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21 dicembre 2014

Dino Campana - Il fauno dell'Appennino


È un anno di anniversari e commemorazioni. Ne ho parlato non troppo tempo fa, in occasione del centenario della nascita del grande poeta toscano Piero Bigongiari. Non poteva mancare, a chiusura di un periodo assai impegnativo in materia di ricorsi storici, concomitanze e cabale, un ricordo per il compleanno dei Canti Orfici.
Una mia vecchia conoscenza soleva parlare con disprezzo di “quelli che non finiscono le cose”, essendo ciò, a suo dire, il sintomo di un temperamento artistico, buono a nulla. Era un concetto che gli piaceva ripetere perfino con un certo orgoglio, quasi a marcare la differenza tra la sua indole metodica e ben organizzata, un’indole di successo, e quei poverini che non riescono a stare sull’attenti. Mi chiedo come abbia potuto prestargli ascolto anche solo una volta, tanto più che nel suo discorso vi era un dettaglio particolarmente insopportabile. La donna, secondo lui, mostrerebbe verso tale disagio una sfacciata propensione. E puntuale, ad ogni sillogismo, se la prendeva con una delle sue amanti. L’unica colpa della sventurata era aver destinato un sentimento a un carattere tanto arido e maldestro. Ma questo l’ho saputo solo dopo, quando ho imparato sulla mia pelle con quanto rispetto quest’uomo considerasse l’amore. Il metodico ne risultava addirittura spaventato. Perché l’amore porta fuori strada, mette tutto in discussione, ci mette sottosopra. 
I poeti erano per lui deprecabili e pericolosi. Vite disordinate, anime fosche di squattrinati, desolatamente inutili. Però la poesia la leggeva. Più per dovere scolastico, credo, un retaggio liceale simile all’autoritarismo paterno, da cui aveva sviluppato un complesso; gli avevano insegnato che bisognava conoscerla, e ogni tanto sbocconcellava qualcosa. Di non troppo eterodosso, è naturale. 
Non so perché ma quando sfoglio Dino Campana, capita che questa storia mi torni in mente. Di sicuro, il fauno di Marradi era uno che “non finiva le cose”. Di sicuro fu poeta nel modo più triste ed esaltato che si possa immaginare. La nevrosi e la delirante grazia dei versi gli sono cadute addosso come lampi in un cielo chiaro. E lui non ha potuto altro che tenersele come le stimmate. Attorno ai suoi quindici anni aleggiarono voci paesane insistenti e poco lusinghiere: Campana divenne “el mat”. La sentenza è stata inappellabile. Non gli restò che darsi alla macchia, scappare in mezzo ai boschi e alle pietraie dell’Appennino, perché «lì c’è il silenzio». I suoi vagabondaggi sono scatti d’immensa foga collerica. Nel tentativo di respirare si spinse sempre più lontano. Pare che a diciotto anni abbia raggiunto Odessa e sia stato adottato da una tribù di Bossiachi, di zingari, coi quali avrebbe vissuto a lungo. Al ritorno si sarebbe aggirato per Faenza come un vagabondo, dormendo sotto i portoni, infagottato in un improbabile cappotto da ufficiale. Anche in seguito, il suo modo di vivere e abbigliarsi – soleva indossare scarpe più grandi del suo numero legate con spaghi – ne favorirono l’accostamento a un barbone. Inizia così il mito del poeta dei Canti Orfici, si inaugura «l’inquietante progetto d’esser Dino Campana». Man mano che la sua poesia prende forza lo lascia spossato sul ciglio di qualche strada, a scontare la propria solitudine, a maledire quei compaesani dal cuore duro e maligno che avrebbero voluto vederlo rinchiuso, sorvegliato, incatenato da qualche parte, pur di non averlo più tra i piedi. Dal 1907 al 1909 avrebbe vissuto come un disperato in Argentina: pianista di bordelli, fabbro, portiere, pompiere, operaio nella costruzione di ferrovie. La leggenda contamina sempre più la realtà, chi prova a seguire le sue tracce ne viene a capo con fatica e senza certezze. Accumula quell’esperienza che gli farà dire di essersi sufficientemente macerato nella vita allorché si troverà a perorare la causa della pubblicazione del suo testamento in poesia. Questo infatti sono i Canti, omaggio a Leopardi fin dal titolo, l’altro grande ingegno lirico irrisolto e incompreso, di cui Campana si professa l’erede. 
La prima parziale versione, intitolata Il più lungo giorno, affidata a Giovanni Papini e Ardengo Soffici venne smarrita da quest’ultimo. Un altro risvolto destinato ad alimentare rancori e veleni tra Campana e l’ambiente letterario, oltre a produrre tra gli studiosi una spropositata messe di elucubrazioni dopo la sua morte. Nella stesura definitiva, concepita durante forsennate marce sull’Appennino tosco-romagnolo, l’opera vide la luce il 7 giugno 1914 sotto il nuovo titolo di Canti Orfici, presso il tipografo Bruno Ravagli. Fu un caso di autopubblicazione, come si direbbe oggi. Al Ravagli andò un acconto di 110 lire, proveniente da una colletta sottoscritta da alcuni marradesi.
L’Europa era già in guerra, quando a settembre Campana si presentò a Firenze, raggiunta a piedi come suo solito, con i libri sottobraccio. Fu alle Giubbe Rosse e da Paszkowski per vendere le sue copie e farsi conoscere tra la gente, arrivò perfino a strapparne le pagine e a sventolarle sotto gli occhi dei clienti, sperando di smuoverli dalla loro indifferenza.
A Santa Maria Novella, mentre si sta davanti al tabellone delle partenze, capita ancora d’incontrare qualche poeta improvvisato alla ricerca di lettori. Vanno su e giù con i loro foglietti svolazzanti, fotocopiati, ve li mettono in mano dicendo “offerta libera” e aspettano che si ringrazi con una moneta. Sono poveri diavoli, sfrattati dal mondo. Ma se sarete generosi, di sicuro veglieranno sul vostro viaggio.

