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23 febbraio 2014

Konrad Lorenz - In principio fu il canto


Etologo, animalista e ambientalista – e come potrebbero queste cose andar disgiunte – premio Nobel nel 1973 per gli studi sulle componenti innate del comportamento e, in particolare, sull’imprinting nelle oche selvatiche, nacque ad Altenberg, sul Danubio, nel 1903. Il fiume fu mentore e straordinario complice d’osservazione.

Quando Lorenz ci descrive i suoi incontri con gli animali, serba per noi memoria di esseri di cui altrimenti nulla resterebbe, perché è nella loro natura andarsene senza lasciare traccia. Esattamente il contrario di quanto facciamo noi, impegnati in una fanatica rappresentazione di noi stessi, incuranti che questo inutile affannarci lede le più elementari regole su cui dovrebbe fondarsi la convivenza sulla terra.
Lorenz ci esorta dunque a recuperare un legame con la natura che, in seguito all’affermarsi della società industriale, è andato logorandosi fino all’impensabile. Inoltre, le sue indagini sulla ritualizzazione dell’aggressività e l’altruismo animale, hanno messo in dubbio l’opposizione tra cultura e natura, tra uomini e bestie. L’attestazione dell’esistenza di comportamenti altruisti anche fra animali significa infatti che siamo di fronte a una componente dell’evoluzione, che quindi premia la cooperazione.
Quest’anno ricorrono i venticinque anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 febbraio 1989. Vogliamo rendergli qui un breve omaggio.



La scorsa estate, nei pomeriggi in cui andavo a passeggiare lungo le rive dello Schlachtensee, amavo soffermarvi all’estremità del lago. In quel punto si poteva infatti godere di una bella vista del bosco e di maggior pace, perché pochi erano i bagnanti che avevano voglia di spingersi fin laggiù. Arrivarci significava infatti camminare per almeno altri venti minuti dopo il noleggio di barche, e già quella non è una meta tanto a portata di mano. Ma l’idea di lasciarmi alle spalle i clamori della città e poter gustare un paio d’ore di sole leggendo magari un buon libro di poesia, mi sollevava dalla fatica del viaggio.
Tuttavia, la cosa più interessante è accaduta solo quando, passati diversi giorni, avevo ormai familiarizzato con il mio rifugio. A pochi metri da me, il lago si ingolfava in un fitto canneto, dimora di libellule e ombre fantastiche. Ma un altro segreto vi si custodiva, più incantevole ancora. Poco prima del mio arrivo erano nati dei piccoli di anatra selvatica. La prima volta che mi sono goffamente sfilati davanti, intanto che il maschio si ingegnava a tenerli a debita distanza da me, sembravano delle fragili barche di carta che annaspavano sull’acqua, il collo rossiccio e spiumato, le zampette sottili e improvvide sulla corrente, a cui non riuscivano a offrire la necessaria resistenza, così che non era raro sorprenderli mentre rompevano la fila e cominciavano a ruotare su se stessi. Ho poi aspettato di vederli uscire dal canneto in cerca di cibo, scortati dai genitori. Non ho resistito a chiamarli, tentando di riprodurre i timidi mugolii che lanciavano al papà e alla mamma. Così la loro traiettoria è divenuta estremamente più vicina a quella dei miei piedi, comodamente poggiati in acqua su un tronco di betulla sommerso. Finché ho deciso di condividere con loro qualcuno dei miei biscotti. Allora il padre, un maschio piuttosto grande con una specie di rostro ben tornito che dal becco si estendeva su buona parte del capo, è venuto a ispezionare il cibo, e solo dopo, sotto lo sguardo vigile della madre, ha stabilito che i piccoli potevano avvicinarsi. Da quel momento sono riuscita ad attirare un’intera colonia di anatre. Non avevo proprio alcun ritegno a intrattenermi con loro, imitandone il verso, e i rari passanti si stringevano alle mie spalle, incuriositi. Probabilmente avranno pensato che fossi una mezza matta ma non davo alcun peso alla faccenda, che comunque suscitava diverse simpatie. Un giorno una donna si è avvicinata con la figlia per fare delle foto e mentre mi chiedevano notizie sull’età dei piccoli, ho detto: vedete, è chiaro che le lingue funzionano con gli animali meglio che tra persone. La berlinese più anziana ha confermato, lasciandosi andare a una robusta risata.
L’esperienza di osservare gli animali nel loro ambiente anche solo per qualche ora è indescrivibile. Queste creature gentili e buone e infinitamente generose ci insegnano cosa siano la pacatezza e la semplicità nei rapporti con quel che ci sta attorno, ci riportano all’armonia che abita le cose. Perfino una visione istantanea è preziosa. Io non so raccontarvi la gioia nell’affacciarmi dal treno e vedere per pochi attimi la regale figura di un airone bianco, immobile in riva a un torrente. O i nidi dei pendolini, appesi agli alberi sfogliati del litorale che corre verso Roma, calde, intime spoglie d’autunno. O la nostalgia, quasi una preghiera d’amore, che viene dalle voci dei gabbiani, quando nelle sere d’inverno si chiamano sopra i vicoli della mia città, e alla fine si tacciono, tornando ai loro ripari. E potrei dirvi anche dello spettacolo di un airone cinerino, sceso su un argine dell’Arno in un torrido giorno d’estate, uniche presenze, lui e io, in quell’ora lontana dalle case e dal tempo. Ricordo come fosse ora la sagoma maestosa dell’animale, ferma davanti al fiume, assorta e stupenda. Pur senza voltarsi mi aveva sentita, lo vidi girare appena il suo becco arrossato, provocante mezzaluna posata sul mio cuore. Sapeva che ero lì e per questo mi ha regalato il suo slancio. Eravamo all’unisono. 
Chi non comprende la perfezione racchiusa in uno di questi incontri, chi non ne coglie l’assoluta bellezza, vive talmente al di fuori del mondo da essergli estraneo e nemico.

