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28 ottobre 2014

Intervista a Fabrizio Casari


Fabrizio Casari dirige la testata di informazione online «altrenotizie.org». Giornalista di professione, si occupa principalmente di analisi politica internazionale. Con alcuni colleghi, insieme ai quali ha condiviso esperienze di lavoro sia sulla carta stampata che sul web, ha deciso di fondare un suo spazio, in cui raccontare la notizia in una versione non allineata rispetto ai grandi media. 
Così si legge in un passo tratto dalla presentazione del sito:  
«Il conflitto d'interessi si è risolto con la fine del conflitto e la crescita degli interessi. L'informazione, che dovrebbe controllare, è completamente controllata. È ridotta ad un container di pubblicità ed il governo della famiglia garantisce che l'una e l'altra restino nelle solite mani. In questo panorama rovesciato, in questa generale ipertrofia del nulla, alcuni tentano di dire quello che pensano e di fare quello che dicono».
Ha accettato di parlare con noi di informazione e di Europa, commentando la crescente insofferenza tra governanti e governati, campanello d’allarme sullo stato di salute della democrazia in questo inizio di secolo. Il suo intervento tiene a battesimo la sezione riservata dal nostro blog alle interviste e gliene siamo grati.




In una fase che somma i dati sulla recessione economica a una desolante sterilità del dibattito politico, che cosa significa informare in Italia da una posizione non allineata con i grandi media?

Le due cose sono intimamente legate. La definitiva conquista della politica da parte del sistema finanziario, sia dal punto di vista ideologico con l’assunzione acritica dei postulati dell’ultramonetarismo e delle sue logiche, sia con l’ingaggio diretto - vero e proprio - degli uomini chiave nei posti strategici, ha reso inevitabilmente il dibattito politico tappezzeria allo stato puro. La morte delle ideologie ha comportato la morte delle idee in generale. L’idea stessa della discussione politica, di soluzioni diverse per la crisi socio-economica, prodotto di culture alternative e della prefigurazione di modelli di società diversi, è stata espunta. La dialettica politica, all’oggi, rappresenta un elemento di disturbo ed un potenziale bacino di pericolo per la gestione del consenso. Il mercato della circolazione delle idee, così come lo avevamo concepito durante il Novecento, risulta insopportabile per un modello che, proprio per la sua natura escludente e per la sua articolazione politica in un regime confessionale,  vive solo a condizione della morte del pensiero.

Uno degli elementi su cui si è incardinato il pensiero unico riguarda proprio il controllo militare del mercato della circolazione delle idee. In questo senso il controllo dei media è stato un tassello strategico, al pari di quanto lo sia stato – e tuttora lo sia – il dispositivo finanziario, quello politico e militare ai fini del controllo all’interno e del dominio all’esterno da parte di un modello che è del tutto obsoleto e non più in grado di sviluppare storia in forma progressiva. Un sistema di potere transnazionale che per arginare il suo declino ha bisogno di riaffermare con la forza idee, progetti ed interessi altrimenti difficili da veicolare.

Il controllo dei media ha rappresentato il fulcro di questa ambizione. La fine dell’editoria pura, come un tempo la si chiamava, ha consegnato la proprietà dei media a squali vestiti da tycoon e ad una pattuglia di miliardari che hanno sentito il bisogno di rovesciare il tavolo. Mentre infatti fino alla fine del Novecento gli editori intendevano conquistarsi uno spazio nella società per affermare i loro interessi, condizionare le scelte della politica ed assumere un ruolo di rilievo pubblico, oggi sono piuttosto impegnati a rilanciare voce ed interessi del blocco di potere di cui essi stessi sono parte. Se il 22% del pianeta consuma il 78% delle risorse, il racconto di una democrazia assediata dal terrore è l'unica arma di distrazione di massa possibile affinché quel 78 non chieda il conto al 22.

Sta riprendendo forza la battaglia sull’uscita dall’euro ma nessuno, per ora, sembra intenzionato a spendere qualche parola sull’eventuale dopo euro. Propaganda o volontà vera di svegliare i cittadini (e l’Europa) su un tema caldo?

L’uscita dall’euro può sembrare una soluzione viabile solo ai teorici dell’ottuso, tra i quali Salvini e Grillo. L’euro è, come tutte le monete, uno strumento, non una politica economica. Uscirne rappresenterebbe una tragedia finanziaria senza precedenti, dal momento che la quotazione di una moneta è internazionale e la lira, come la dracma o la peseta sarebbero quotate alla stregua di pezzi di metallo, dato lo stato di salute delle rispettive economie e, in particolare, la dimensione delle riserve in divisa, il rapporto tra deficit e PIL dei rispettivi paesi e la dimensione industriale e finanziaria esposta sull’estero. Dunque bisognerebbe dire che, come minimo, il valore dei depositi dei nostri conti correnti si ridurrebbe del 50-60%. Ma chi lo dice?

Cosa non va in questa Europa? Il progetto comunitario rischia concretamente il naufragio?