(Di Claudia Ciardi)




«Caffè, ora eterna – Pisa»

XXXI. Cartolina postale, inviata da Pisa a Sibilla Aleramo presso Villa Alba, a Marina di Pisa

(Campana a Aleramo) Marina di Pisa, 13 ottobre 1916

«Egregia Sibilla,
siete ammalata: me ne dispiace! Quanto a me ho perso l’abitudine di lamentarmi. La padrona voleva che vi scrivessi non so che cosa. Ho rifiutato. Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora? So che vorreste avere la forza di seguire il vostro destino e di …papini [è Giovanni Papini direttore della rivista «Lacerba», il cui cognome viene scritto minuscolo in segno spregiativo] (tanto mi odiate?)»

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare
fare e disfare è tutto un lavorare
ecco quello che so fare. Scrivete. Addio»

XXXVIII. Cartolina postale diretta a Firenze

(Aleramo a Campana) Casciana, 26 ottobre 1916

«Ero abituata al silenzio: ma questo che s’è fatto dacché sei partito è così grande! Stamane (dopo dodici ore di sonno al veronal), ti ho telegrafato sperando nella risposta – che non è ancor venuta. M’han detto che ieri dovesti prender una carrozza e che forse perdesti il treno delle quattro. Dove e come avrai dormito? E tutte le imaginazioni per seguirti oggi son state vane. Firenzuola? Alla Casetta, ora che sta per tramontare questo sole pallido? Avrà tirato un vento furioso anche sulla tua strada? Io mi son levata alle undici, e alle tre son andata al bagno, poi tornata subito qui. M’han fatta sloggiare dalla saletta da pranzo, m’han messo un tavolino qui tra la finestra e il tuo letto. Così c’è un mutamento anche per me, e la mia stanza somiglia di più alla tua… Dino, Dino! Dove sei? Voglio esser forte come mi hai chiesto, non voglio piangere ma ho il cuore così gonfio! Quell’ultima ora, ieri, hai sentito come eravamo consacrati. Dino, vinceremo. Amor mio. Coraggio. Non so dire neanche per me altre parole oggi. Sono ancora così stanca, attonita. E tu, e tu? Quando saprò? Ho tanta paura che tu stia male? La Casetta ora dev’essere una tana. Dimmi, ti supplico. Dino, ma ho tanta fede, com’è che ho tanta fede come il primo giorno? Che cosa vuole da noi il nostro amore? M’hai detto  che mi tieni, vero? Felicità. Ti bacio. Scrivimi. Se lavorerò, te lo dirò. È arrivato il meta, [metadone, medicina] lo spedirò domani con la biancheria. Fatti dare delle uova, quattro al giorno, e manda a prendere la medicina a Firenzuola. È vero che vuoi che ci ritroviamo belli?»