(Di Claudia Ciardi)



Konrad Lorenz – L’anello di Re Salomone
(From the book)

«È noto che i pappagalli e molti corvidi sanno “parlare”, cioè imitare delle parole umane, e a volte può esservi anche un legame concettuale fra il suono emesso e determinate esperienze dell’uccello. Per il fatto che sanno imitare, molti uccelli canori spesso danno l’impressione di “prendere in giro”: il canapino, la verla piccola, il pettazzurro, lo storno e altri sono maestri in questo campo. Questi suoni sono imitati, e quindi appresi dall’uccello, che non li possiede per via innata, e che li emette solo mentre canta, senza alcuna connessione con il significato che possono avere particolari “vocabolari”. Questo vale anche per gli storni, le gazze e le taccole, che sono assai bravi nell’imitare le parole umane. 
Altra cosa è il “linguaggio” dei grossi corvi e soprattutto dei grossi pappagalli: anch’essi imitano le parole umane in modo chiaramente giocoso e non intenzionale, come avviene per molti uccelli dall’intelligenza meno elevata, ma i corvi e i pappagalli imitano le parole umane anche indipendentemente dal canto, e innegabilmente, a volte, tali suoni sono associati a certi concetti e hanno quasi (però soltanto quasi!) un certo significato.
Molti pappagalli cinerini e molti pappagalli dell’Amazzonia dicono “buongiorno” solo al mattino, e una sola volta; quindi usano l’espressione in modo del tutto appropriato. Otto Koehler possedeva un vecchissimo pappagallo cinerino che, avendo il vizio di strapparsi le penne, era rimasto quasi pelato, e rispondeva al nome di Geier. Geier, che non era affatto bello, compensava la sua bruttezza con il talento per la lingua: diceva perfettamente a tono “buongiorno” e “buonasera” e quando un visitatore si alzava per prendere congedo esclamava con un vocione benevolo: “Be’, arrivederci!” E si noti che lo diceva solo quando il visitatore aveva veramente intenzione di andarsene: come i cani pensanti, così anch’egli comprendeva da segni impercettibili e inconsci se l’intenzione del visitatore era veramente seria. Quali fossero questi segni, noi non l’abbiamo mai scoperto, ma neppure una volta siamo riusciti a provocare il suo saluto mediante un congedo fittizio. Se invece una persona era veramente in procinto di andarsene, poteva anche congedarsi nel modo più discreto che subito, e un po’ beffardo, risuonava il “Be’, arrivederci” del pappagallo.
Il celebre ornitologo di Berlino, il colonnello von Lukanus, possedeva anch’egli un pappagallo cinerino, divenuto famoso per la sua straordinaria memoria. Accanto ad altri uccelli, Lukanus teneva anche una upupa domestica, di nome Höpfchen, e il pappagallo, che sapeva parlare bene, aveva presto imparato questo nome. Purtroppo le upupe, al contrario dei pappagalli, non vivono a lungo in cattività, e quindi dopo un po’ di tempo Höpfchen passò nel regno dei più, e parve che il pappagallo ne avesse dimenticato il nome; comunque non l’aveva mai più pronunciato. Dopo la bellezza di nove anni, il colonnello von Lukanus acquistò un’altra upupa e, appena la vide, il pappagallo disse subito e ripeté in seguito: “Höpfchen…Höpfchen…”.
Questi uccelli longevi, che quando hanno imparato una cosa ne serbano una memoria tanto tenace, sono però in generale altrettanto lenti ad apprendere. Chiunque abbia provato a insegnare una nuova parola a uno storno o a un pappagallo sa di quale pazienza ci si debba armare, quante volte gliela si debba ripetere, senza mai stancarsi. Eppure tali uccelli, eccezionalmente possono imparare una parola che hanno udito solo di rado o forse anche un’unica volta. Ciò accade però, a quanto sembra, solo in circostanze eccezionali di grandissima eccitazione, e io conosco con certezza solo due casi del genere. Mio fratello possedette per anni un magnifico pappagallo addomesticato dell’Amazzonia, vivace e straordinariamente dotato per la lingua; si chiamava, in portoghese, “Papagaio”. Per tutto il tempo che visse con noi ad Altenberg, Papagaio poteva volare liberamente come tutti gli altri uccelli e un pappagallo che vola liberamente di albero in albero pronunciando bene le parole umane fa un’impressione ancora più buffa di un pappagallo che parli altrettanto bene standosene in gabbia. Quando Papagaio svolazzava qua e là gridando forte “dov’è il signor dottore?”, e qualche volta cercando veramente il suo padrone, la scena aveva un effetto comico irresistibile. Ancor più comica ma anche notevole scientificamente, fu la seguente impresa dell’uccello. Papagaio non aveva paura di nulla e di nessuno, eccezion fatta per lo spazzacamino. In generale gli uccelli hanno facilmente paura delle cose che stanno in alto, fatto questo che è di certo connesso con l’innata paura degli uccelli rapaci che appunto piombano addosso dall’alto. Quindi ogni cosa che si stagli contro il cielo ha per loro, in un certo senso, l’intonazione emotiva dell’uccello rapace. Quando vide una volta lo spazzacamino, che già si distingueva dagli altri uomini per il suo sinistro color nero, ergersi contro il cielo ritto sul camino, Papagaio fu assalito dal timor panico, e se ne volò via con tali schiamazzi e così lontano che tememmo per il suo ritorno. Alcuni mesi dopo lo spazzacamino ritornò, mentre Papagaio se ne stava sulla banderuola del tetto litigando con le taccole che avrebbero voluto occupare loro quel posto. Improvvisamente io lo vidi divenire lungo e sottile, e guardare preoccupato verso il basso; poi prese il volo gridando ininterrottamente con voce assordante: “Arriva lo spazzacamino, arriva lo spazzacamino!” Un momento dopo lo spazzacamino entrava effettivamente dalla porta del cortile! 
Purtroppo non riuscii a stabilire chiaramente quante volte Papagaio avesse visto lo spazzacamino in passato, e quanto spesso avesse udito il grido eccitato della nostra cuoca che ne annunziava l’arrivo: era infatti, senza alcun dubbio, la voce di questa signora che risuonava nelle sue parole. Comunque non l’aveva certamente udita più di due o al massimo tre volte, a intervalli di mesi l’una dall’altra».