Non si può confondere l’idea dell’Europa unita con quella della moneta unica, che solo dovrebbe essere lo strumento monetario di politiche economiche. L’idea di una Europa unita, nacque in primo luogo per contenere all’interno di una responsabilità condivisa e continentale lo strapotere tedesco, per evitare che dopo l’impero di Prussia e il Terzo Reich arrivasse in pochi decenni anche il quarto. Il Manifesto di Ventotene, redatto da Altiero Spinelli, era però non solo questo: raffigurava una Europa a dimensione continentale come terza via tra il capitalismo statunitense e il socialismo reale; pur incardinando il Vecchio Continente all’interno della sfera occidentale e capitalista, il riferimento economico preciso era al Modello Renano, diverso in forma e sostanza dal modello della reaganomics (monetarismo ereditato da Milton Friedman e dai suoi Chicago Boys) che faceva riferimento a Keynes e che riteneva la struttura del welfare state l’elemento regolatore degli squilibri sociali.

Di quel disegno, che oggi sembrerebbe onirico ma che invece al tempo altro non era se non l’eredità della cultura socialdemocratica europea di Mitterrand, Willy Brandt, Olof Palme e Bruno Kreisky, si sono perse le tracce dopo che il turbo monetarismo ultraliberista ha assunto la totale egemonia nelle discipline economiche. Più che uscire dall’euro, quindi, si dovrebbe affrontare il tema del riequilibrio economico dell’Europa, le sue scelte di politica finanziaria e la quota di sovranità che deve o non deve essere ceduta. Allo stesso tempo appare risibile, francamente, che un paese che produce il PIL della Basilicata possa dettare regole e sanzioni a Francia o Italia.

Dunque andrebbero cancellati gli accordi di Maastricht e ricostruita una politica comune europea che veda l’economia, il commercio, la politica estera e la difesa come elementi comuni. Last, but no least, stabilire se l’impero americano, giunto in una fase di declino conclamata, ormai autentico ostacolo ad una idea equilibrata di governance globale, debba esercitare ancora la leadership sull’Occidente, ottenendo così il mantenimento del ruolo dell’Europa sottoposto agli interessi USA (vedi Ttip o embargo alla Russia); o se, invece, gli interessi europei, palesemente divergenti sul piano strategico, debbano trovare una loro rappresentazione politica nell’indipendenza da Washington sotto il profilo economico, politico e militare.

Da professionista dell’informazione, e soprattutto da cittadino, cosa la preoccupa maggiormente nell’incomunicabilità tra amministratori e amministrati? Quale lettura si sente di dare a un fenomeno sempre più esteso?

L’incomunicabilità è figlia della crisi della rappresentanza. La rappresentanza esiste solo per i grandi interessi, mentre per il mondo del lavoro nell'odierna società di massa, alle prese con le difficoltà del vivere, tale strumento fondamentale di espressione e partecipazione risulta cancellato. Da qui la fine della credibilità per una categoria, come i politici, che fanno della loro riperpetuazione ciclica l’Alfa e l’Omega della politica. Se il ceto politico diventa la forma della politica, è perché il censo si è sostituito al protagonismo delle larghe masse.

Le tre grandi scuole di pensiero del “secolo breve” - socialismo, pensiero cattolico e liberalismo - non sono più rappresentate sul piano culturale. I partiti che ne erano stati la diretta espressione sono diventati dei supermercati del consenso, dove le cose comprano la gente. Ma mentre le ultime due ideologie vivono nella carne degli interessi dominanti, della prima si sono perse le tracce, sepolta probabilmente sotto il Muro di Berlino. In realtà, la caduta del Muro doveva essere la data di nascita di un socialismo del terzo millennio, il primo giorno quindi di una storia tutta da costruire; ma l’incapacità di leggere e interpretare i grandi mutamenti sociali intervenuti a seguito della maledetta globalizzazione dei mercati, si sono sommati ad una generale incapacità di proiettare le idealità nell’area del possibile e dell’auspicabile, così che non già gli ideali della Rivoluzione bolscevica, ma quelli (molto più attuali e giusti) della Rivoluzione francese, sono diventati concetti da carta dei baci perugina.

L’egemonia economica e mediatica del capitalismo, che proprio mentre è diventato unipolarismo ha messo a nudo la sua natura escludente e non includente, ha completato l’opera, rendendo il pensiero alternativo una sorta di involucro di sovversione e appropriandosi dei concetti affascinanti che - dall’illuminismo fino alla rivoluzione cubana, dalla vittoria contro il nazifascismo fino alla decolonizzazione - avevano sedotto miliardi di persone. In una generale fiera del paradosso, i termini come Libertà, Uguaglianza, Fraternità, sono stati sequestrati nel generale silenzio dalla destra che, in Italia come in ogni parte del mondo, li ha sempre combattuti. Se persino la sfera della comunicazione alternativa, come lo furono i volantini negli anni ’60 e ’70 sono diventati la comunicazione a terra del BTC (business to consumer) e le forme di ribellione estetica sono diventate moda, si può osservare come nulla sia stato lasciato al caso.