tua Rinetta
(è la prima volta che mi firmo così)

XLVI. Lettera di un foglio, su quattro facciate, senza busta, scritta in inchiostro turchese.

(Campana a Aleramo) Marradi, 27-30 ottobre 1916

«Mia cara amica
sono troppo stanco e troppo ammalato per cercare di comprendere. Prendo il partito dei deboli, il mio solito partito: parto.
Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal nostro amore. Non posso dirti altro dopo questo. Mia cara sono realmente ammalato non ho potuto sopportare l’attesa e le tue lettere. Ricevo ora il telegramma. Parto domattina per la Casetta. Là c’è il silenzio.
Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo corpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa.
Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla – e senti la mia infinita desolazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia.
Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per sé solo il tuo colore.
L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora»

XLIX. Lettera di un foglio, su quattro facciate, senza busta, senza data. Luogo e data sono stati attribuiti a seguito di alcuni raffronti col resto della corrispondenza ma non v’è certezza su quanto ricostruito.

Da: 
Sibilla Aleramo e Dino Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-’18, Feltrinelli, 2000  


Related links: 


«Sensibilità profonda e raffinato ingegno, interprete acuto di uomini e culture, conoscitore di cinque lingue, lettore di Eschilo, fustigatore di caratteri ostili alla generosità e agli slanci, coscienza abbarbicata all’Appennino tosco-romagnolo, di cui conservava in sé il rude aspetto e l’antica saggezza. Dino Campana è stato un cantore in lotta col suo tempo, schivato e irriso proprio da quell’aureo mondo delle riviste letterarie in cui il poeta aveva stanato un provincialismo gretto e avverso a ogni ipotesi di una nuova concezione dell’arte e, dunque, della scrittura. E proprio in lui, il “mat Campèna”, non manca una chiara e netta adesione alla cultura e al retaggio storico d’Europa, molto più dei suoi sornioni colleghi, impegnati nei tristi agoni della carta stampata, tra accademismo e autocompiacimento». Recensione di Dino Campana, Io poeta notturno. Lettere, a cura di Pasquale Di Palmo, Via del Vento, 2007.
Su Sololibri.net il testo integrale della recensione.  

I Canti Orfici di Dino Campana. A cento anni la ristampa anastatica  
di Elisabetta Vagaggini

Il più lungo giorno di Dino Campana
di Paolo Pianigiani su «Transfinito»

