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24 marzo 2014

Werner Bischof – After the War

«Jede Begegnung mit dem Tod muss bezahlt werden»
Da Reporter als Kampfgenossen – Ingrid Kolb


Berlin, 1946 ©
 La sagoma del Reichstag sventrato naviga sullo sfondo di una Berlino divenuta spettrale cornice della distruzione.

Desideriamo tornare su un tema che ci appassiona molto, ossia il fotoreportage dalle zone di guerra. Abbiamo già avuto modo di spendere qualche parola sull’ascesa della fotografia nel corso del Novecento quale supporto di straordinaria efficacia per raccontare la storia ma anche e soprattutto come strumento in grado di sollecitare, come mai prima, una riflessione attorno a eventi di portata così devastante, quali ad esempio le due guerre mondiali.
È proprio con la Grande Guerra che il documento fotografico conosce un’inedita affermazione. Molti furono infatti gli ufficiali che partirono per il fronte con tanto di macchina portatile al seguito. I loro scatti segnarono una decisiva svolta nell’utilizzo dell’immagine, che venne allora svincolandosi dalle sue funzioni tecnico-scientifiche, e si impose come mezzo narrativo di sconvolgente immediatezza.
Il documento fotografico avrebbe dunque contribuito a sviluppare un importante dibattito sulle atrocità commesse nei territori di guerra e, preservando la memoria di fatti che per la prima volta con tanta veemenza scuotevano le coscienze, a creare un ampio fronte di consapevolezza verso tali avvenimenti.


Brandenburger Tor, Berlin, 1946 ©

Warsaw, 1948 ©

Werner Bischof (Zurigo, 1916 – Perù, 1954) è uno dei nomi di maggior rilievo a livello internazionale nel campo del fotoreportage del dopoguerra. Dal 1932 al 1936 studia alla Scuola di arti applicate di Zurigo con il fotografo Hans Finsler legato al movimento Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit). In un primo tempo, quindi,  percorrendo con grande precisione e perfezione la strada della fotografia realistica e di moda. Qualcosa di simile agli inizi di carriera di molti autori, (ad esempio August Sander, del quale abbiamo parlato) incentrati sulla ritrattistica, il che consentiva di esercitarsi avendo garantiti i proventi necessari a coltivare la professione. Nel 1942 entra a far parte, come collaboratore fisso, della redazione della rivista svizzera «Du» per la quale svolge principalmente l'attività di fotografo di moda. Durante la seconda guerra mondiale non si muove dalla Svizzera. Resiste nell’ “occhio del ciclone”. Quando la tempesta si placa, Bischof si mette in cammino per documentare i disastri della guerra. Parte nel settembre 1945 diretto nella Germania sud-occidentale, nella zona controllata dai francesi, con una bicicletta, zaino, rullino e fotocamera Leica. Nel suo diario annota questo suo primo incontro con la devastazione, dà conto di come in preda allo stordimento barcollasse in mezzo a un paesaggio di rovine, crateri di esplosioni, montagne di mattoni, sotto cui i corpi seguitavano a imputridire. Di questa esperienza chiave in seguito ha scritto: «Poi venne la guerra e da ciò la distruzione della mia torre d’avorio. Il volto dell’umanità sofferente divenne il punto centrale». E lui si trasforma in fotoreporter. Dedicandosi al fotoreportage ha dovuto modificare il suo modo di lavorare – non conta più infatti l'immagine preparata e elaborata in studio, bensì il momento reale, che è impossibile programmare. Dal 1949 inizia a lavorare per la stampa internazionale e entra nel gruppo Magnum.

(Di Claudia Ciardi)


