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31 luglio 2014

Date le circostanze




Una volta, in un negozio di cianfrusaglie a Pescara, una vecchia cinese mi convinse a comprare una lunga gonna azzurra con delle balze di velluto che incorniciavano la stoffa, ravvivandola. A dire il vero, persuadermi non le costò un grande sforzo. Ho un debole per l’azzurro, e l’interesse per l’indumento si sommava all’unicità della circostanza. Girovagavo da due ore buone in certe vie laterali, dove il tempo pare depositarsi sui muri con maggiore fiducia che il suo tocco sia notato dal passante, e proprio là in fondo, da qualche parte, trovai la venditrice. Ricordo perfettamente la vetrata vuota con la gonna esposta al centro come una reliquia, e la luce opaca che stazionava in quel posto, una strana luce sospesa a mezz’aria. Fuori stava forse per piovere. La mano della cinese svolazzò sopra il bancone, a quell’ora in quell’atmosfera da sartoria dei poveri, il suo gesto fu come un imperativo al quale non mi potei sottrarre. Non so come, la gonna scese dal mezzo busto che avrebbe voluto imitare un manichino, e così spogliato, improvvisamente a disagio, quel trespolo sembrò sul punto di sbottare ora con me ora con la sua risoluta padrona. Per un attimo, tutta la vetrina fu in subbuglio, l’intera bottega parve affannarsi dietro il bel drappo che cambiava tetto. Non era una perdita indifferente né ebbi il coraggio di voltarmi per vedere cosa venisse in sua sostituzione. Un regno finiva, un altro iniziava. Anche per me sarebbe andata così, ma allora capitava che mi affidassi solo a quella vaga aspettativa su cui le cose scivolavano senza far trapelare nulla o quasi delle loro reali intenzioni con me. La gonna non è che l’abbia indossata così tanto, ma questo a modo suo rientrava nei patti. Comprarla aveva più che altro il senso di una necessità, avrebbe salvato l’istante in cui il luogo cercava di farsi ricordo, di assicurarsi la devozione della sua visitatrice.
Questo atto nato da un solitario pomeriggio pescarese, non ha di certo inaugurato la mia inclinazione per la bizzarria degli abiti e perfino per alcuni travestimenti. Ho sempre accordato volentieri a stoffe, vesti, maschere, copricapi buona parte delle mie simpatie, ovunque mi trovi a passeggiare, e più ancora so di averne destinate ai loro custodi, in genere donne e uomini lunatici, poco avvezzi alla compagnia.
Ricordo di essermi letteralmente beata a guardare una berlinese allo Spittelmarkt provarsi e riprovarsi un cappotto nero, un vecchio capo sicuramente usato, stretto in vita, con grandi bottoni disposti su due file, finemente ricamati sul petto; quel banco di robivecchi, dove il proprietario con grazia di altri tempi si faceva prontamente specchio, assecondando i leziosi movimenti delle clienti, mi suggerì una timida idea di femminilità sfuggita per miracolo alle sale adamantine di boutique al neon. E ricordo alla perfezione con quale stupore, in una calda estate della mia città, mi sono trovata davanti a un banco pieno zeppo di colbacchi. Sarebbero bastati per qualche memorabile pagina di Gogol’, mentre erano venuti a spiaggiarsi in un’assolata città, che nulla aveva in comune con gli inverni pietroburghesi. Era più o meno il tempo dei “russi”, la gente chiamava così i mercatari dell’est Europa che per qualche stagione si riversarono nelle strade del sud, col proposito di dar vita a un piccolo commercio e garantirsi modesti guadagni, dopo anni di isolamento dall’altro lato del muro. Si tiravano dietro orologi, radio portatili, torce, marchingegni e attrezzi di ogni tipo, e l’andirivieni di tali carovane, sotto i loggiati del centro e anche sulle vie del litorale, non durò poco. Mi accadde con mio padre di trattare il prezzo di una lente, e quando l’affare fu sul punto di concludersi, il tizio della bancarella, con un’espressione alquanto enigmatica, mi allungò una moneta d’argento con l’effigie dell’imperatrice dei Boxer – ma a quell’età non avevo la più pallida idea di chi o cosa rappresentasse. Era una gran bella moneta, disse che me l’avrebbe data per poche lire in più e io