Monti Orfici di Giovanni Cenacchi
Sui sentieri di Dino Campana

14 dicembre 2014

Intervista al Gruppo 183


Il Gruppo 183 prosegue la riflessione sul dissesto idrogeologico lanciata da questo blog lo scorso 30 novembre, che ha visto il coinvolgimento del professor Paolo Arduini dell’Università di Pisa. Gruppo 183 è un’associazione senza fini di lucro con sede a Roma, costituita nel 1995 dall’iniziativa di ambientalisti, parlamentari e rappresentanti di Regioni, governi locali, dirigenti sindacali e d'impresa, che hanno messo a disposizione le proprie competenze per sviluppare proposte e interventi sulla gestione delle acque e del suolo, e in materia di rischio alluvioni. Prende il nome dalla legge di riforma ambientale e istituzionale per la difesa del suolo e la tutela delle acque (L. 183/1989, poi abrogata dal D.Lgs. 152/2006) e fa parte delle 17 istituzioni italiane segnalate dall'United Nations Convention to Combat Desertification per l’impegno nella lotta alla desertificazione. Per ulteriori notizie esorto a visitare il sito dell’associazione, Gruppo183.org, dove troverete schede dettagliate sui principali progetti realizzati o in corso d’opera. Tra le ultime iniziative segnaliamo l’adesione alla Coalizione per la prevenzione del rischio idrogeologico, nata a seguito della recente tragedia che ha colpito Genova (ottobre 2014). 
Desidero ringraziare il coordinatore nazionale Michele Zazzi, che con disponibilità e competenza ha reso possibile la stesura di questo contributo, valendosi dell’ottima collaborazione degli attivisti che da anni lo affiancano. Affinché la lettura risulti più agevole, essendo le risposte alquanto articolate, evito di trascrivere le domande, le stesse che sono state rivolte a Arduini nella precedente intervista, sintetizzandone il contenuto in calce alle diverse sezioni del testo.




[Considerazioni sulla tutela dell’ambiente per ridurre il dissesto]
La manutenzione e la cura del territorio assumono oggi un ruolo strategico, soprattutto se tradotte in presidio territoriale svolto dalle comunità locali, responsabili e garanti di un'azione utile per una politica di prevenzione dal rischio idrogeologico del territorio antropizzato. È indispensabile favorire interventi di manutenzione per garantire la funzionalità degli ecosistemi, attraverso azioni periodiche e diffuse perché a seguito dei cambiamenti climatici la manutenzione assumerà sempre più il ruolo d'intervento strutturale. 
Una valutazione obiettiva sul livello di coscienza dei cittadini sulla questione ambientale, e in particolare sulla tutela del territorio, non può essere univoca ma differenziata a seconda che la si guardi quando si esprima positivamente nelle sue varie e articolate manifestazioni pubbliche o negativamente nei suoi comportamenti individuali. 
Inoltre, le drammatiche perdite umane e materiali provocate negli ultimi anni nel Paese hanno fatto sì che la difesa del territorio dalle alluvioni e dalle frane diventasse forzatamente una delle emergenze principali nell'opinione pubblica. 
Nel secondo caso bisogna confessare che se solo si andasse a guardare il consumo di suolo per impermeabilizzazioni registrato in Italia, allora il giudizio necessariamente deve cambiare. Prova ne è il trend del consumo di suolo che vede una costante progressione negli anni. L'ISPRA certifica che la percentuale di suolo impermeabile (urbanizzato) sulla superficie nazionale passa dal 2,9% negli anni Cinquanta, al 5,4% nel 1989, al 7,3% nel 2012. Il 30% del consumo è dovuto alla costruzione di edifici e capannoni ed è noto quanto questa proliferazione di nuove costruzioni non si sia fermata in moltissimi comuni neppure di fronte a rigidi vincoli urbanistici o idrogeologici. 
Nelle condizioni date, per favorire la diffusione di valori ambientali e dell’attenzione alla difesa del territorio nell'opinione pubblica, bisognerà valorizzare esperienze preesistenti e sfruttare le nuove disposizioni introdotte in materia dalle norme europee. 
Tra le esperienze significative occorre citare tra le prime le azioni e le opere condotte dai consorzi di bonifica. Una larga parte del territorio italiano esposto a rischio idrogeologico (sostanzialmente le pianure interessate dai fenomeni di esondazione dei corsi d'acqua, di ristagno idrico e di alluvione) è tutelata da opere di difesa idraulica, consistenti prevalentemente in canali di drenaggio, idrovore, vasche di laminazione e di intercettazione del trasporto solido. La loro manutenzione è affidata, sulla base di una normativa che risale al 1904, ai consorzi di bonifica partecipati da tutti i proprietari di immobili che ricevono beneficio dalle suddette opere di difesa idraulica. Questa manutenzione, almeno in linea di principio, è a costo zero per i bilanci pubblici, dal momento che viene sostenuta dalla contribuzione dei proprietari consorziati. Ciò non toglie che nei confronti dei consorzi si debba operare una grande azione di trasformazione e riordino per recuperare grandi margini di inadempienze e renderli sempre più 
efficienti. 
La partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia di acque è prevista e incentivata a livello comunitario dalla Direttiva 2000/60/CE (art. 14) e a livello nazionale dal Decreto legislativo 152/06. Questa norma, come d'altronde molte altre della Direttiva, è stata ignorata dalle nostre autorità. Per la sua implementazione necessiterebbe di strategie di governance. A tal proposito strumenti efficaci di programmazione negoziata con gli stakeholders potrebbero essere i "contratti di fiume", già diffusi in molte nazioni europee, che stanno trovando anche in Italia un crescente interesse. Attraverso i contratti di fiume a livello di bacino o sottobacino è possibile supportare la pianificazione e programmazione all'interno dei distretti idrografici e integrare i piani e le norme sulla gestione e tutela delle acque con quelli per la difesa del suolo. Tali strumenti sono stati riconosciuti nel Collegato ambientale; ora vanno supportati a livello nazionale, oltre che distrettuale e regionale integrandoli e sostenendoli attraverso misure legislative e finanziarie che ne supportino le fasi di avvio, ne controllino e uniformino a livello nazionale la qualità dei processi. 
Una azione efficace di difesa del suolo da inondazioni e frane richiede ed esige una azione puntuale e capillare di manutenzione ordinaria dei versanti e del sistema idrografico affidata alla popolazione locale di collina e di montagna. In questa prospettiva non si può prescindere dall'attività degli agricoltori. Nelle politiche di Sviluppo Rurale alcuni dei presupposti di base per poter ottenere positivi risultati nella gestione del territorio e nella mitigazione del rischio idrogeologico sono: la definizione di pratiche agricole che diano effettivi benefici e sulle quali concentrare le misure dei programmi di sviluppo rurale; la formazione ed informazione degli agricoltori; l'affidamento da parte delle amministrazioni locali di piccoli lavori di ingegneria naturalistica. 