A man looking at the ruined city, Frankfurt, 1946 ©

«Während der sechs Kriegsjahre verließ Bischof die Schweiz kein einziges Mal mehr, blieb, wie sein Vaterland, unversehrt von den kriegerischen Wirren, die ringsherum in Europa tobten. Er harrete aus im Auge des Sturms. Als dieser sich gelegt hatte, brach Bischof auf. Im September 1945 fuhr er – mit Fahrad, Rucksack, einer Rollei und einer Leica – nach Südwestdeutschland, in die französisch besetzte Zone. Im Tagebuch notierte er, dies sei seine erste Begegnung mit der vollkommenen Verwüstung. Wie benommen taumelte er durch eine Landschaft aus Ruinen, Bombenkratern, Bergen von Backsteinen, unter denen noch immer Leichen rotteten. Später schrieb er über dieses Schlüsserlebnis: «Dann kam der Krieg und damit die Zerstörung meines “Elfenbeinturms”. Das Gesicht des leidenden Menschen wurde zum Mittelpunkt». Er wurde zum Reportagefotografen. Die Nähe zur Malerei und die künstlerischen Kompositionen, mit denen Bischof sich als Werbefotograf einen Name gemacht hatte, blieben auch für seine journalistischen Bilder stilbildend: In ihnen zeigt sich ein außergewöhnlicher Instinkt für Augenblicke, in denen die Zeit innezuhalten scheint. Viele der Fotos, auch traurige, auch tragische, sind von kontemplativer Schönheit. Manche, wie das des halbzerstörten Berliner Reichstags, vor dessen in Nebel gehüllter Silhouette ein Soldatenhelm und die Sonne sich im Wasser einer Pfütze spiegeln, wirken wie aufwendig arrangierte Stillleben, in denen sich Licht, Schatten, Formen, Proportionen zu einem durchkomponierten Ganzen verdichten».

Abstract from Wunden der Welt – Der zweite Weltkrieg, Zeitenspiegel-Reportageschule, Günther Dahl


A mother breastfeeding her child, Bonn ©
Bibliography:

After the war

Werner Bischof, Werner Adalbert Bischof
Smithsonian Institution Press, 1997 - 39 pagine


Smithsonian Institution Press is pleased to join Motta Fotografia, one of Europe's foremost publishers of photography, in presenting a series showcasing the work of postwar masters. Each book includes more than forty duotone or color images and represents an original approach to a particular theme by one of the century's finest documentary or fine-art photographers.This extraordinary portrait of Europe's slow emergence from the rubble of World War ll documents in luminous images Werner Bischof's travels through Germany France, Hungary, Greece, and Italy during a time of profound transition in both countryside and city.

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Questions To My Father: A Tribute to Werner Bischof

Werner Bischof, Marco Bischof (Werner's son)
Phaidon Press, 2004 - 160 pagine

In 1916, with the Great War reducing northern Europe to a treeless, shattered void, a boy was born to the prosperous director of a pharmaceutical firm in Zurich. He was named Werner. It was not an auspicious time to be born and, indeed, his mother died soon after. As a child, young Werner sought order in his life by dissecting snails and photographing, in the limpid light of his creation, the elegant whorls revealed. He did not become the physical training instructor his father wanted him to be. He did not become the painter he had once wanted to be in Paris in 1939, on the brink of another devastating conflict. He became Werner Bischof, the man, and a photographer of incalculable artistry who found in both order and the chaos he confronted and experienced a sublime beauty, a humanity that was singularly his own. His photographs of a post-war Europe in poverty and despair expressed infinite hope for the human condtion, yet he was only 29. Less than 10 years later he was dead, leaving behind among his last photographs that of a Peruvian child playing his flute on the edge of a ravine. It is now an iconic photograph with a fatal allure. Bischof himself died when his jeep plunged over a ravine in the Andes on a quest for the faces, the lives, of harmony there. Fifty years later his son Marco has gathered together 70 previously unpublished photographs by Werner Bischof. They powerfully reiterate the man his father was, the nature of his humanity and his search for a benign and beautiful cognisance of the brief and terrifying world he lived in.

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Wunden der Welt - Ferite del mondo
Zeitenspiegel-Reportageschule, Günther Dahl und Magnum Photos

Da una guerra all’altra, cambiano i luoghi e le persone ma la miseria umana si ripete e la riflessione che ne scaturisce è sempre la stessa: di fronte alla violenza, nessun argine tiene. Gli uomini che si aggirano in queste prese ci inchiodano senza scampo alle contraddizioni del Novecento, secolo del progresso scientifico, delle grandi ratifiche in materia di diritti e ambiente, e al contempo fabbrica di sconvolgenti catastrofi.