non ci pensai un attimo a intascarla. Mio padre non fece parola, limitandosi ad assecondare la mia decisione. Quando però mi spiegò la storia, trasalii. Quel venditore aveva inteso burlarsi di me? Il mio primo incontro con la Cina fu dunque in un improvvisato mercatino di città, attraverso le mani di un “russo” che era più probabilmente un polacco, che mi vendette la moneta di una sanguinaria. Caspita. Forse è anche per questo che in seguito, quando ho avuto a che fare con delle cinesi, fossero commesse di un negozio, cuoche gentili che mi mettevano sul tavolo un anellino o un portafortuna, pazienti in fila dal mio medico, e perfino nelle lettere che da universitaria scambiavo con una studentessa di Wuhan, mi ha sempre colta la sensazione di trovarmi davanti delle agguerrite visionarie, e le loro fugaci apparizioni hanno finito per accrescermi questo sconcerto. Tutta colpa di un polacco che ha voluto giocare con me a testa o croce.
Per carnevale invece andavo da una matta che viveva in uno sgabuzzino dietro una delle piazze del centro. Mia madre mi sgridava ma entrare lì mi serviva, sì “mi serviva”, era proprio quello che le dicevo, e puntualmente sentivo la voce alzarsi e inseguirmi sulle scale. Le mie caviglie però erano più veloci, mi buttavo giù a capofitto e in un baleno ero dentro quel terribile bugigattolo, dove la puzza di umidità albergava senza rimedio e i vestiti si davano manforte a moltiplicare sotto ogni aspetto il fastidio e l’inquietudine. Questa tizia, appartenente a un anarchico e assai creativo meticciato pisano, razza ormai quasi del tutto scomparsa, a febbraio noleggiava costumi e il resto dell’anno lo passava a cercarli. Non riesco proprio a capire come tirasse avanti. Dopo alcune spedizioni andate a vuoto, ci trovai anch’io il mio indumento, e la pratica del noleggio nelle mani di questa anarchica divenne una volteggiante cerimonia, senza capo né coda. Mi rifilò un biglietto che andò subito perso, era bellissimo vedere come si sforzava di dare ufficialità alla cosa senza riuscirci. “Allora ricordatelo”, fu il massimo della puntualità con cui mi congedò. Quel posto nella mia fantasia contava assai più di qualcosa, ed era ancor più prezioso per un motivo che ho capito dopo, crescendo. Dimostrava che sopravvivere si poteva, eccome, che ci si poteva salvare e anche redimere, rivendicando il proprio nome a se stessi, tenendo fede a un carattere indocile, furioso se vogliamo, se quello che ci costringe è sbagliato se il prezzo che comporta ci rende uguali e irrimediabilmente perduti.
È stata poi la volta di un fantasma. Esattamente, un fantasma. Per un po’ ho cambiato città, conosciuto nuove persone, e in questo via vai la sorte mi ha regalato uno dei suoi cenni più bizzarri; sulle prime pensavo si trattasse di un’altra burla ma la costanza con cui questa sagoma bianca mi ha fatto visita, mi ha costretta ad accantonare l’idea. Già al mio arrivo – era di novembre, una domenica – la donna con indosso un lenzuolo mi è guizzata al fianco, il viso coperto di biacca, tra le mani un piattino per le elemosine. La sua presenza è rifluita in me come l’acqua di un temporale nelle grondaie delle case; da quando ci siamo incrociate, l’ho sentita uguale al morbido tamburellare che fa la pioggia, quando è vicina a smettere. L’ho avvistata poi tante altre volte, e nessuna mi è mai rimasta indifferente, per il mio umore, l’ora, la situazione.
Ultimamente penso però che si sia messa addirittura a seguirmi. Ma questo sarebbe troppo, o magari potrebbeanche  essere. La verità è che non sono sicura sia lei. Mi pare ben strano, non ha mai osato tanto, la sua distanza è ciò che me l’ha resa superba. E lei lo sa. Ora che è sulle mie tracce, ho quasi l’impressione che mi abbia tradita. Sentirla parlare è stata una tortura. No, tu non puoi parlare. Ma se parla, significa che è arrivato il momento di passare le consegne. Ha ragione, non ne potrà più di star dietro alle mie contraddizioni. In fin dei conti ha adempiuto magnificamente ai suoi compiti. Non ho da rimproverarle nulla.
E date le circostanze, desidero che la cosa faccia il suo corso.