Fare bastian contrario, mentre il governo prova a blindare il suo operato al ritmo di un annuncio al giorno, rischia di essere una posizione impopolare, specialmente se la politica gioca al rilancio promettendo moneta sonante. Perché, secondo lei, è necessario togliere la maschera a troppo facili sponsor?

Perché denudare il re è sempre un piacere inenarrabile. Perché continuo a pensare che il giornalismo sia il cane da guardia del potere, che per riprodursi ha bisogno della menzogna o anche solo dell’opacità. La trasparenza, prima ancora che i codici che lo stesso sistema ‘democratico’ si è dato, risultano ormai insopportabili per le esigenze di controllo sociale ed incompatibili con la cultura elitaria che sottintende la differenza tra governo e comando. Porre domande scomode, rifiutare l’arruolamento nelle file dell’ossequio, rivolgere dubbi impertinenti, non accettare le verità prefabbricate, è il senso unico della professione di informare. Tenere la schiena dritta è fondamentale per vivere controvento e costruire la sana prevalenza della passione nella vita che scandisce i minuti che ci si mettono a disposizione su questa terra, c’impone di non piegare la testa, non chiudere gli occhi e le orecchie. Avvertire delle menzogne che il potere diffonde, tenere viva la capacità di critica, saper esercitare la nobile arte del rifiuto, mi pare un buon modo di spendere il nostro credito.

(Intervista di Claudia Ciardi)

24 ottobre 2014

Il giovane favoloso



Il giovane favoloso
Regia: Mario Martone
Interpreti: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco
Genere: biografico
Durata 137 min.
Italia 2014