Portrait
Werner Bischof - offizielle Website

Magnum Photos - Portfolio

18 marzo 2014

Prova d'orchestra




Titolo: Prova d'orchestra
Un film di Federico Fellini
Con Clara Colosimo, Umberto Zuanelli, Balduin Baas, Giovanni Javarone, Claudio Ciocca
Genere: Commedia
Durata: 70 min.
Italia, 1979



Un auditorium settecentesco dentro un convento sconsacrato. Dell’antico prestigio non vi è più alcuna traccia. Un gruppo di orchestrali raccogliticcio e caciarone si aggira tra arredi impolverati e mura pericolanti. Minacciato da una ristrutturazione dell’organico, il sodalizio umano e strumentale comincia a steccare e l'architettura vacilla. A ristabilire l’armonia ci prova un direttore d’orchestra tedesco che, di fronte alle difficoltà del compito, si mette a ricordare i tempi in cui tra maestro e musicisti c’era un rapporto profondamente empatico.
La situazione produce una clamorosa stonatura. Sregolatezza e indisciplina regnano sovrane e fan da cornice a scene di gruppo, in un crescendo da bolgia dei diseredati. Ogni suonatore sta aggrappato al proprio strumento come a un relitto e, qualche istante prima del naufragio, affida a poche confuse battute l’esperienza di una vita. Quando l’anziano custode chiama il maestro per riprendere le prove, il caos si è ormai sostituito all’ordine. Al buio, scortato da un traballante candeliere, il maestro entra in un salone completamente messo a soqquadro, dove la furia del baccanale è ormai all'apice. Tra volti spiritati, mentre risuonano colpi sempre più cupi e l’intonaco cade, ricoprendo tutto di una polvere sottile e inarrestabile, al grido di «a morte il direttore», fa il suo ingresso un gigantesco metronomo, feticcio che scandisce il 'nuovo ritmo' attraverso cui s’intende sostituire l’autorità umana. Ma neppure questo tempo artificialmente ed estemporaneamente ricomposto è destinato a durare. Una sfera enorme, surreale rappresentazione di una pendola che irrompe sulla scena come un ariete, abbatte le pareti della sala e mette fine al disordine, frantumando e disperdendo il tempo soggettivo della rivolta. Attoniti e ammutoliti gli orchestrali brancolano in mezzo alle macerie in cerca dei loro strumenti. Il momentaneo vuoto di potere e lo stordimento causato dalla distruzione permettono al direttore di recuperare la propria posizione dominante. «Voi siete musicisti e siete qui per suonare». Tutto ricomincia nella convinzione che ognuno debba onorare il proprio ruolo se non si vogliono creare strappi violenti, e quindi lo sfaldamento dell’intera collettività.
Eterno dilemma dell’uomo: ribellarsi o aggrapparsi alle risicate e spesso illusorie sicurezze con cui chi lo governa tenta da sempre di adescarlo? In questa geniale e attualissima “prova” felliniana ci sono tutti gli ingredienti di una allegoria sociale che dal teatro antico al rinascimento, fino all’esperienza delle moderne dittature, non ha mai smesso di interrogarci.


(Di Claudia Ciardi, dicembre 2011)




Related links:

Fondazione Federico Fellini - Prova d'orchestra

Fellini's Society Rehearsal - Orchestra Rehearsal Reconsidered

12 marzo 2014

La grande illusione




Un film di Jean Renoir. Con Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo, Marcel Dalio
Titolo originale: La grande illusion 
Genere: drammatico
Durata: 113'
Francia, 1937