(Testo e foto di Claudia Ciardi)



26 luglio 2014

Golem Stories - Sammy Harkham


Sammy Harkham, poco più che trentenne, è un autore di rilievo sulla scena del fumetto indipendente americano. Sfogliando la raccolta Golem Stories, pubblicata in Italia nell’estate 2013 da Coconino Press di Bologna, si comprendono tutto il suo talento e, dunque, le ragioni di una precoce affermazione. 
Ma prima di farmi prendere la mano dalle sue strisce, voglio dedicare qualche riga a un piccolo chiarimento ad uso dei lettori, che forse con una certa incredulità si staranno chiedendo perché mai abbia deciso di parlare di un libro a fumetti, e se questo non rappresenti una deviazione rispetto agli argomenti di cui sono solita occuparmi. La passione per il fumetto d’autore risale a prima della mia adolescenza. All’esame di maturità ricordo di aver messo a punto un’ottima terapia anti-stress grazie alla lettura quotidiana di qualche episodio di Schulz. Questo metodo l’ho poi girato ad altri studenti più giovani, che mi chiedevano come gestire le energie in fase di ripasso e quale fosse il modo migliore per staccare, lasciando riposare la mente, ma senza deconcentrarsi troppo. Schulz, a quanto mi hanno riferito in seguito, fu un successo.
Del resto, chi non ha sperimentato in viaggio o alla vigilia di qualche impegno o dopo una giornata piuttosto faticosa, la gioia di isolarsi per un po’ in compagnia delle sue storie preferite, lasciandosi letteralmente trasportare dal susseguirsi dei disegni? Dunque, questo potrebbe già essere un motivo sufficiente a giustificare la mia scelta. Tuttavia, in caso non sembrasse bastante, ve ne è anche uno più letterario. I racconti a fumetti firmati da grandi autori, e Harkham rientra a pieno titolo tra questi, sono né più né meno dei pezzi d’arte, al pari di quadri o romanzi, cui un’epoca generalmente affida il suo messaggio e anche il proprio colore. In anni recenti, il genio di non pochi maestri delle tavole illustrate ha incrementato la considerazione verso tali opere; Neil Gaiman e i volumi della serie Sandman, Art Spiegelman, Hugo Pratt – La favola di Venezia resta per me un vertice della narrativa contemporanea – la poesia di Jirō Taniguchi che oppone i suoi battiti di china alla frenesia del mondo.
Vi è infine un tratto specifico dell’opera di Harkham, esploratore delle periferie e delle solitudini umane, che non può sottrarsi ai miei interessi. Attraverso la predilezione da lui accordata ai margini e agli stati d’animo che vi si rivelano, segue le tracce di ciò che si potrebbe definire la resistenza degli ultimi, di quanti, pur in balìa delle proprie debolezze e dell’emarginazione che la realtà cinicamente riserva loro, vanno avanti. In simili situazioni limite la mano del disegnatore raccoglie scintille di poesia. Pochi istanti di grazia sottratti a una quotidianità che calpesta e stravolge ogni cosa.