Mario Martone confeziona un buon lavoro sulla vita di Giacomo Leopardi, impresa non semplice che il regista napoletano ha condotto in porto con uno stile rigoroso, restituendo a se stessa la genuinità dei versi leopardiani, e al contempo liberando l’uomo da imbarazzanti pastoie didattiche e letture obsolete che poco o nulla erano in grado di raccontare sulla sua avventura creativa. La risposta del pubblico è forse il migliore dei riconoscimenti e in questo periodo è un dato che fa un gran bene al cuore. Una folla eterogenea di spettatori, diversi per età, gusti e cultura, si è ritrovata davanti al ritratto del sommo poeta, fragile e geniale, emarginato da un’epoca che non lo volle capire. Questa partecipazione dimostra che l’interesse per la cultura in Italia dà segni di vita, e che quando si tratta di recuperarne sillabe e cadenze, non c’è moda che tenga; accade dunque che la poesia la vinca su effetti speciali e altre rumorosità.
Il poeta, di cui con studiato realismo indossa i panni un ottimo Elio Germano, è un giovane diviso tra lo studio intenso e soverchiante nel palazzo di famiglia, e l’inestinguibile febbre che lo consuma, spingendolo a varcare quegli angusti confini. È un ragazzo dominato dal sacro fuoco dei classici, che si sfinisce gli occhi sui tomi dei maestri greci, tanta è l’adorazione per quella lingua, la mente aperta e inquieta di un filosofo antico che posa con foga il suo sguardo sulla natura, smanioso di poter afferrare fuori e dentro di sé le correnti del mondo. Il film comincia per l’appunto dal paesaggio che «sovvien l’eterno», il giardino di casa che troppo poco rivela dell’orizzonte, geografia scarna, rimirata con rassegnazione, a volte perfino con sdegno ma oggetto di un tale incantamento interiore che ne scaturirà quel vertice lirico che è L’infinito.  
In questo spazio nei primi anni di vita i giochi dei fratelli, Giacomo, il primogenito, la dolce Paolina che gli è affezionatissima e complice silenziosa nel suo desiderio di evasione, e Carlo, si susseguono in armonia, quando ancora ognuno serba intatti i suoi sogni sull’avvenire. Ma i tre sono anche sottoposti a una ferrea disciplina, che li forza a trascorrere ore nell’immensa biblioteca domestica, di cui fanno parte oltre ventimila volumi, raccolti dal padre Monaldo che ne conosce a memoria la collocazione. A nove anni Giacomo sa già scrivere in latino.  
Altrettanto precocemente iniziano tuttavia anche i tormenti fisici. Guai però a giudicare il pensiero dell’uomo attraverso i suoi malanni. È un messaggio che nel corso della narrazione il regista fa affiorare di continuo. Tra Leopardi e gli intellettuali a lui contemporanei corre una distanza abissale, non solo in termini di pensiero ma anche e soprattutto di forza. Colui che nell’impietoso ritratto di chi lo frequentava era un infelicissimo, mostra invece maggior coerenza e lena proprio per quel coraggio con cui fissa la sorte dell’uomo, accettandola senza scappatoie.  
Quanti invece professavano una stolida ottimistica fiducia nelle capacità umane, ancor più si nascondevano, fuggivano la problematicità dell’esistenza, e proprio lo spirito di costoro, ammantato di ogni virtù e offerto come incrollabile speranza nei tempi futuri, si macchiava della maggior viltà. 
Giacomo affronta la solitudine a viso aperto, dallo scherno di cui è destinatario nel «natio borgo selvaggio» alle molte delusioni che la vita gli riserverà: incomprensioni, amori non ricambiati. Inciderà non poco sulla sua realizzazione personale anche la rigida morale cattolica alla quale Leopardi imputava l’immobilismo del paese. Una posizione che lo fece bersaglio di critiche sia tra i reazionari che tra i liberali, creandogli avversione con Alessandro Manzoni e Niccolò Tommaseo. Quest’ultimo si rese protagonista di una campagna particolarmente denigratoria nei suoi confronti, che trovò ampia risonanza sulla stampa. Nel film al giovane e sprezzante Tommaseo è riservata la chiosa sulla riunione del Gabinetto Viesseux a Firenze, quando viene comunicato a Leopardi che le sue Operette morali non hanno ottenuto il premio. Appena lui se ne va, si affretta a dire: «Nel Novecento non se ne ricorderà più neanche la gobba». 
C’è una convivialità con la morte, sentita dal poeta come vicina e liberatoria. Ciò che ancora una volta gli valse tra i suoi detrattori l’epiteto di inguaribile malinconico. Per lui era nient’altro che la naturale considerazione del vivere, la vera sapienza che le pagine degli antichi così bene gli avevano trasmesso, se già Erodoto nelle sue Storie tiene a trasmetterci l’apologo sui traci: si pianga quando nasce qualcuno, si provi gioia quando muore.
Il film dà giusto rilievo all’alienazione leopardiana, alle difficoltà incontrate dal poeta in un clima intellettualmente ostile. Unico punto fermo, la stima incondizionata del classicista Pietro Giordani, col quale un Giacomo diciannovenne scambia lettere infiammate dal desiderio di affermarsi e di fuggire dal paternalismo recanatese. Giordani lo saluta subito come nuova gloria delle lettere italiane e la sua amicizia non verrà mai meno, voce isolata in un coro che si ostinerà invece a rinfacciare a Leopardi di aver tradito le aspettative che in lui si erano riposte. Anche qui Martone fa una rappresentazione filologicamente impeccabile, accompagnata da uno scavo a tutto campo nella lingua e negli epistolari del poeta. Giordani è il miscredente, l’uomo della rivoluzione, colui che Monaldo accuserà di aver istigato i figli alla rivolta contro le regole della casa e soprattutto di aver fomentato in Giacomo quel desiderio di fuga che, dopo l’incontro con il letterato piacentino, non si potrà più arginare. Perfetta anche la resa dei momenti in cui il poeta recita i suoi versi, quasi sempre di notte davanti a una finestra schiusa o all’aperto, una scelta che dà enfasi a quella necessità comunicante tra uomo e natura che intride l’immaginario leopardiano e solleva la sua poesia a vette estreme. Di questo rapimento estatico è straordinaria interprete la colonna sonora firmata dal tedesco Sasha Ring, i cui motivi elettronici dialogano perfettamente con Rossini, un amalgama fortunato che contribuisce alla bellezza del racconto. Per il suo lavoro Ring ha ottenuto allo scorso Festival di Venezia il Premio Piero Piccioni, quest’anno al suo esordio in mezzo ai tanti altri noti riconoscimenti della rassegna.
Dei periodi dell’esistenza leopardiana fuori Recanati, Martone sceglie quello fiorentino e quello napoletano che occupano esattamente la seconda metà del film. Il capitolo di Napoli è di gran lunga superiore. Nella città partenopea Giacomo ritrova la presenza cabalistica e costante della morte tante volte evocata nei suoi scritti, complice anche l’epidemia di colera che lì lo sorprende e la spettacolare eruzione del Vesuvio alla quale assiste da Torre del Greco. La Napoli scura e notturna dei bassi e la schiena glabra del vulcano sono immagini di estremo vigore. Fedele compagnia negli spostamenti del poeta, a partire dal 1831, è l’amico napoletano Antonio Ranieri, uomo sul quale nel tempo si sono accumulati sospetti e ombre. A Ranieri il film lascia molto spazio, forse troppo, anche se ciò contribuisce a fare un po’ di chiarezza su una figura altrimenti fraintesa. Come pure ampio rilievo è riservato alla storia “triangolare” con la bella nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti, colta e spietata con i suoi amanti. In una valutazione complessiva penso di poter dire che i giorni alla villa di Torre del Greco, quelli in cui il poeta raccoglie le energie per la stesura del canto La ginestra, così come sono descritti, trasmettano una straordinaria serenità. 
Un appunto più sostanziale riguarda invece un vuoto narrativo sul soggiorno pisano e il ritorno a Recanati (tra il 1828 e il ’29), a causa di una ricaduta fisica e della impossibilità per il giovane conte di trovare un’occupazione. Si tratta infatti di un momento cardine nella gestazione poetica leopardiana. Quello che presiede a Le ricordanze, suo testamento spirituale, dove il ritorno al «paterno ostello» innesca una deflagrazione di memorie, in un impeto che provoca la parola a disegnare la parabola di un'intera vita. Poter vedere cosa sia un poeta, un solo attimo, mentre crea un simile assoluto di musicalità e sentimento, sarebbe quasi avvicinarsi a dio.
Un cenno andava forse fatto. Per il resto, una prova che centra le attese e per la quale Martone si merita un pieno plauso, avendo contribuito a risvegliare una voce incommensurabile e altissima della nostra poesia.

