando il grande fiume della narrazione letteraria. Perché se è chiaro che l’acqua in cui ci bagniamo non è mai la stessa, tuttavia il fiume che Eraclito contemplava scendeva al mare quasi identico da millenni, raccogliendo nel proprio alveo e attorno a sé, storie, pensieri, umanità simili pur nella distanza tra generazioni e culture marcata dal passare del tempo. Ma vero è pure che questo senso del trascorrere della vita non appartiene alla natura. Perciò il moto delle acque fa del fiume una creatura mutevole all’apparenza e al contempo eterna nel suo esistere. A guardarlo resta in noi la vertigine dell’infinito, e la lontananza tra i nostri limiti fisici e l’ampiezza del suo fluire fa nascere la nostalgia per un’origine perduta, una culla violata. Proprio dal senso di questo distacco, proprio in virtù della nostra immaginazione che coglie la perdita di un passato fuori da se stessa ma che ancora la abita, facciamo anche noi l’esperienza di un non finito, di un tutto dai contorni sfumati nel quale abitiamo da millenni, uguali ai fiumi che attraversiamo, sommati entrambi all’eterna corrente che anima mondi differenti».

(Dall’introduzione)