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28 giugno 2014

Ritratto di guerra


Gino Filippi, disperso nella Grande Guerra 

Con non poca emozione scelgo di pubblicare oggi, nella ricorrenza dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico – evento che ha gettato l’Europa nel marasma del primo conflitto mondiale – il ritratto di Gino Filippi, zio della mia nonna paterna disperso nella Grande Guerra. 
Si tratta di un grande ritratto in seppia, le cui dimensioni qui sono state notevolmente ridotte per consentirne una più agevole riproduzione, davanti al quale mi era capitato di scambiare diverse riflessioni qualche anno fa insieme alla nonna, prima che morisse nel 2009. Questo ragazzo affascinante e generoso era infatti il fratello di sua madre Elba Filippi, nata a Marciana Marina, comune elbano con cui la famiglia, pur dopo il precoce trasferimento a Pisa, ha mantenuto un legame duraturo. Serbo ancora le cartoline della donna scritte nel corso delle sue trasferte con inchiostro rapido e leggero, messaggi quasi scaraventati sulla terraferma, che a mio parere tradiscono non poco del distaccato orgoglio di chi vanta l’abbraccio assoluto del mare nei propri natali.     
Mia nonna ha sempre chiamato affettuosamente Gino “lo zio”. Dalla parola traspariva una la fede confidenziale che si esprime nella devozione per gli antenati, pur non avendolo lei mai conosciuto. Gino, infatti, fu reclutato come mitragliere e partì per il fronte nel ’18: apparteneva al 42° fanteria (il numero del reggimento di appartenenza lo si può leggere sul cappello) ed era un ragazzo del ’99. Talvolta questi soldati mi hanno accompagnata nelle mattine in cui a piedi raggiungevo il liceo: sopravvissuti alla guerra, gli ultimi sono morti quasi centenni. Così in un manifesto capitava di leggere, tra parentesi sotto il nome, “ragazzo del ’99”. Allora un misto di vaghi ricordi scolastici e familiari risaliva in me, lasciandomi nient’altro che un’idea piuttosto confusa di eventi percepiti ormai come lontanissimi, ma dai quali si levava uno strano rumore di fondo, la persistente ossessione della memoria storica che in qualche modo reclamava un suo spazio.     
Sono sicura che la nonna sarebbe stata felice della mia decisione di condividere il ritratto dello zio con il progetto di digitalizzazione promosso da Europeana. Questa operazione, alla quale pensavo già da tempo, è potuta andare in porto un paio di mesi fa, grazie al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa (luogo anche questo di memorie familiari, avendo mio padre trascorso l’infanzia in una delle case storiche del vicino vicolo Lanfranchi). Il laboratorio e l’ottimo personale che vi ha operato in rappresentanza di Europeana, mostrando peraltro la massima attenzione verso materiali e ricordi a questi legati, mi hanno permesso di salvare e donare un pezzo importante della mia storia familiare.
Desidero infine soffermarmi sulla realizzazione del ritratto, un dettaglio di non poco conto che ho avuto modo di notare solo recentemente. Per motivi che qui sarebbe noioso elencare, un paio di anni fa o forse tre, ho avuto necessità di studiare alcune testimonianze relative alle conseguenze fisiche e psicologiche sulla popolazione del bombardamento di Pisa del 31 agosto ’43. Oltre ad alcuni interessantissimi dossier che raccolgono le voci dei sopravvissuti, mi venne proposto di dare un’occhiata all’archivio fotografico Cerri-Cenni. Questo fondo, custodito presso la Biblioteca Comunale di Pisa e che si può consultare solo in sede, dietro un permesso richiesto alla sezione locale – almeno questa era la procedura quando me ne occupai – sposta le lancette dell’orologio sulla città devastata. Si tratta infatti di prese realizzate nei mesi successivi alla catastrofe – ricordiamo che nella drammatica circostanza si incendiò il tetto del Camposanto monumentale in Duomo, con danni irreparabili all’interno del monumento e la perdita quasi totale degli affreschi di Buffalmacco, opere d’arte assolute, tra le più grandi di tutti i tempi nella storia della nostra pittura. Perché questa apparente divagazione? In quell’occasione mi è rimasto impresso il nome dello studio fotografico pisano Cerri, che per quasi mezzo secolo ha operato in città, legando tante memorie individuali ai drammi della guerra. 
Ebbene se si guarda in fondo a destra nel ritratto di Gino, si legge distintamente il nome del fotografo G. Cerri, cui faceva capo l’importante atelier. La famiglia dunque volle che il proprio ragazzo, estremamente demoralizzato dalla chiamata alle armi, questo il racconto che mi è stato trasmesso sui concitati momenti della partenza per il fronte, venisse celebrato attraverso una fotografia il meno stereotipata possibile. Il ritratto di guerra ossia la foto del soldato spedita a casa dal fronte si inaugurò a Sedan, da lì in poi affermandosi come vero e proprio fenomeno di costume. In questo caso, scegliendo uno studio privato si volle cercare forse di scacciare il pensiero della guerra, di strappare questo bel ragazzo in uniforme a una dimensione che gli imponeva il sacrificio della sua giovinezza e, come purtroppo è accaduto, della vita, anche magari a livello inconscio col proposito di ricordarcelo tutti così, in uno sforzo di normalità, nell’ultimo istante domestico che gli rimaneva tra i suoi e la sua città, prima di andarsene.  