I suoi protagonisti sono per lo più figure di alienati, erose dalle difficoltà della vita. Ma non si negano neppure i personaggi storici, con cui la matita di Harkham gioca a inventare scene spiazzanti. Qui, ad esempio, ci troviamo davanti a un Napoleone che, smessi i panni di condottiero, trascorre il tempo libero disegnando fumetti. Ma perfino in battaglia, l’unico assillo è la buona riuscita dei suoi schizzi su carta. Nel colophon invece, a venirci incontro è un Kafka alla prese con una affittacamere e con certi inquietanti sospetti sul suo nuovo alloggio. Si scoprirà che la stanza è infestata: un mostro occupa la credenza e a Kafka, al centro di una situazione kafkiana, non resta che darsela a gambe.
Poi c’è l’ironia yiddish che l’autore riserva alle stranezze della vita, rovesciando le convenzioni dell’ebraismo, come in Elisha e Lubavitch – Ucraina, 1876. In particolare la storia ambientata nella comunità ebraica di un villaggio ucraino mette in risalto la difficoltà di attenersi ai precetti del rabbi, a fronte dei bisogni materiali dettati dall’esistenza, in un angolo di mondo sempre minacciato e sul punto di disgregarsi. Tra gli episodi meglio costruiti vi è senz’altro la ballata dei pirati, Poor Sailor, adattamento di Maupassant, dove il protagonista lascia la moglie in cerca di fortuna per concludere la sua avventura nel modo peggiore.E non mancano certo frecciate all’indirizzo di bassezze e perversioni borghesi, incarnate dal protagonista di The New Yorker Story, professore in carriera che non affronta i problemi della figlia, tradisce regolarmente la moglie con appuntamenti clandestini in motel e quando lo sfiora il pensiero di dire un “ti amo” alla sua amante, l’idea muore prima ancora che abbia preso una ingestibile consistenza. Tutto nel prof. Ogden è calcolo e disprezzo per il prossimo, mentre si affanna a pubblicare qualcosa sul prestigioso «The New Yorker» e trama contro i colleghi per sbancare la concorrenza. Tipico esemplare dell’ipocrita fatto e vestito da capo a piedi, attento a non incappare in nulla che possa mettere a soqquadro il ridicolo equilibrio nel quale va barcamenandosi.
Quello del capovolgimento delle sorti è un chiodo fisso, saldamente piantato nella penna di Harkham, che non vi rinuncia in nessuno dei suoi racconti. In mezzo al libro si aggira un Golem sonnolento, immerso nella foresta tropicale, che pare farsi custode del tempo della narrazione. La versione italiana di questa raccolta, ottimamente presentata da Coconino Press, permette di assaporare molte delle sfaccettature di Harkham, artista a tutto tondo dalla vivace vena creativa, in grado di adattare il segno grafico alle atmosfere. Ecco come ce lo descrive il «Vice Magazine»: «Harkham è un grandissimo fumettista. E ha fondato Kramers Ergot, la migliore antologia di comics indipendenti al mondo». Per un ragazzo che disegna e pubblica con successo in questo settore dall’età di quattordici anni, cioè da quando si è trasferito a Sydney con la famiglia, prima di tornare a Los Angeles, sua città natale, non si può dire che siano complimenti esagerati.