[A proposito della maggiore frequenza degli eventi alluvionali]
In merito al «continuo susseguirsi delle alluvioni»  (*citazione dal secondo quesito) che abbiamo vissuto nelle scorse settimane, va preliminarmente considerato che, in realtà, anche nei decenni trascorsi si sono frequentemente verificate tragiche sequenze di eventi alluvionali in località differenti, anche con drammatiche repliche, nei medesimi corpi idrici, in montagna, nei territori in pianura, o lungo le  coste.
È il caso, ad esempio, del Triveneto dove, proprio in conseguenza del ripetersi di alluvioni, che per diversi anni avevano colpito quel Distretto idrografico, nel 1907 una legge parlamentare costituì il Magistrato alle Acque per le province venete e di Mantova, dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici, con sede a Venezia, con il compito del buon governo delle acque pubbliche e del regime dei porti. La natura dell’Istituto era soprattutto tecnica, strutturata gerarchicamente, e si avvaleva di una rete distribuita di uffici statali del Genio Civile, generali e speciali, del Servizio idrografico e delle Opere marittime.  
Per oltre un secolo quell’istituto dimostrò una particolare efficienza e prestigio tecnico, tanto da essere di esempio per analoghe strutture speciali successivamente istituite in altri ambiti particolari del Paese (il Magistrato per il Po, nel 1953, l’Ufficio speciale per il Tevere e l’Agro Romano, l’Ufficio speciale del Reno, ecc.). La Commissione de Marchi, nel 1970, propose di estendere a tutto il Paese la costituzione di una decina di Magistrati alle Acque. Ma la proposta non ebbe seguito, soprattutto per il sopravvenuto decentramento di molte funzioni dalla Stato alle Regioni, tra cui quella della difesa del suolo, avvenuto a partire da quegli anni. 
Trascorso un ventennio di dibattiti e ripensamenti, finalmente nel 1989 il nostro Paese si dotò di un’importantissima riforma legislativa – la legge n.183 sulla difesa del suolo – che ha introdotto il concetto cardine del piano di bacino idrografico, ponendo così le basi per un nuovo percorso per le politiche dell’assetto idrogeologico ed il governo delle acque.
Con il trascorrere degli anni però, la legge si dimostrò via via inefficace e i suoi ambizioni obiettivi in generale non erano raggiunti. L’elenco degli eventi alluvionali accaduti stanno purtroppo a dimostrarlo.   
I piani di bacino si sono dimostrati strumenti troppo lunghi e articolati, con tempi di approvazione dell’ordine del decennio, e comunque strumenti di scarsa utilità ai fini della mitigazione del rischio idrogeologico e del governo delle acque. Le azioni indicate dai piani, faticosamente approvati, in genere non sono state attuate, non solo e non tanto per mancanza di finanziamenti, ma soprattutto per l’insorgere di altre complesse cause, quali l’opposizione delle popolazioni interessate dagli interventi strutturali previsti (casse di espansione, dighe, …), le sentenze conseguenti ad alcuni ricorsi amministrativi, la rimessa in discussione delle soluzioni indicate dai piani stessi, ecc. Non ultima la mancata approvazione, da parte della Conferenza delle Regioni, dei previsti programmi triennali degli interventi, fondamentali strumenti attuativi dei piani, da inviarsi al Ministero del Tesoro per il successivo inserimento nelle leggi finanziarie.
Un punto nodale dell’inefficacia dei piani di bacino ha riguardato la loro separazione dalla pianificazione urbanistica. Le prescrizioni dei piani troppo debolmente hanno inciso sulla pianificazione territoriale, di diretta competenza delle Regioni.