(Di Claudia Ciardi)


Da Poesie disperse
di Giuseppe Ungaretti

Bisbigli di singhiozzi
Sagrado il 27 novembre 1916

Mi tornano
transitando
per i canneti titubanti
lungo la strada
scorticata
sul dorso della solitudine
le parole
delle anime perse

e finiscono di smorzarsi
in quelle ondate
di masso
alleggerito dal buio
che accovacciato
all’orlo del cielo
viscido
come una maiolica
incide
una bocca affilata
di baratro.


Poesia
Sagrado il 28 novembre 1916

I giorni e le notti
suonano
in questi miei nervi
di arpa

vivo di questa gioia
malata di universo
e soffro
di non saperla
accendere
nelle mie parole.


Tepida vaga mattina
Bulciano il 22 agosto 1917


Abbarbagliati
risvegli
sfiorenti
in vetrato
cupolio


Alba
Versa il 15 febbraio 1917

Zampilli
di matasse radiose
spioventi
in masse sinuose
di perle


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In questo blog:

Naufragio di guerra #0

Naufragio di guerra #1

La grande illusione

Related links:

All our yesterdays. Le rassegne di Europeana. Da Palazzo Lanfranchi a tutte le altre iniziative.

Europeana.eu

Digital meets Culture. Il lavoro svolto da Promoter

19 giugno 2014

Botanischer Garten


Bahnhof Botanischer Garten (detail)

Un cappello finito chissà quando al bordo della ferrovia. Un ampio elegante cappello da donna, la grande tesa ondulata, si abbandona per alcuni attimi ai capricci del vento. Uno strano animale di paglia che trema come fosse vivo. A vederlo così in mezzo all’erba della massicciata ci si augura che da un momento all’altro possa sollevarsi e scomparire da quel desolato luogo d’esilio. Ma nulla del genere avviene. Dopo un paio di guizzi ricade nel suo abbandono. Questa presenza e il lamento di un uccello rifugiato da qualche parte dentro la macchia mi accolgono alla stazione dell’orto botanico. Tra i suoi binari si è subito fatta largo un’ombra di poesia; è come se un fiotto caldo e vertiginoso sgorgasse da me all’esterno. Ed è per questa partecipazione del corpo a cose ignote, alle quali perciò ci si sente ancor più devoti, che ho il chiaro presentimento di trovarmi, sì, in un luogo, ma anche su una sponda aggiunta alla mia irresolutezza con cui volentieri m’incontro.
Diverse volte ho partecipato qui alla collisione di gente e di oggetti, tanto più spontanea quanto chi l’osserva vi si mostra per sua natura arrendevole. E in mezzo a tali e altre eresie io mi aggiro credendo di stringere il pendolo delle mie giornate. Ma ogni certezza che per poco abbia abitato i miei pensieri si è sempre velocemente dissolta, un’attrazione infida ha mischiato verità e finzione, beffandomi.
Eppure so che non tutto è perso. Anche al Botanischer Garten ho avuto la mia conferma. Sono bastati un maldestro viaggiatore e l’inconfessabile augurio che ovunque mi trovi a camminare le fantasie di qualcuno sfiorino le mie.
Alla sosta del treno, mentre il solito uccello della selva scandiva il suo poema, e già questa voce mi attraeva a una dimora di misteriose grotte e benevoli incantesimi, un ossuto vagabondo ha fatto capolino dal vagone, trascinando con sé una bizzarra bicicletta che era forse anche la sua casa. La sagoma del telaio infatti soccombeva al monte delle cianfrusaglie che vi erano issate, e quell’instabile carretto dava l’impressione di cedere da un momento all’altro. Sulla banchina ci siamo scambiati uno sguardo, pochi istanti tra sconcerto e reciproca approvazione. Appena avuta la riprova che ero anch’io a mio modo una nomade, come se il suo ronzino smaniasse di mostrarsene riconoscente, ecco improvviso lo schianto. Un attimo, e i ninnoli strappati ad avverse contrade giacevano a terra, amuleti di una semina meravigliosa. Non ho seguito i movimenti dell’uomo, solo notai che gli si era raccolta in viso un’aria di dispetto, simile a una pioggerella che tuttavia non basta a far cambiare il tempo.
Prima che le porte del treno si richiudessero, già avvertivo nella schiena il respiro delle betulle, insieme al segreto delle sue creature – allora finalmente mi appartenevano – ma più ancora era sorta in me una fulminea complicità davanti alla quale mi sono arresa, essendo al cospetto di una rivelazione.