(Di Claudia Ciardi)


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16 ottobre 2014

Naufragio di guerra #2



Riportiamo le parole con cui Golo Mann, figlio del grande scrittore Thomas Mann, autore del capolavoro La montagna incantata, riflette sull’insensata euforia alla quale si abbandonarono i popoli europei nell’agosto 1914, ognuno immaginando in cuor suo che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa.

«Un’atmosfera di giubilo regnava in Europa nei primi giorni di agosto dell’anno 1914, giubilo, furore bellico ed esaltazione della guerra non dovunque in egual misura; in Francia forse un po’ meno che in Germania, qui un po’ più che in Inghilterra. Ma anche là. Anche per le vie di Londra le masse popolari tumultuavano gaiamente e chiedevano a gran voce guerra, mentre il governo tentava ancora gli ultimi sforzi per la pace. I popoli europei erano stati eccitati gli uni contro gli altri, e ingannati, per anni, da uomini politici e giornalisti… la guerra sarebbe stata corta e bella; un’avventura eccitante, liberatrice. E Dio sarebbe stato da ogni parte, e tutti avrebbero vinto».

Questo breve pensiero esprime con lucidità la “gaia scienza” applicata dalle masse agli eventi che andavano allora prendendo forza. Golo, pur se a posteriori rispetto alla situazione descritta, mette in rilievo il grande inganno con cui numerosi volontari, partiti nel fervore dell’impresa, si trovarono faccia a faccia solo molto tempo dopo, sprofondati nelle trincee, quando la guerra ormai ripiegata su stessa divenne quello che in realtà era – un incubo quotidiano, una partita a scacchi con la morte, un’indicibile tortura che sembrava non voler finire più. 
All’interno della famiglia Mann, le differenti posizioni relative alla guerra aprono una frattura anche nei rapporti tra i due fratelli, Thomas e Heinrich. Il primo se ne dichiara subito fautore entusiasta, vedendo nello scontro l’unica possibilità di difesa della Kultur tedesca, e dei suoi valori, in opposizione alla Zivilisation della Francia. Considerava il positivismo francese un’insidia per la cultura europea. Nei suoi Pensieri di guerra, stesi a novembre del ’14, ricorre l’idea di una stanchezza del mondo, l’immobilismo politico e intellettuale europeo percepito come un peso del quale ci si voleva liberare in fretta. Il primo agosto, giorno della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia, Thomas Mann si trova a Tölz, in Baviera, per le vacanze. I suoi figli, Erika di nove anni e Klaus di otto, giocano in giardino, improvvisando la messa in scena di Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora).
Heinrich è invece a Nizza. È costretto a andarsene in modo precipitoso, pena l’internamento. Pagherà un prezzo piuttosto alto per il suo pacifismo: la pubblicazione della sua opera Der Untertan, iniziata a gennaio, verrà sospesa, e i giornali per cui lavora interromperanno le collaborazioni.
L’Italia resta a guardare. Una posizione attaccata con foga da Gabriele D’Annunzio, in quel periodo in Francia, dove ha dovuto riparare per sfuggire ai propri creditori. Anche secondo lui la guerra sarebbe stata l’occasione per vincere la stanchezza dei popoli, e nel caso italiano, avrebbe sepolto una classe politica invecchiata e senza idee, dando compimento all’impresa risorgimentale. Ma al momento quello italiano si presenta come “uno strano caso”. Vincolata alla Triplice Alleanza, che la lega agli imperi centrali, ma da diversi anni insofferente al giogo di Vienna, scossa da tensioni interne e problemi economici, alla cui base vi è la dispendiosissima e inutile campagna di Libia, ingredienti che hanno acceso la miccia della settimana rossa (giugno ’14), consapevole delle clamorose mancanze che affliggono il proprio esercito, l’unica cosa che può fare è prendere tempo. Stile tipicamente italiano, e in politica estera non è detto che sia sempre un male. La maggior parte dei nostri quadri politici e militari propende per appoggiare la Francia. Cominciano frenetiche trattative dietro le quinte, per sondare gli umori sull’uno e l’altro fronte. Soprattutto si cerca di capire se Vienna, che finora con noi ha fatto il bello e il cattivo tempo, e il cui atteggiamento verso la penisola resta improntato alla diffidenza, abbia intenzione di onorare il patto italo-austriaco (1887) approvato a ulteriore garanzia di quanto già sottoscritto nel 1882. Tale accordo prevede compensazioni per l’Italia, in caso venga a mutare lo Statu quo balcanico. Tuttavia Francesco Giuseppe seguita a giudicare irricevibili le richieste del nostro ministro degli Esteri, il marchese Antonino di San Giuliano. L’imperatore ribadisce che sul Trentino non possiamo accampare pretese e che il tema delle compensazioni sarà preso in esame soltanto se l’Italia prenderà parte al conflitto a fianco dell’impero austro-ungarico.  
Nel frattempo viene avviato un piano per apportare migliorie all’organizzazione del nostro esercito, che necessita di 14.000 ufficiali, oltre che di equipaggiamenti base: mitragliatrici, artiglieria, bombe a mano, mezzi di trasporto, cesoie per tagliare il filo spinato. Per raggiungere gli standard di efficienza vigenti negli altri corpi militari, l’Italia emette il primo di sei prestiti di guerra: la richiesta è nell’ordine del miliardo di lire, corrispondente a circa settemila miliardi di euro. Questo la dice lunga su ciò a cui, pur da una posizione apparentemente più defilata, andava preparandosi anche la nostra nazione.