Più recentemente sono state numerose le norme che hanno modificato la legge 183, nel vano sforzo di un suo miglioramento. In particolare, a partire dal 2006, le “riforme” legislative (tra cui il Testo Unico dell’Ambiente D.Lgs. 152/2006) hanno avuto l’ambizione, spesso mal riposta, di confermare gli aspetti positivi della legge “madre” integrandoli con il recepimento delle Direttive comunitarie sulle acque e sulle alluvioni (Direttive 2000/60/CE e 2007/60/CE). Nei fatti le nuove norme, con l’istituzione del Distretti Idrografici, a tutt’oggi non ancora costituiti, hanno complicato notevolmente il quadro della governance, rendendo ancora più difficile la difesa del suolo nel nostro Paese. Il “successo” dei piani di bacino è andato via via ulteriormente riducendosi, sempre più dimenticati dalla politica, dai media, e dalla cittadinanza, che ne ha criticato soprattutto le scelte poco partecipate, mentre sono proliferate le politiche idriche e di difesa idrogeologica “fuori campo”.
Nel frattempo, negli ultimi decenni, il territorio è profondamente cambiato, a cominciare dai versanti montani, scendendo in pianura, fino ai litorali marini. Il “consumo” di suolo, l’abbandono della montagna, la cementificazione delle reti idrauliche e la mancanza della loro manutenzione, le incontrollate escavazioni di ghiaia dagli alvei, il sovra sfruttamento delle falde acquifere e la subsidenza, sono solo alcuni degli aspetti, ormai largamente conosciuti, di quanto è accaduto, cui si deve aggiungere il contestuale cambiamento climatico, che ha portato una diversa piovosità, l’innalzamento del livello marino, l’intrusione salina nelle falde acquifere, ecc. L’insieme di questi fattori ha aumentato inesorabilmente il rischio idrogeologico ed il rischio dello stato ecologico di tutti i corpi idrici del nostro Paese, sia in termini di probabilità di accadimento degli eventi, sia per quanto riguarda gli effetti che questi provocano per la vita e la salute umana, l’ambiente, il patrimonio culturale, l’attività economica e le infrastrutture. 
Di fronte all’incapacità di mettere “in piedi” un sistema valido di difesa del suolo, si è consolidata la capacità del “navigare a vista”, privilegiando il sistema della Protezione civile, svincolato dalle autorità di bacino e facente capo soprattutto alle amministrazioni regionali e decentrate, fondato sulle attività della previsione, della prevenzione e degli interventi urgenti per il ritorno alla normalità dopo il verificarsi di eventi emergenziali (alluvioni, siccità, ecc.). E purtroppo la logica dell’emergenza è diventata sistema, non si è cioè limitata alle sole situazioni calamitose.
Infatti, da alcuni anni, i diversi governi del Paese si sono dimenticati dei percorsi previsti dal quadro normativo ordinario della difesa del suolo (fondato sui piani di bacino) ed hanno invece adottato altri schemi gestionali, fondati sulla nomina di commissari governativi straordinari (i presidenti delle regioni) e degli Accordi di programma Ministero-regioni, finalizzati all’attuazione di interventi urgenti e prioritari individuati e quantificati dalle stesse regioni. 
A tale riguardo recentemente il Governo ha istituito la Struttura di Missione contro il dissesto idrogeologico che ha confermato tale percorso anomalo, e proprio in questi giorni ha proposto un piano straordinario per il periodo 2014-2020 per interventi per la sicurezza nelle città e aree metropolitane per oltre un miliardo di euro. Tutto ciò senza spiegarne la compatibilità con i piani di gestione del rischio di alluvioni, previsti dalla Direttiva 2007/60/CE, per il periodo 2015-2021 che le autorità di bacino presenteranno entro quest’anno.
Nemmeno il Parlamento finora è riuscito ad imporre una svolta a questi singolari percorsi anomali, pervenendo ad una riforma legislativa da troppi anni attesa