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Am Schlachtensee:
«La strada corre lungo il Mexikoplatz, una lingua verde a tratti quasi impudente per la fretta dei ciclisti. Ma io amo sorprenderne il volto gentile che si perde tra gli alberi e tenta di raccontare qualcosa come se facesse cadere dietro di sé molliche di pane, questo più di tutto mi seduce».

Intervista con Elisa Cutullè su Vivisaar (parlando, tra gli altri, di Konrad Lorenz)

L’uomo cantava come un fringuello. La nascita del linguaggio di Robert C. Berwick, «La Repubblica», 18.10.08:
«Proprio come quando battiamo il tempo con il piede a ritmo di musica, così l’uomo o gli uccelli parlano o cantano senza incespicare. Questa è l’origine del linguaggio. Tutti gli animali esposti ad un apprendimento vocale ricorrono a questo sistema per formare ritmi in assenza di parole, contrariamente a quello che fanno «discenti» privi di apprendimento vocale come gli scimpanzé. Gli scimpanzé possono fare ricorso alle parole, ma non hanno ritmo e non dispongono di un «collante». In assenza di quest’ultimo ingrediente, pertanto, non possono sviluppare il linguaggio in quanto incapaci di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare un vero linguaggio occorrono parole, ritmo e un «collante». In questa prospettiva, la vera essenza della specie umana si è caratterizzata attraverso il canto e le parole, ovvero con l’Opera. Ma gli italiani lo sapevano già da tempo!».

Alla base del linguaggio umano c'è il canto degli uccelli, di Milly Barba, «L'Unità», 07.03.13


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