(Di Claudia Ciardi)




Segnalazione:

Sul nuovo numero della rivista «Incroci» un inedito di Joseph Roth, 
Lo sconosciuto clown di Barcellona. Con un saggio di Claudia Ciardi.
A cura di Claudia Ciardi, Katharina Majer e Via del Vento edizioni



11 giugno 2014

Luciano Canfora - 1914


«Quando si tratta di stati di coscienza collettivi, in particolare, lo studio sperimentale è praticamente inconcepibile. […] Ma ecco che in questi ultimi anni si è verificata una sorta di vasto esperimento naturale. Si ha il diritto, infatti, di considerare come tale la guerra europea: un immenso esperimento di psicologia sociale d’una ricchezza inaudita. Le nuove condizioni di vita, con un carattere così inusitato, con particolarità così caratteristiche, in cui tanti uomini si sono trovati all’improvviso gettati – la forza singolare dei sentimenti che agitarono i popoli e le armate – tutto questo sconvolgimento della vita sociale e, se si ha l’ardire di usare queste parole, questo ispessimento dei suoi tratti, come attraverso una lente potente, devono, pare, consentire all’osservatore di cogliere senza troppa fatica i legami essenziali fra i differenti fenomeni. Certo egli non può, come in un esperimento nel senso ordinario del termine, far variare egli stesso i fenomeni, per meglio conoscere i rapporti che li uniscono; cos’importa se sono i fatti stessi che mostrano queste variazioni, e con quale ampiezza! Ora, fra tutte le questioni di psicologia sociale che gli avvenimenti di questi ultimi tempi possono aiutare a delucidare, quelle che si ricollegano alla falsa notizia sono in primo piano. Le notizie false! Per quattro anni e più, ovunque, in tutti i paesi, al fronte come nelle retrovie, le si vide nascere e pullulare; esse turbavano gli animi talora sovreccitando e tal altra abbattendo gli ardori; la loro varietà, la loro bizzarria, la loro forza stupiscono ancora chiunque abbia buona memoria e si rammenti d’aver creduto».

Marc Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra 
(1921)




