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26 novembre 2014

Marc Augé - Rovine e macerie




Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo,
Bollati Boringhieri, 2012

«Bisogna ritornare per scrivere, quantomeno ritornare a casa»
Marc Augé

«Essendo noi oggi molto più sradicati e momentanei»
Piero Bigongiari


Vi è un’analogia fra ricordo e rovina. È questo l’assunto fondamentale del libro di Augé, una testimonianza sul tempo così come risale dai luoghi alla sua percezione di antropologo ma più semplicemente di viaggiatore, perché le due cose nel suo discorso non sono tenute separate da marcatori accademici. Anche in questo lo studioso francese rompe gli schemi e non sorprenderà pertanto che la scrittura saggistica incroci in lui il genere memoriale, facendosi romanzo autobiografico. Tale aspetto, sommato allo spessore contenutistico della sua ricerca, aiuta a spiegarne la fortuna presso il largo pubblico. 
Il padre del concetto di non luogo, attorno al quale non manca di ragionare anche in queste pagine, ripercorre le tappe della sua iniziazione alla scoperta dell’altro, curiosità per lui innata, come ricorda nel grazioso volumetto dedicato all’infanzia a Parigi e ai primi viaggi della sua vita, lungo le linee di quella metropolitana. Qui le prime immagini che vengono incontro al lettore appartengono alla Costa d’Avorio, ai palazzi in rovina edificati dai coloni per i mediatori locali, costruzioni di appena sessant’anni, all’epoca in cui Augé se li trova davanti, eppure già segnati da una decrepitezza che concentrava su di sé l’intera desolazione dell’ambiente e che anzi sembrava da lì addirittura scaturire.  
«Lo spettacolo di quelle rovine recenti costituiva una specie di enigma di cui avvertii immediatamente l’esistenza senza identificarne i termini né coglierne la natura». È intorno a questo enigma, all’interrogativo che la vista delle rovine suscita nel visitatore, che prende forma la sua teoria sulle assonanze tra storia e memoria. Il dubbio circa la persistenza di una simile sensazione, di qualcosa di irrisolto eppure insinuante nell’attimo in cui si posa lo sguardo su un monumento, su un gruppo di vecchie sepolture di cui nessuno pare occuparsi più, è l’elemento conduttore di tutta la sua indagine. Cos’è quel senso di struggente vicinanza a nessun tempo e a nessun essere umano in particolare, da cui ci siamo afferrati di fronte a una costruzione diroccata? Perché quando il nuovo si porta via il vecchio – e Augé lo dice senza alcuna retorica e tenendosi alla larga dai luoghi comuni – ci scopriamo così attaccati alle fragilità di quegli spazi che le leggi di mercato pretendono di riordinare?
Ciò che costituisce le coordinate del nostro immaginario, e questi meccanismi risultano accentuati nelle città e più ancora nella metropoli, anche se non ne abbiamo una precisa consapevolezza culturale, si crea in stretta simbiosi con gli eventi storici. I sussulti e le rotture della storia, spesso di natura violenta, si riverberano entro l’orizzonte in cui ci muoviamo. L’architettura è il riflesso dei tempi e si offre al nostro sguardo come un corpo, con le sue vulnerabilità, le sue sconfitte, e noi siamo portati a comparare le sue forme, i paradigmi che vi si manifestano, a quelli di un corpo vivente. Una rovina è l’occhio dissepolto del tempo che si ribella alla storia. Quel che ci attrae delle rovine sta nella sovrapposizione di natura e cultura in modo che il passato che lì si ascolta non è più in grado di parlarci distintamente di sé. Sappiamo che esiste, ne abbiamo una vaga idea ed è sufficiente a rassicurarci.
«Il tempo puro è questo tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione». Nello scenario delle rovine la riunione di temporalità diverse non diviene qualcosa di stridente, contribuisce anzi a limare il dramma delle vicende storiche, cui lì ripensiamo senza la pressante rumorosità che ci incalza quando invece siamo costretti a valutarne l’attualità.