Sulla Somme, luglio 1916

Alcuni riferimenti citati in questa sintesi sono tratti da Roberto Giardina, 1914. La Grande Guerra. L’Italia neutrale spinta verso il conflitto, Imprimatur, 2014. Al denso e serrato reportage dello storico palermitano, residente dal 1986 in Germania, testo che intreccia cronaca e analisi storica, dedicheremo uno dei prossimi articoli.

Di seguito, come già abbiamo fatto a conclusione degli altri interventi sulla Grande Guerra, vengono citate alcune poesie tratte da L’Allegria di Giuseppe Ungaretti. La sezione a cui i testi appartengono è ancora una volta quella di Il porto sepolto. Nello straniamento ottundente della guerra, il poeta è «una docile fibra dell’universo» rimescolata dagli eventi, e scopre l’imbarazzo per il suo stesso corpo, «che ora troppo ci pesa». Involucro di vivo tra i non vivi, smarrito a se stesso, dissolto dalla vertigine della guerra. Solo l’immersione nella natura, che diviene gesto di liberazione rituale soprattutto nell’incontro con l’Isonzo, permette di fissare nuovamente lo sguardo sulla propria sostanza. Ma si rinviene alla vita spossati e distanti. Davanti ai boschi, ai crinali inghiottiti dalla notte, ai silenzi impenetrabili del Carso ci si riscuote pochi attimi. E se l’esser divenuti «uno stagno di buio» sembra ripetere il naufragio leopardiano, che pure scagliava la sua solitudine nell’eterno fluire del mondo, qui l’abbandono, la contemplazione dell’infinito innescano un processo contrario. Il legame con la vita, così prepotentemente riscoperto attraverso gli elementi di paesaggio, sommerge il  giovane soldato, che sul greto del fiume resta attonito a decifrare l’impronta del suo sgomento.

(Di Claudia Ciardi)     

Annientamento

Versa il 21 maggio 1916

Il cuore ha prodigato le lucciole
s’è acceso e spento
di verde in verde
ho compitato

Colle mie mani plasmo il suolo
diffuso di grilli
mi modulo
di
sommesso uguale
cuore

M’ama non m’ama
mi sono smaltato
di margherite
mi sono radicato
nella terra marcita
sono cresciuto
come un crespo
sullo stelo torto
mi sono colto
nel tuffo
di spinalba

Oggi
come l’Isonzo
di asfalto azzurro
mi fisso
nella cenere del greto
scoperto dal sole
e mi trasmuto
in volo di nubi

Appieno infine
sfrenato
il solito essere sgomento
non batte più il tempo col cuore
non ha tempo né luogo
è felice

Ho sulle labbra
il bacio di marmo

C’era una volta

Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916

Bosco Cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona

Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa
di questa luna

La notte bella

Devetachi il 24 agosto 1916

Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle

Questa festa sorgiva
di cuore a nozze

Sono stato
uno stagno di buio

Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio

Ora sono ubriaco
d’universo

Sonnolenza

Da Devetachi al San Michele il 25 agosto 1916

Questi dossi di monti
si sono coricati
nel buio delle valli

Non c’è più niente
che un gorgoglio
di grilli che mi raggiunge

E s’accompagna
alla mia inquietudine

Käthe Kollwitz - Campo di battaglia

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Italiani in guerra nel '14. I triestini e l'impero austro-ungarico

La guerra degli italiani - Sul sito "Storia contemporanea"

Infoaut - 7 giugno 1914 - La settimana rossa

La settimana rossa su Rai Storia

Verso la Grande Guerra su Rai Storia

In questo blog:


Naufragio di guerra #0
Naufragio di guerra #1

Ritratto di guerra

10 ottobre 2014

Piero Bigongiari – Cento anni di poesia


Il 2014 è l’anno delle grandi ricorrenze. Su tutte il centenario della prima guerra mondiale, di cui quotidianamente si commemorano episodi e protagonisti. Ma vi sono pure i cento anni della fondazione del Caffè San Marco a Trieste, i novant’anni della radio italiana, i venticinque della caduta del Muro di Berlino. La cabala è insolitamente affollata e a ben vedere s’incomoda per fatti non irrilevanti. Tra questi, non sorprenderà incrociare anche la nascita di un poeta, uno dei più grandi del Novecento, sebbene forse non altrettanto conosciuto rispetto a Montale, Ungaretti, Saba, Quasimodo, per citare quattro nomi cui si legano i nostri ricordi scolastici. Tuttavia, si sa, la fama è un capriccio umano e i percorsi che la rivelano sono il frutto di molte variabili. Piero Bigongiari, originario di Navacchio in provincia di Pisa, dove ha visto la luce il 15 ottobre 1914, è noto ai cultori della poesia e agli italianisti – sui secondi spero di aver detto il vero; un po’ meno purtroppo lo è al largo pubblico. Complice per nulla secondaria di questa lacuna, la difficoltà nel reperire i volumi dei suoi scritti: edizioni datate, ristampe inesistenti. Perdita non indolore, perché la lingua poetica di Bigongiari, levigata da straordinaria sensibilità musicale, è tra le più evocative che si siano prodotte nel panorama contemporaneo.
Traduttore dal francese e dal latino, saggista raffinato, profondo studioso di Leopardi, critico d’arte affascinato dal Seicento fiorentino, l’opera densa e non facile di questo poeta ci parla innanzitutto dell’eclettismo del suo ingegno, della versatilità con cui amava arare i campi delle discipline umanistiche. Il bisogno di inscatolare arte e saperi ha imposto alla creatività bigongiariana il frontespizio dell’ermetismo, che rischia però di tener fuori, allontanandole dalla comprensione del lettore, tante altre caratteristiche, magari non immediatamente tracciabili eppure presenti, fermamente attagliate all’impiallacciatura del suo verso. Io che mi sono avvicinata a Bigongiari, com’è mio uso, senza aver perlustrato prima certe tortuosità della critica, ne ho tratto la forza di una poesia pagana. Il sovrapporsi delle memorie crea una fuga di piani, l’evocazione innesca una fluidità temporale che esce da se stessa, annullandosi in una fissità di sapore arcaico, dove l’attimo diviene rivelazione del tutto. 
Fin dalle mie prime letture, che ho avuto la fortuna di coltivare grazie alla ‘scuola pistoiese’ – proprio a Pistoia, tra Via del Vento, la cupola della Madonna dell’Umiltà, viale Arcadia l'immaginario del poeta sviluppa alcune fra le sue più visionarie cadenze –  ne ho ricevuto una lezione di compiutezza assoluta sul modo di esercitare la sensibilità, accordandovi lo strumento della lingua. 
Vogliamo qui ricordarne il genio attraverso gli estratti di alcune lettere inviate all’amico pistoiese Mario Ciattini, figlio del tipografo Alighiero Ciattini che, prima di trasferirsi a Roma, operava in Via del Vento.

(Di Claudia Ciardi)


Giuseppe Ungaretti e Piero Bigongiari

«I monti stasera sono di cenere e, alle cime, rossi violacei. Ecco, si ghiacciano, si spengono, come un metallo stato al fuoco. Mario, qualcuno, il giorno, muore davvero.
È una cosa impressionante: fa molto freddo, come dopo una fine. Ti assicuro che così padrone di me, tremo. Il gelo è tutto fisico, addio».

Postilla alle sei di sera

«Mio caro Mario,
ecco che torno a scriverti. Fuori piove; sono tanti giorni che questa tristezza s’accumula. Finito il movimento che fa dimenticare, quando mi ritrovo a fare i conti con me solo, sento un po’ di sconforto amareggiare tutto il mio essere. Sono intermittenze del cuore, mali inevitabili dei vent’anni; c’è qualcosa di me che cammina, e qualcosa che resta indietro. Nascono i laghi di nero, le falle. L’uomo non è tutto padrone di sé. Ma chi sa quanto continuerei, che cosa mi verrebbe detto, è meglio scrivere meno – ispirati ».

Pistoia, 17 – 3 – ’34

«Caro Mario,
ti scrivo affogato in una pianura d’inerzia. In questi giorni è venuto il sole con le sue grandi fauci e comincia a divorarmi; in campagna con Cappellini pittore, ho bevuto molta luce, molti tramonti, molti strilli di bambini ammiranti in crocchio davanti ai pennelli di Alfiero, molta acqua scorrente dell’Ombrone, poi a casa mi aggiacco dove mi capita e lì mi prende la disperazione o la mediocrità: tristi cose davvero.
[…]
Io ora vorrei andare a trovare il freddo su su nell’Europa, andare a Berlino, in tutta la Germania, in Danimarca, sul mare Baltico, nella penisola svedese, etc. etc. (aggiungi tu). Vorrei una donna che mi si rivolgesse con la voce di Greta. L’ho vista ancora, in questi giorni, in Romanzo, bellissima. Mi dà una grande dolcezza, una grande forza. Se trovi una bella immagine di lei, mandamela».