(Di Claudia Ciardi)



Related links
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Justindiecomics

Golem Stories su Lo spaziobianco.it – di Ettore Gabrielli 

Slowcomix – articolo di Alessio Bilotta

Letture consigliate:

Luigi Bairo, Praga, il Golem e altri Demoni  – Stampa Alternativa





16 luglio 2014

L'espressionismo secondo Viani


Lorenzo Viani, Nero d'avorio
A cura di Fabrizio Zollo,
«I quaderni di Via del Vento»
Via del Vento edizioni, 2014




Lorenzo Viani è uno dei grandi nomi dell’arte italiana del Novecento. Nato a Viareggio nel 1882, il padre, che in passato faceva il pastore, è all’epoca inserviente presso la villa di Don Carlos di Borbone. Nella modesta casa della darsena vecchia in cui i Viani abitano, il ragazzo cresce insofferente alla disciplina e abbandona la scuola prestissimo, quando è appena in terza elementare. Questo rifiuto più o meno aperto della società borghese e delle sue regole, gli resterà per tutta la vita, influendo chiaramente sul suo percorso artistico. Mentre ancora adolescente è apprendista barbiere, incontra alcune personalità di spicco del panorama culturale di allora, quali Leonida Bissolati, Plinio Nomellini, Giacomo Puccini e Gabriele D’Annunzio. Qualche anno dopo inizia a frequentare i corsi all’Istituto di Belle Arti di Lucca e alla Scuola di Nudo dell’Accademia di Firenze, questi ultimi tenuti da Giovanni Fattori. Tra il 1906 e il 1907, affitta un locale a Torre del Lago, dove avrà occasione di frequenti contatti con Puccini, quindi entra a far parte del cenacolo «Repubblica d’Apua», insieme al poeta genovese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, suo fondatore, a Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti. È tuttavia del 1908 l’esperienza che gli cambia la vita: l’incontro con Parigi dove, seppur fugacemente – cosa della quale si pentirà in seguito, scrivendone nelle sue memorie – visita una retrospettiva dedicata a van Gogh. La consonanza che sente con queste opere è immediata. Viani infatti, fin dai suoi primi tentativi, è un espressionista e lo è in una maniera così totale e matura, che non si può restare sbalorditi, se si considera che non aveva nessun contatto col movimento tedesco, e che pure le figure cosiddette proto-espressioniste (Ensor, Munch, van Gogh, Gauguin) a eccezione del pittore fiammingo, non gli erano affatto note. In non pochi casi, e non diciamo un’eresia, i disegni di Viani al paragone con certi studi di Munch su soggetti simili, risultano persino superiori, meglio compiuti dal punto di vista della tecnica d’esecuzione. Ciò che fa di Viani una personalità del tutto peculiare nell’arte italiana del primo Novecento è esattamente la devozione totale alla sintassi espressionista, non solo in pittura ma anche nelle sue numerose e pregevoli opere letterarie. La lingua di Viani è senza orpelli, non si avvita nei compiacimenti teorici, va diretta a incidere la materia, esattamente come nelle sue realizzazioni grafiche si preoccupa di iscrivere i soggetti in linee “essenziali, conclusive”. A lungo collaboratore del «Corriere della Sera», la sua prosa, pur di matrice altrettanto espressionista quanto i suoi quadri, sviluppa esiti personalissimi, premiati dal successo di pubblico. Ma è soprattutto nelle tracciature a china o a matita, nella semplice e vivida alternanza del bianco e del nero, in cui sono inquadrate le sue sobrie e visionarie costruzioni, che si gustano a pieno l’originalità e il profondo lavoro di scavo alla radice del linguaggio dell’arte. Non è un caso che più volte, all’interno delle proprie riflessioni, dichiari un’ammirazione senza riserve per “i nostri primitivi”, intendendo con ciò i padri fondatori della pittura medievale e moderna (i bizantini, i pittori dei crocifissi lignei – ad es. i cosiddetti crocifissi blu dei maestri umbri – Duccio di Boninsegna, Buffalmacco, Giotto), tacciati di ingenuità da educatori grossolani quanto impreparati, e perciò oggetto di disprezzo.

Di questa asciuttezza e forza del segno, che viene proprio dalla lezione dei “primitivi”, sono prova anche i pensieri qui raccolti, ai quali l’artista affida tutta la sua sensibilità, tutto il suo bagaglio di vita, di uomo della strada divenuto viandante, che provava una singolare affinità con gli emarginati di ogni colore e latitudine, che ha fatto la fame a Parigi, occupato stanzoni freddi e privi di illuminazione, pur di ritagliare uno spazio unico alle proprie idee e provare a dar loro una forma. Se dopo la nomina a socio del Salon d’Automne a Parigi (1909), Viani fosse riuscito a stabilirsi nella metropoli, o almeno a spendervi nel tempo dei periodi gradualmente più lunghi, intrattenendo contatti più fitti con l’entourage avanguardista che allora vi si era installato, è probabile che il suo nome nella storia dell’arte apparirebbe più saldamente legato alla cronaca e, dunque, alle attenzioni degli specialisti. Purtroppo, certe scelte dipendono assai poco dalla volontà e sono invece spesso frutto del caso, di incontri, sodalizi, opportunità e molte altre imperscrutabili circostanze che possono come non possono presentarsi, facendo così la differenza, anche nel corso della carriera di un artista.