Tra le diverse voci alle quali Augé si rifà, vi è quella di Albert Camus a Tipasa, città romana nei pressi di Algeri. Camus sottolinea la lunghezza del processo con cui il passato finalmente abbandona le cose e poi scrive: «Avevo sempre saputo che le rovine di Tipasa erano più giovani dei nostri cantieri e delle nostre macerie». 
Affermazione folgorante. Lo spazio liberato dalla storia appare più conciliante e perfino più giovane. Le macerie invece, dal latino maceria, “muro a secco”, “muraglia”, non conservano nulla di questa lenta maturazione storica, dell’affrancamento della storia da se stessa. Si collocano semmai sulla direttrice opposta, sono il frutto di un deragliamento. La maceria è il segno tangibile della «follia della storia» e in un orizzonte di macerie si potrà solo avvertire il peso della distruzione, che è un atto di violenza, dove la forza e la rapidità dello scontro operano a cancellare il tempo, a polverizzarlo ma non nel senso del suo lungo decadimento. Le radiazioni della storia contaminano le macerie e chi vi si imbatte. Non si avrà dunque una visione pacificata piuttosto la presa di coscienza di quello che potrebbe accadere in ogni momento. A Berlino i segni di questa febbre, almeno per quanto riguarda l’Europa, sono profondamente incisi nello spazio urbano e, sostiene Augé, la enorme opera di ricostruzione che dura tuttora anziché celare rivela. Metropoli dai nervi fragilissimi e scoperti, la foga con cui si mette mano a nuovi cantieri e progetti non è unicamente il riflesso di un’aspirazione alla modernità, che vuol gettarsi tutto alle spalle. Semmai mostra proprio la continua ricerca della città, e la difficoltà che comporta, a risistemare la violenza del passato e a recuperare un rapporto con quel passato che ha lasciato macerie, non rovine, dove difficilmente ci si sarebbe potuti aggirare senza percepire come lo sfaldamento implicasse quello delle persone. E dove tuttora capita di camminare con questo sentimento. Ma bisognerebbe anche parlare di Varsavia, città completamente annientata, di Amburgo, Dresda, delle ferite di Londra e prima ancora delle città bombardate nella guerra civile spagnola. E poi Beirut durante la guerra civile libanese, Sarajevo, Aleppo, per restare tra Europa e Medio Oriente. Luoghi nei quali l’uomo ha rinunciato a farsi interprete del suo tempo, proprio quando invece pensava di esserlo come mai prima.
D'altra parte l’odierno livellamento cui oggi assistiamo nella costruzione di quartieri avveniristici, di centri commerciali all’ultima moda, di zone residenziali identiche nei due emisferi a scapito delle peculiarità degli spazi in cui sorgono, tendenze contro le quali Augé esprime il proprio disappunto in un passaggio del libro sulla ‘sua’ Parigi, è una fase nuova che proietta l'uomo in un territorio ignoto. Su di lui grava la sfida a non esserne fatalmente estromesso.     

(Testo e foto di Claudia Ciardi)



Una casa abbandonata in Via del Molino a vento - Trieste, 2014

Related links:

Non luogo - Enciclopedia Treccani

Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald - Helios Magazine (2010)



«Quello che potrebbe sembrare un insolito terreno di esplorazione, incoerente all’apparenza col mondo di superficie, si rivela un luogo di richiami e sedimentazioni, caratterizzato invece da una straordinaria capacità ricettiva. E viceversa, giacché il sottosuolo, divenendo fulcro delle abitudini in base a cui si articola la vita in metropoli, contamina largamente quel che accade qualche metro sopra. La sintonia che qui è possibile cogliere con i livelli più profondi del sé, permette di analizzare la struttura del corpo sociale, fino a tracciarne riti e itinerari riconducibili a una vera e propria era geologica che ha visto la piena affermazione della metropoli e dei suoi ritmi».
 Recensione di Un etnologo nel metrò, Elèuthera, 2010. Su Sololibri.net



Paesino abbandonato di Mirteto sui Monti Pisani, 2009  

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