Libro uscito nel 2006, l’editore palermitano Sellerio ripropone in nuova veste, per il centenario della Grande Guerra, l’analisi dedicata da Luciano Canfora agli eventi confluiti in quella straordinaria e tragica deflagrazione che fu il 1914. Il titolo intende sollevare la questione dell’inganno delle cronologie con cui si suole enucleare la complessità delle trame storiche.
Il ’14 dunque, termine convenzionalmente epocale su cui si concentrarono molte aspettative e perciò anche violente rotture, è l’oggetto di questo scavo attorno all’anno, esposto in una prosa chiara e diretta, unita a un serrato excursus di fatti e fenomenologie, l’esistenza dei quali nelle società europee di fine Ottocento ha un peso enorme per i successivi sviluppi.  
In queste pagine trovano spazio elementi di politica interna ed estera dei paesi contendenti, incursioni nei relativi interessi coloniali, riflessioni di psicologia sociale applicate alle organizzazioni partitiche del continente e ai comportamenti dell’elettorato prima del conflitto.
Non sorprenderà che il tono accattivante utilizzato da Canfora ci faccia dimenticare di avere tra le mani un saggio e ci trasporti piuttosto nella ricca intelaiatura di un racconto. Aggiungo che se di gusto della lettura si può parlare, intendendo quel desiderio di riprendere in mano un libro appena si prospetti qualche momento libero, confesso di essere tornata a provarlo, dopo diverso tempo, proprio con quest’opera.
A dare avvio alla narrazione è l’interrogativo su come gli accadimenti vadano periodizzati, antico dilemma, che mai ha fatto dormire sonni tranquilli agli storici. Nel caso della collocazione della prima guerra mondiale sull’asse cronologico, l’autore innanzitutto seleziona un segmento alquanto esteso che va da Sedan (1870), con la lunga tregua che si instaura tra Germania e Francia, e arriva fino alla seconda guerra mondiale. E qui il lettore inizia a rendersi conto che dovrà abbandonare non poche delle convinzioni ereditate dallo studio scolastico. I quaranta anni della cosiddetta pace, seguita alla disfatta francese, sono assai più problematici di quanto si sia in genere portati a pensare. Molti attriti covano sotto le ceneri, i cui esiti più vistosi si collocano fuori dal continente, nella lotta per le colonie. Una spartizione in cui la Germania si inserirà più goffamente delle nazioni rivali, Inghilterra e Francia, sentendosi perciò chiamata a una crescente aggressività per raggiungere i propri obiettivi. In tale contesa anche l’Italia non starà a guardare, creando focolai di instabilità nel Mediterraneo che risulteranno fatali al mantenimento degli equilibri. La guerra è un brutto affare di interessi nazionali che vanno calpestandosi e ingarbugliandosi sempre più, e la sua lunga durata non sorprende, se si considera in che modo il vantaggio dei singoli Stati sia venuto ad anteporsi a una soluzione dei problemi collettivamente ragionata. Ma lo storico si spinge anche oltre, dimostrandoci che le cose non finirono nel ’18. Si può piuttosto affermare, tornando ai dubbi sulla periodizzazione dei quali dicevamo, che vi è stata un’unica guerra, di cui quelle che noi indichiamo come prima e seconda rappresentano due fasi. Del resto, i vent’anni che separano lo scoppio dei due conflitti sono caratterizzati da un difficile ritorno alla normalità, e gli atteggiamenti assunti ‘nel corso dell’emergenza’ sono solo parzialmente riassorbiti: autoritarismo e militarismo si insediano al governo, spalancando le porte a indirizzi conservatori e al rafforzamento delle ideologie nazionaliste. In Germania, simili lacerazioni sono ancor più visibili. La Repubblica di Weimar è uccisa sul nascere da una vera e propria congiura reazionaria in cui si ritrovano tutte le personalità più retrograde del paese. La debolezza economica, la frustrazione derivante dai debiti di guerra sotto il cui peso dilagava la disoccupazione, le falle aperte nel partito socialista che da prima della guerra non avrebbe più avuto l’occasione di riorganizzarsi quale forza in grado di mutare gli assetti in campo, hanno fatto il resto. Ma da queste problematiche era affetta l’intera Europa. Perciò lo studioso parla di un’unica grande crisi i cui prodromi erano già scritti assai prima dell’attentato di Sarajevo e le cui soluzioni tarderanno a venire, passando per un altro, per molti versi ancor più atroce, evento bellico. Istituisce allo scopo un interessante paragone con la lunghissima guerra peloponnesiaca che logorò la Grecia per trent’anni, innescandone un processo di decadenza che fu la premessa della conquista macedone. All’origine della guerra vi fu la rivalità tra Atene e Sparta, entrambe impegnate fin dagli inizi del V secolo a. C. a consolidare le rispettive zone di potere nell’Egeo. Saltata la pace del 446, con la quale Sparta si era disposta al riconoscimento della lega delio-attica, si creò una serie inarrestabile di circostanze. Si potrebbe definire questa storia una guerra imperialista ante litteram, dai risvolti non meno esiziali, pagata a caro prezzo in primo luogo da Atene, che assistette alla distruzione della propria flotta, insieme alle mura del porto, e all’imposizione di un governo di oligarchi particolarmente intransigente. Fine di una grande città ma anche della Grecia classica. Le rivalità interne infatti non si sopirono più. Tebe, da sempre insofferente all’alleanza con Sparta, che esercitava sulla città un forte controllo, all’indomani della fine della guerra del Peloponneso si industriò per la conquista della propria autonomia, riuscendo perfino a imporsi quale potenza egemone per un breve periodo (371-362 a.C.).
Questo secolo di grandi guerre interne all’antica Grecia, per quanto tali situazioni siano lontanissime e profondamente diverse dalle dinamiche della nostra contemporaneità, resta comunque un termine di paragone affascinante per capire l’evolversi e il degenerare dei rapporti tra élites dirigenziali, gruppi di pressione orbitanti intorno ai centri di potere e forze da essi schierate.
Tornando alla guerra scoppiata nel ’14, proprio alla perversione dei poteri in campo e alla mistificazione delle coscienze, Canfora dedica un’ampia parte della sua opera. Un ruolo rilevantissimo ebbero infatti le varie propagande interne impegnate a dipingere il nemico secondo clichés consolidati. Ne scaturì una libellistica di guerra, rozza e approssimata, che ha visto in grande spolvero ad esempio il tema dello scontro tra barbarie tedesca e civiltà latina. A ciò si aggiunga l’enorme e incontrollabile fabbrica delle false notizie di guerra, leggende nate al fronte, riprese e ingigantite dalla gente, che nel corso della Grande Guerra conobbero un’inaspettata fioritura, oggetto di un magistrale studio sull’immaginario collettivo da parte di Marc Bloch.
Nella bieca ed egoistica difesa del vantaggio nazionale, andò perso il vero interesse collettivo, la pace, che avrebbe salvato molto più di quanto era stato messo sul piatto dell’interventismo.
Quando il maresciallo Hindenburg nel ’17, in concomitanza con la spaccatura del partito socialista, divenne presidente del Vaterlandspartei, grande formazione reazionaria di massa, il cui statuto era il perseguimento ad ogni costo degli obiettivi di guerra annessionistici, la storia aveva già preso una piega che paleserà i suoi più foschi risvolti appena alcuni anni dopo. «La leggenda del colpo di pugnale», altro effetto propagandistico maturato dalla guerra, e che avrà non a caso tra i suoi assertori proprio lo stesso Hindenburg, ferirà a morte la fragile esperienza weimariana e con essa la speranza del vecchio continente di recuperare una normalità all’insegna di rinnovati poteri democratici e progressisti.