«Da una parte ragazzi che giocano a fare i soldati, dall’altra soldati che giocano come ragazzi». Affacciati a una finestra che guarda sul cortile delle esercitazioni in un campo di prigionia in Germania, le voci dei soldati francesi s’insinuano a fatica nel rumore assordante della marcia delle giovani reclute tedesche. Jean Renoir rappresenta la prima guerra mondiale ma nulla o quasi di quel che accade in prima linea entra nel racconto. La sua è una guerra che si fa strada attraverso i bollettini affissi alle pareti del campo o si lascia interpretare nei gesti e nelle espressioni dei sorveglianti, la cui quotidianità scorre en face con quella dei prigionieri. Guerra di logoramento, dunque, non solo per chi è immerso nel fango delle trincee, ma anche per coloro che da troppo tempo se ne stanno rinchiusi, lontani dalla casa e dagli affetti. Nel frattempo si attinge a ogni risorsa per provare a evadere. Più che altro con la mente. Per una ragione o per l’altra qualsiasi tentativo di fuga infatti non tarda a rivelarsi inutile, e i prigionieri finiscono sempre per ritrovarsi attorno a un tavolo con la loro impotenza e tutta la stanchezza che il protrarsi degli eventi comporta. In questo perenne, a tratti perfino comico, inseguimento di ruoli degno del più riuscito "guardie e ladri", è racchiuso il fortissimo desiderio di normalità provato da tutti i protagonisti. Ogni trasgressione del regolamento apre delle crepe in cui affiora con prepotenza la voglia di tornare a essere uomini. La ribellione è principalmente nei confronti di ciò che tiene distanti gli uomini l’uno dall’altro. Di scene da incorniciare ve ne sono molte, e l’interpretazione di Jean Gabin (Maréchal), un gigante nel ruolo del pilota ferito che le prova tutte finché, insieme a un compagno, non gli riesce di scappare dalla fortezza in cui lo hanno confinato, è un contributo rilevante al capolavoro. L’aspetto ludico attraversa per intero il film, culminando nel concerto di flauti e pentole, orchestrato da un maestro d’eccezione, il capitano De Boëldieu, che vuole dare al suo buon Maréchal un’ultima possibilità per chiuderla una volta per tutte con la prigionia. La danza tra i costoni del perimetro del castello, nella quale De Boëldieu si esibisce, suonando il flauto davanti ai suoi carcerieri, è la metafora della fine di un mondo. Quando il direttore della fortezza, che con il capitano ha un rapporto di profondo rispetto, perché a lui lo accomuna l’appartenenza a quell’aristocrazia ormai avviata al tramonto, si vede costretto a sparargli, il colpo che esce dalla sua pistola è come se uccidesse anche lui. 
Prima di cadere esanime, De Boëldieu guarda un istante l’orologio: certezza che la fuga è riuscita, volontà di stabilire l’attimo della propria fine. Il corpo che si accascia nel buio è l’istante in cui la realtà, la tragedia che si consuma fuori, entra nel forzato isolamento dei soldati. Quella pallottola che squarcia la notte ricorda che nulla è accaduto per gioco.   
La grande illusione è un film sulla pace. Il titolo non sorprende: quanto a illusioni la prima guerra mondiale ne ha seppellite parecchie. Il conflitto secondo Renoir ha un volto grottesco, gli uomini sono principalmente prigionieri di se stessi, delle tante aberrazioni grandi e piccole che il tempo così sospeso, estromesso dal vivere di tutti i giorni, comporta. Con una scelta narrativa volutamente arretrata rispetto ai campi di battaglia, il regista illumina da una prospettiva fino a allora inedita l’amara ribalta della Grande Guerra. Va in parallelo, viene da dire in perfetta sintonia col messaggio dell’opera, la storia travagliata della sua conservazione. Premiato alla Mostra di Venezia del ’37, il film lascia freddi Hitler e Mussolini. Quest’ultimo pensa bene di vietarne la diffusione in Italia: ci vorranno dieci anni perché la censura fascista decada. Intanto i primi venti di guerra prendono forza sul continente. Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi (giugno del ’40), le bobine scompaiono dal laboratorio parigino che le custodiva per riapparire a Berlino. Niente di preciso si sa riguardo questa operazione: l’unico dato certo è che non deve essere stata semplice, perché parliamo di almeno quaranta casse di materiali. Ma l’odissea di Renoir non è affatto conclusa. Entrati a Berlino i sovietici si impadroniscono delle casse che migrano a Mosca. Non se ne saprà più nulla fino alla metà degli anni Sessanta, quando il ritorno del film in Francia viene barattato per un episodio di James Bond. Restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2011, ne è finalmente riemerso in tutto il suo splendore narrativo. Quando è stato girato, è chiaro che nessuno poteva immaginare un destino così difficile e tanto profondamente legato alle lacerazioni continentali. Di fatto a ovest come a est l’impegno di Renoir contro la guerra sembra aver incantato anche coloro che, prigionieri dell’ideologia dei due blocchi, non se la sono sentita di distruggerlo.

(Di Claudia Ciardi)




In questo blog:

«L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta».