(Di Claudia Ciardi)


Da Pensieri sull’arte 

«Il dispregio e la benevola compassione di cui erano gratificati i nostri primitivi, che rimarranno la più alta e nobile espressione della pittura, ha fatto sì che abbiamo perso, per molto tempo, il concetto informatore, che ogni artista deve avere, per continuare rinnovando l’opera di coloro che ci sono stati maestri».

[…]

«Tutti gli spiriti grandi sono umili. L’arte è una cosa troppo terribile perché l’uomo possa alzare la fronte verso di lei con orgoglio e superbia.
Il soffio divino del suo spirito percorre il nostro cuore quando essa vuole. Gli orgogliosi i protervi non sono mai beneficiati dalle sue grazie».

[…]

«Certi quadri italiani antichi potrebbero servire come modelli per costruire una città. La solennità di certe croci è tale come quella di una torre di pietra: gli uomini, maree dense di alberi robusti, i loro panneggiamenti ampi e sobri, facciate di case spettacolari.
In tutto vi ispira una solennità di luce, forte come l’ultima luce del sole sulla primavera luminosa. “Dipingere poco e riflettere molto”».

[…]

«Dovendo il quadro rappresentare la solidità profonda delle cose, il pittore deve tenere in grande onore il “nero d’avorio” il più intenso, come l’elemento più concreto della tavolozza.
Non so concepire che in nero le travature del quadro. Gli altri colori sono la luce del sole che rallegra le impalcature di un edificio poderoso».

[…]

«Tutti i grandi pittori sono stati sobri nei colori e misurati. Tutti i grandi hanno pensato tanto, così hanno superato la consueta pittura, gioco di luce su solidità di forme. Essi, i grandi, si sono compenetrati nei legamenti essenziali della visione. Hanno scortecciato della luce le cose, per vedere di sotto, la concatenazione fondamentale degli elementi costitutivi del tutto; ci hanno rivelato delle costruzioni musicali, ci hanno rivelato che sotto il cobalto, il verde, il rosa, il celeste, c’è ferma e potente una cosa architettata e complicata. Solo ai grandi è concesso vedere il lavoro armonico e solido della natura. […] La natura ama i poeti e i generosi. Solo a loro si concede tutta, tutta, tutta».