(Di Claudia Ciardi)


      Sfogliando il libro        

4 giugno 2014

Un Finnegans cinese: hoax o limae labor?


Finnegans Wake nasce a Londra il 4 maggio 1939, presso l’editore Faber and Faber. Negli anni ’60, in Italia, pubblicato nella Medusa di Mondadori è ritenuto un’opera assolutamente incomprensibile e intraducibile. Dice Luigi Schenoni, scomparso il 22 settembre 2008, indimenticato e geniale traduttore, che proprio in quel tempo iniziava ad avvicinarsi alla proteiforme creazione joyciana: «La mia curiosità fu stuzzicata già da allora e quando riuscii ad avere fra le mani una copia dell’originale cominciai a sondarlo qua e là, chiedendomi se fosse davvero impossibile trasportarlo in un’altra lingua mantenendone le caratteristiche. […] Poi, dopo una quindicina d’anni, verso il 1974 presi la decisione di provare a iniziare la trasposizione di Finnegans Wake, e cominciai a cimentarmi inviando qualche campione a una rivista americana, il «James Joyce Quarterly».
Nel 1982, centenario della nascita di Joyce, comparve il primo volume della traduzione, i capitoli I-IV del primo libro. Altri quattro capitoli del primo libro hanno visto la luce nel 2001 e nel 2004 è uscito il terzo volume con i primi due capitoli del libro II. Opera di cesello e, per chi ha un’idea dell’originale, comprensibilmente estesa nel tempo.