«Un libro passato forse senza troppo clamore nelle librerie italiane ma su cui vale la pena riaccendere l'attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l'autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

«Cinque frammenti che ci consegnano uno spaccato di vita di un grande interprete della Mitteleuropa. Un flâneur che con passo lucido e originale ha esplorato ambienti e ossessioni della propria epoca, a partire da una deflagrazione drammatica occorsa lungo il suo cammino: l’esperienza del primo conflitto mondiale».

Naufragio di guerra #0:
«Le aspettative legate all’ingresso in guerra dell’Italia furono spazzate via dall’alto tributo di sangue versato dalla nazione (5.200.000 gli italiani arruolati, di cui 650.000 i caduti). Le dodici battaglie sull’Isonzo (qui, sui due fronti, si contarono 250.000 morti e 100.000 dispersi, cioè tre volte Hiroshima) non passarono senza conseguenze, gettando discredito sul comando e le alte cariche dell’esercito. Ne scaturirono inchieste e strascichi polemici che si protrassero fino al ’25, l’anno della vergognosa ‘riabilitazione’, quando Mussolini nominò Cadorna maresciallo d’Italia».



6 marzo 2014

Oh Boy - Un caffè a Berlino




Oh Boy - Un caffè a Berlino 

di Jan Ole Gerster
Germania, 2012, 83’
Cast: Tom Schilling (als Niko Fischer), Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schuttler, Justus Von Dohnanyi, Andreas Schröders, Arnd Klawitter, Martin Brambach, Frederick Lau, Ulrich Noethen, Michael Gwisdek
Fotografia: Philipp Kirsamer
Montaggio: Anja Siemens
Produzione: Schiwago Film, Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk (HR)
Distribuzione: Academy Two