Lorenzo Viani, Il folle

6 luglio 2014

Klimt a Milano




Milano rilancia il grande evento organizzato al Belvedere di Vienna nel 2012 con una rassegna di notevole interesse che riaccende l’attenzione sulla pittura di Gustav Klimt ma che ha soprattutto il merito di restituire una visione d’insieme dello spazio entro il quale operarono gli artisti della Secessione.
Giunta quasi al termine, la mostra milanese offre ottimi spunti per approfondire il complesso rapporto tra politica e cultura nell’impero asburgico alla svolta del XX secolo. Ampio risalto è dato, non a caso, agli esordi della carriera di Klimt, dai dissesti economici attraversati dalla sua affollata famiglia a seguito della crisi finanziaria del 1873, agli anni di apprendistato presso la Kunstgewerbschule che porteranno alla fondazione della Compagnia degli Artisti (1881). Questi inizi sono preziosi per capire in che modo si sia sviluppato lo stile klimtiano e soprattutto quali stimoli avesse ricevuto dall’ambiente che lo circondava. La scuola di arti e mestieri ci viene restituita come un luogo in cui era possibile imparare il disegno accademico e diverse tecniche di lavorazione dei materiali in maniera approfondita. Un bagaglio notevole e completo che testimonia alla lettera l’immersione nell’arte di un esteso gruppo di nuove leve del panorama creativo austriaco. Klimt s’impose all’attenzione del pubblico per una tela sul Burgtheater di Vienna, realizzata nel 1888 e nella quale sono riprodotti fedelmente i volti di ben centotrenta suoi assidui frequentatori. Ciò gli valse anche la definizione di virtuoso del ritratto. Grande indagatore della femminilità, a fronte di una produzione pittorica non così estesa – in tutto duecento tele – si contano migliaia di disegni dove Klimt registra le pose languide e disinibite delle modelle che vivacchiavano liberamente nel suo studio. Come Rodin, anche lui disegnava il contorno dei corpi senza distogliere gli occhi dai soggetti, attribuendovi principalmente valore di studio e di esercizio distensivo.
Il sodalizio col fratello Ernst (destinato a una precoce scomparsa a soli ventinove anni nel 1892) e il compagno di studi Franz Matsch fu alla base della Künstlercompagnie, attiva per quasi dodici anni, al centro di committenze importanti che approdarono alla decorazione di edifici pubblici. L’impero affidò il suo messaggio sovranazionale alla costruzione e al rinnovamento dei teatri nelle sue province, e il gruppo ottenne incarichi a Bucarest, Karlsbad, Fiume, Reichenberg. In seguito alla morte di Ernst, la tutela della giovanissima nipote, avuta con Helene Flöge, passò a Gustav. Venne dunque profilandosi una crisi per l’artista, che oltre alla perdita del fratello, appena pochi mesi prima aveva dovuto fare i conti anche con quella del padre. Col 1893 l’esperienza della Compagnia fu archiviata, proprio mentre era in discussione l’incarico per i cosiddetti “dipinti della facoltà”; la Commissione artistica del Ministero per il culto e l’istruzione, in una seduta del 15 gennaio 1892, aveva ventilato la possibilità di affidare la decorazione del soffitto dell’Aula Magna dell’Università a Matsch e ai fratelli Klimt.
Nel frattempo i contatti con Emilie Flöge, sorella di Helene, sporadici in un primo tempo divennero sempre più assidui. Gustav conosceva Emilie già nel 1891, come attesta un suo pastello in cui la ritrae diciottenne, fatto montare in una cornice dorata dipinta con fiori di ciliegio. È probabile che i Klimt avessero invitato contemporaneamente le due sorelle a posare per loro. L’affascinante Emilie fu la donna della vita di Klimt. I due coltivarono un rapporto estremamente libero, senza contrarre matrimonio, cosa che per i tempi non mancò di suscitare un certo scalpore. Creativa e indipendente la Flöge aprì nel 1904 a Vienna un atelier di alta moda in linea con le tendenze artistiche più innovative.