Pistoia, 19 – 4 – ’34

«Caro Mario,
le tue lettere sono come gocce di una pioggia malinconica, autunnale. Bellissime, vanno in fondo al cuore, riempiendolo d’amarezza. Tu mi vuoi bene e questo mi consola e mi fa contento. Ma ora debbo fustigarti, non ti devi lasciare afferrare dal male del passato, non devi leggere le mie lettere passate, non devi pensare alle donne che più non è possibile vedere, non devi pensare che le nuvole sono le stesse, le automobili le stesse, i monti gli stessi, gli uomini gli stessi cattivi, crudeli, adorabili. Queste cose la faremo in vecchiaia quando gli occhi non vedranno più e le gambe non si muoveranno e quando il cuore dovrà essere tenuto in riposo per paura della paralisi. Ora no, assolutamente; questo si chiama il male del ricordo, un male paralizzante. Ci dobbiamo prefiggere della mete, allora la vita si riempie, riacquista sangue, colore. Sono contentissimo che tu studi. Bene. Non importa se i libri ti stancano e non li capisci. Sono fenomeni di crescita spirituale».

Pistoia, 23 – 10 – ’34

«Vecchia marmotta infarinata,
domando se questo è il modo di trattarmi. Ti s’è seccato il cuore o il calamaio? Siccome non credo al primo caso, sto per il secondo; ma allora scrivimi col lapis, col carbone, colla macchina da scrivere, con qualunque cosa. Io sono contento che tu sia diventato una persona seria, senza fisime, che tu ti sia accorto quant’è deleterio un vivere troppo emozionale e sensibile, che tu abbia sentito l’odore del vuoto e tu te ne sia ritratto e che ora tu annusi l’odore del pane invece, sono contento di tutto questo e d’altro ancora, che per es. tu legga i nostri classici (sta’ attento però che non solo nel ‘500 c’è gente grande e tutta nostra, gente stupendamente semplice), che tu non scriva (quasi) più, che tu sia più semplice; ma ciò non implica che tu faccia il morto.
Va bene: un po’ di colpa ce l’ho anch’io; ma qualche cartolina ogni tanto ti è venuta: mia, anche se c’era soltanto la firma.
Poi, ho avuto un mese d’esami, qualche linea di febbre, molta pigrizia nel prendere la penna; ma ho pensato a te, che forse stai creandoti una base più solida per quello che verrà, spesso. E tu, vecchio Mario, uomo rugoso e mercante? Avrai avuto e avrai delle distrazioni, o meglio delle occupazioni. Spero che tu non abbia perso quella baldanza del cuore che è giovinezza; fatti soci, imbroglia, fai cosa ti pare, ma soprattutto non perdere l’entusiasmo. Non quello “piro” [dialetto pistoiese per “sciocco”], ma quello più umile, interno. Io, oltre alle solite cose, sono stato a Venezia e Trieste; in questi giorni forse scapperò a Siena, visto che da Roma a Siena la strada è seminata d’ostacoli. Poi non so cosa farò, forse andrò sui monti, perché n’ho bisogno. […]».

Pistoia, 27 – 6 – ’35

Da:
Piero Bigongiari, Giovinezza a Pistoia, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Nuova Compagnia editrice (Comune di Pistoia), 1994

Si veda anche:
Pier Francesco Listri, Ancora fra noi. Piero Bigongiari poeta dell’ermetismo, sull'«Informatore», maggio 2014, p. 43


L'ermetismo al Caffè Giubbe Rosse di Firenze
Bibliografia:

Una città rocciosa e altri frammenti di un'autobiografia, a cura di Elena Dei, Via del Vento edizioni, 1994 (ristampa 1998)

Nel giardino di Armida e altre prose memoriali, un racconto e una poesia, a cura di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni, 1996 (fuori catalogo)

L'azzurro, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Via del Vento edizioni, 1991 (ristampa 1999)

Favola e altre poesie scelte, postfazione di Roberto Carifi, cenni biografici a cura di Martino Baldi, scelta della poesie e note alle stesse di Fabrizio Zollo, 2007

Visibile invisibile, Sansoni editore, 1985

Autoritratto poetico, Sansoni editore, 1985

Le mura di Pistoia, Mondadori, 1964

In questo blog:

Il cielo sopra Pistoia






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Biografia sul sito di Paolo Fabrizio Iacuzzi

Piero Bigongiari nell'Enciclopedia Treccani

7 ottobre 1997 - La morte di Bigongiari su  
«Il Corriere della Sera»

Un ricordo del poeta su «Italies» - 9/ 2005

Il Comune di Lucca per Piero Bigongiari

Nel centenario della nascita - le iniziative alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia



Piero Bigongiari in Via del Vento  
Foto di Alessandro Andreini ©