Esordio alla regia per Jan Ole Gerster che presenta un film brillante, leggero solo all’apparenza, disegnato in un bianco e nero asciutto e pulitissimo, dal quale lo sguardo dello spettatore si sente immediatamente catturato. Dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti in patria (ben sei Premi Lola, gli Oscar tedeschi, nel 2013), la pellicola ha trovato un riscontro più che positivo anche tra il pubblico italiano. Gerster si inserisce a pieno titolo tra i grandi narratori della metropoli da Walter Ruttmann, Friedrich Murnau, Fritz Lang, Karl Freund ai contemporanei Wim Wenders e Hannes Stöhr.
Una Berlino straniante, personaggio statuario e immenso, fa da contraltare alla voce del protagonista Niko Fischer, ex studente di giurisprudenza in crisi di identità, inguaribile perdigiorno che non riesce a darsi alcun obiettivo. La macchina da presa nelle mani di Gerster si trasforma in uno scandaglio che va pizzicando miserie e nobiltà della metropoli, pauroso specchio che invece di riflettere contorce, dea bistrata preposta al rito di una sconvolgente quanto esatta autoanalisi.
A partire dal documentario di Ruttmann del 1927, malinconico epos per immagini di quei “dorati anni Venti” scossi in realtà da innumerevoli contraddizioni e difficoltà, Berlino è il fulcro rappresentativo di una urbanitas letteraria la cui origine Joseph Roth fissa proprio nel confronto tra l’immaginario degli scrittori ebrei tedeschi e la realtà della capitale.
Questo film spinge sui tasti della flânerie, unendo agli espedienti tonali del vagabondaggio in strada, l’esplorazione di uomini e donne in cui il carattere della città ha creato bizzarre forme di adattamento, tutte connotate da una patologica insicurezza, una esasperata propensione al fraintendimento dell’altro e all’errore. In questo mulinare di nevrosi grandi e piccole, si può a momenti perfino compatire l’inadatto Niko Fischer. Attraverso i suoi occhi, ci si sveglia in una ordinaria giornata berlinese. Tempo di mollare la ragazza e accendersi una sigaretta nel tostapane di un appartamento, dove si ammassano soltanto scatoloni, gli eventi prendono subito una piega storta. Dopo aver mentito per due anni filati al padre, Niko si trova ad affrontare un genitore che, informato sui fatti, gli volta le spalle senza troppi giri di parole. Mentre procede nel viaggio, ma sarebbe più corretto dire, mentre il protagonista avanza verso se stesso, la spirale di incontri assume connotati sempre più paradossali.
A scandire i suoi brevi istanti di lucidità, il puro e semplice desiderio di farsi servire un caffè che però non arriva. L’impresa infatti si rivela più difficile del previsto, e proprio attorno a questa ricerca sempre più disperatamente allucinata che procede per un intero giorno, incontrando infine la notte della metropoli, con il suo fosco underground di periferia popolato da comparse erratiche e deliranti, prende campo la metamorfosi del protagonista. L’architettura delle stazioni ferroviarie –  luoghi di passaggio, labirinti nel labirinto dell’esistenza – ne veglia il procedere da una meta all’altra, che naturalmente non va secondo un cammino lineare ma avviene in un casuale accostamento di pretesti, i quali alla fine raggiungono un punto critico, spingendolo fuori dall’improvvido e grottesco girovagare. In questi scatti dall’alto, tra binari, scale, pensiline s’intravede una Berlino al rallentatore, molto più pacata e addirittura scarsamente frequentata di come è in realtà. O meglio, vi sono in effetti degli angoli della metropoli in cui ogni presenza pare ritrarsi come un’insolita marea. Gerster lavora esattamente su questi attimi in cui Berlino espira, restando immobile e senza contrazioni. Dalla finestra di casa, Niko osserva il treno, apparizione monitrice del tempo, richiamo al livello della strada, alla discesa nella realtà e quindi, alle scelte che non potranno più essere rimandate. Nessun appiglio si offre per sperare in un riscatto. Niente da fare, Niko non sa andare in fondo alle cose. Nell’angosciante trascinarsi quotidiano mette a segno solo due colpi: un buon tiro al golf, di fronte a un padre in vena di umiliarlo, e una fuga che lo salva da una contravvenzione per non aver timbrato il biglietto. Ma si tratta per l’appunto di due rivincite assolutamente stonate.
L’agognato caffè arriverà in un’alba solitaria, triste e allo stesso tempo liberatoria. La sequenza del risveglio della città è tra le cose più notevoli del film; angoli di strada ancora semideserti, cantieri incustoditi, ammiccanti lanterne che si avviano a spengersi, grattacieli che non suscitano inquietudine ma sprigionano una forza per certi versi rassicurante: la fotografia è essenziale, di un lirismo trascinante proprio per la grazia minimalista che la ispira. Il regista stacca velocemente da una parte all’altra, tentando una rappresentazione corale del respiro della grande città, in cerca di quell’unisono che percorre tutto il racconto e che qui, nell’attimo incantato e ancora incorrotto del nuovo giorno, alla fine riesce a affiorare.  
Niko trema di fronte alla tazza che gli è stata servita. Ha appena saputo della morte del suo ultimo compagno di strada, un vecchio saggio, e forse clochard, un santo bevitore incontrato nel cuore della notte, di cui si trova a ascoltare controvoglia i ricordi di un’infanzia berlinese tutt’altro che serena. Epilogo zen. Si esce dalla notte, gettandosi alle spalle un bel po’ di male di vivere e cortocircuiti generazionali, si prova a far pace coi pensieri e con quel buio insopportabile che viene dal dentro più che dal fuori, si prova a imboccare una strada, pur nel dissacrante rovesciamento del vivere contemporaneo.

(Di Claudia Ciardi)


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Arri-Kino/ film

Artechok/ Kritik

Mymovies

Berlin calling – La Recherche/ Icaro a Berlino. Tra catabasi e poesia di Claudia Ciardi




In questo blog:

Stemma di Berlino:
«Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui lo scrittore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile».

«Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino».

«Opera del ’74, in questo film Wenders si cimenta in una narrazione doppia. Da una parte c’è il viaggio dei protagonisti che è tuttavia un divagare senza meta, il quale, invece di apportare un progresso, produce perdita e alienazione; dall’altra c’è una scrittura che affiora proprio dalle immagini del movimento di cose e persone, rivelando specularmente la sagoma più intimista del racconto. Falso movimento è l’ars poetica di Wenders, il lavoro dove con la maggiore incisività viene formulata la domanda di fondo che percorre l’intera sua produzione, ossia come possa la tecnica cinematografica definire la falsità caratteriale che ispira il movimento cinema. Ritmicità quasi ossessiva, quella con cui i mezzi di spostamento e comunicazione sono rappresentati sulla scena, già peraltro fotografati nel ruvido espressionismo della metropoli contemporanea in Alice nelle città».