Leggere della traduzione cinese di Finnegans Wake mi ha divertita molto. Ecco, mi sono detta, l’eredità di Joyce, ma in qualche misura anche il lavoro pionieristico del nostro Schenoni, che negli anni ’70 mise mano a quella da lui definita la “ricreazione” dell’opera del grande narratore irlandese, hanno contaminato pure gli orientali. Il tarlo della corposcrittura, della «fisiologia smisurata» – si tratta di formule memorabili coniate dalla lezione critica di Giuliano Gramigna – che perfora linguaggio e architetture del Finnegans, facendoli letteralmente accartocciare su se stessi, non poteva non attecchire nell’universo degli ideogrammi. Quale poi sia stato il criterio seguito dalla traduttrice, Dai Congrong, per “estrapolare” la sua versione in mandarino se lo chiede anche Sheng Yun, insegnante di scienze sociali a Shanghai e autrice per la «London Review of Books» dell’articolo di presentazione dello ‘strano caso’ del Joyce cinese. A dire il vero non si tratta affatto di un’opera prima. Già gli scrittori e traduttori Wen Jieruo e Xiao Quian, uniti nella vita e nella comune passione per le lettere, avevano portato a compimento l’impegnativa traduzione dell’Ulisse, uscito nel 1994. Lavoro tuttavia condotto non sull’edizione inglese ma sulla versione giapponese, e dunque affetto per così dire da una clandestinità intellettuale, cosa rilevata dalla signora Yun non senza un intento polemico. Il suo pezzo infatti dispensa qua e là strali all’indirizzo di certa viziosità accademica cinese (ma anche altrove non si scherza!) e di un lobbismo letterario che lascia a dir poco perplessi. Certamente il boccone più amaro toccò a suo tempo a Jin Di che, illuminato dalla fiaccola dello scrupolo filologico, dette una versione dell’Ulisse assai più credibile sotto il profilo del rigore testuale, destinata tuttavia all’eclisse causa i più ampi e solidi addentellati nei salotti letterari dei coniugi Quian.
Insomma i retroscena dai quali prende le mosse la recente avventura editoriale del Finnegans sono ben lontani dagli ozi spirituali delle humanae litterae. Quello che Harold Bloom definì «l’elefante bianco letterario» per ora si presenta in cinese come un mattone di 775 pagine. Parliamo solo di meno della metà del romanzo che ha impegnato la traduttrice per ben otto anni. Il testo finora prodotto supera di parecchio l’intera edizione inglese. Un’arrampicata colossale, tanto che Dai Congrong non si sogna neppure di esporsi sui tempi in cui consegnerà il resto dell’opera.
Al momento si gode il successo. In Cina infatti quest’impresa ha avuto una grandissima risonanza. Nel suo delizioso resoconto Sheng Yun non manca di informare il lettore occidentale sulle stranezze e i tic che dominano il mercato librario nel paese di mezzo. Riguardo il Finnegans si è provveduto a un campagna pubblicitaria martellante con tanto di cartellonistica autostradale e servizi a tappeto nelle principali emittenti televisive. Obiettivo, scalare velocemente le classifiche più blasonate, lanciarsi in un corpo a corpo tra titani del carattere a stampa e conquistare il miglior piazzamento possibile. Insomma un’autentica macchina da guerra di fronte alla quale Mr. Joyce si sarebbe fatto due risate, salvo poi ritradurla nel suo opificio di simboli e profanazioni.
Risultato di tutto questo battage: tredicimila copie vendute. Più che nella trazione joyciana, il successo sta nell’ebbrezza da volantinaggio. La Yun, da sociologa, non ha dubbi.
Eppure, per quanto al centro di così vasto fragore, Finnegans non smetterà di ammaliare proprio in virtù della sua capacità di negarsi. I lettori cinesi, quelli che andranno oltre l’acquisto da sfoggiare sulla mensola di casa, risolvendosi a sfogliare il libro, lo impareranno presto. Faranno esperienza del più mutevole dei libri, un corpo liquido e altrettanto infido che ben incarna la nevrosi che attraversa la forma di romanzo nel Novecento. Se la traduttrice è stata abile, allora può darsi che anche l’Oriente abbia adesso il suo Cavallo di Troia. Al di là delle questioni formali – il Finnegans rappresenta la fine o l’inizio del romanzo – se ne profila, infatti, una assai più dirompente, profondamente impigliata alle esigenze della lingua. Si può anzi dire che mai questione della lingua è stata posta con simile sfrontatezza dalle periferie dell’insubordinazione teorica. Quale sarà l’impatto sulla letteratura cinese, e da qui come rifluirà nella vorticosa corrente delle tante anime creative del mondo? Presto per dirlo. Ma di sicuro i primi segni di scivolamenti multipli nello spazio e nel tempo, tipici del deragliamento che James Joyce ha voluto infliggere alla scrittura, non tarderanno ad annunciarsi.

(Di Claudia Ciardi)



Related links:
Di Gabriele Marino su «Transfinito»

di Rosignagno Solvay, 14 maggio 2004
Su «Transfinito»

Giuliano Gramigna parla del Finnegans. Per tutti i joyciani devoti alla "corposcrittura" di questo straordinario romanzo rimandiamo agli importanti contributi apparsi nel tempo sulla rivista «Testuale critica». Qui alcuni stralci nello "Speciale James Joyce" di «Alfabeta 2», marzo 2017

Un mio abbozzo di scrittura del 2010, prendendo le mosse dal Finnegans
«Fabula fluit. Corpi letterari e geografie fluviali»
Due prove di riscrittura a partire dal Finnegans
Slum pastiche I (Urlo bianco)
Slum pastiche II