Andato in porto l’incarico per affrescare il soffitto dell’Aula Magna all’Università di Vienna sulla Ringstrasse (1894), Klimt iniziò a lavorare al ciclo pittorico che avrebbe dovuto rappresentare le quattro facoltà classiche delle università europee: filosofia, medicina, giurisprudenza, a lui affidate, e teologia assegnata a Matsch. Nel corso dell’elaborazione di questi pannelli allegorici Klimt maturò il distacco dallo storicismo per approdare a uno stile personale. Tuttavia, la committenza si rivelò una vera e propria grana con pesanti ricadute sulla carriera dell’artista. Anzi, non è esagerato dire che non si riprese mai del tutto dalle polemiche indirizzate al suo lavoro. Già al momento della prima presentazione, alla settima mostra della Secessione (1900), la Filsofia venne pesantemente criticata, soprattutto dai professori. La cosa si ripeté anche per la Medicina, trovando eco negli organi di stampa. Si è supposto che i contrasti sorti intorno ai due dipinti abbiano spinto Klimt a dipingere la Giurisprudenza in modo ancora più aggressivo. Oggetto del contendere fu non solo il ruolo delle dottrine universitarie nella società, ma anche il senso e lo scopo della sovvenzione dell’arte da parte dello Stato e dell’influenza che ciò poteva avere sulla libertà artistica. Si incrinò così pure il rapporto tra Klimt e Matsch. Quest’ultimo infatti dichiarò in una seduta della Commissione artistica dell’Università (marzo 1905) che non riteneva conveniente accostare i suoi quadri a quelli del collega. Non sorprende dunque che Klimt si ritirò dall’incarico il mese successivo. I toni esacerbati, la scarsa solidarietà ricevuta – uno dei pochi difensori fu Hermann Bahr – l’amarezza per una questione che andò calpestando senza riguardo alcuno l’uomo e l’artista, gli sottrassero molta energia anche per gli anni a venire. Per farsi un’idea dell’accaduto, è utile leggere i testi raccolti da Bahr a testimonianza dell’acredine, pretestuosa e dissennata, che rappresentanti delle istituzioni e più che discutibili esponenti del mondo culturale austriaco, riversarono su Klimt (si veda a tale proposito Polemiche su Klimt, Silvy edizioni, 2012).
La vicenda non poteva avere epilogo peggiore, dal momento che le tre tele destinate all’Università sono andate distrutte nell’incendio del castello di Immendorf (1945), dove erano custodite, durante la seconda guerra mondiale.
Di estremo interesse, all’interno dell’allestimento milanese, è lo spazio dedicato alla ricostruzione del Fregio di Beethoven (1902) cui non furono lesinati attacchi: entrato nel mirino del presunto decoro accademico, la nudità e la rappresentazione allegorica dei mostri rinfocolarono la polemica. Tra le diverse dichiarazioni dell’intellighenzia viennese rilasciate nell’aprile 1902 si legge: «Il realismo con cui allegorizza la voluttà e la lussuria è masturbazione artistica nel più sconsiderato senso del termine e sarebbe stato di certo più adatto per il Panoptikum di Präuscher [Museo delle cere situato al Prater] che come forma di consacrazione per il tempio di Beethoven». Inutile dirlo, con buona pace di questi velenosissimi dottori, ma il fregio è un’opera in cui la lotta vittoriosa del musicista, che non soccombe di fronte alle forze ostili della vita, follia, lussuria, malattia, è espressa con impareggiabile chiarezza iconografica e maturità stilistica. Impossibile non pensare che Klimt, al centro della bufera, non vi abbia riversato anche molto di ciò che stava vivendo sulla sua pelle.
Questo futile attacco frontale al pittore, lo si è detto, ne inaridì la vena creativa, assumendo il ruolo di vero e proprio spartiacque, che molto condizionò gli sviluppi successivi della sua arte. Nel 1906 si dedicò alla preparazione della Kunstschau che si tenne nel 1908-1909, nella quale trovarono spazio i primi fremiti espressionisti nelle opere dei giovani Schiele e Kokoschka. Tra le opere esposte, la Madre con due bambini (1909-’10), è indicativa di una nuova fase in cui Klimt sembra ormai aver chiuso col proprio stile decorativo, prediligendo toni scuri e orientandosi a una figurazione sobria e essenziale, più vicina all’espressionismo.
Nell’analizzare i principali snodi dell’attività klimtiana, la mostra milanese si inserisce a pieno titolo tra gli eventi che meglio ne raccontano l’ascesa all’interno di una società, quella asburgica di inizio Novecento, in preda a non poche contraddizioni e crisi identitarie.
Gli organizzatori rinnovano l’appuntamento per il 2015 sulla Ringstrasse a Vienna.

(Di Claudia Ciardi)


Gustav Klimt al cannocchiale sull’Attersee, 1904 - Fotografia alla gelatina d'argento, montata su cartone

Catalogo:

Gustav Klimt, Alle origini di un mito, Palazzo Reale, Milano, marzo-luglio 2014

In questo blog:

Gustav Klimt - Secession




Bildnis der Mäda Primavesi
, 1912
Ritratto di Mäda Primavesi 



Signora davanti al caminetto
, 1897‐98
Olio su tela, cm 41 x 66. Vienna, Belvedere