[Considerazioni a margine della cultura del cemento]
Per fronteggiare subito la cementificazione, bisognerebbe almeno approvare il disegno di legge n. 948 proposto dall'ex Ministro delle Politiche Agricole Mario Catania, che, quantomeno, si prefiggeva l'obiettivo di contenere il consumo di suolo e incoraggiava la ricerca di soluzioni innovative capaci di guardare positivamente alle sfide future. Dovremmo quindi avviare una grande stagione di rigenerazione urbana, cioè un cambiamento del ciclo edilizio e una riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio edilizio esistente. Gli strumenti di governance, le intelligenze e le tecnologie per un New Deal dell'ambiente, del paesaggio e dei beni culturali in Italia sarebbero allora possibili. Centri di ricerche e università, associazioni, movimenti e singole intelligenze e, non per ultime, le parti più avanzate della pubblica amministrazione potrebbero diventare i protagonisti di questo riscatto. Sembra, però, mancare – e questa è l'aspetto negativo – una forte volontà politica. 
Secondo l'Ispra, negli ultimi tre anni abbiamo coperto di cemento 720 chilometri quadrati di suolo. Nemmeno la crisi economica quindi ha fermato questa cementificazione, che devasta l'Italia senza neanche risolvere l'"emergenza casa" che riguarda ben 650 mila famiglie che per reddito e condizioni avrebbero diritto ad un alloggio di edilizia popolare. 
A rendere più complesso il discorso occorre ricordare che in queste materie si incrociano competenze di Stato e regioni, alcune esclusive, alcune concorrenti e altre invece trasferite alle regioni, come quelle in materia di urbanistica. Ma sommariamente anche gli enti locali non sono esenti da colpe, anzi i comuni e le regioni hanno spesso adottato "piani casa regionali" e piani regolatori generali discutibili che hanno favorito la cementificazione dell'ex Bel paese. 
Come abbiamo visto in questi giorni l'incrocio tra consumo di suolo, dissesto idrogeologico e cambiamenti del clima è un mix esplosivo, che richiede interventi di messa in sicurezza urgenti ma anche, e soprattutto, un'idea di programmazione e coordinamento delle funzioni e delle competenze che sembra scomparsa dall'orizzonte ideale delle attività dello Stato centrale. 
Sembra però che con la conversione in legge del Decreto "Sblocca Italia" le scelte del governo Renzi siano state altre. I sostenitori dello "Sblocca Italia" usano spesso parole come modernità e progresso ma il modello è quello vecchissimo del boom edilizio degli anni '60. A questo proposito Salvatore Settis parla di una "modernità invecchiata", quasi un ossimoro per descrivere una forma di arretratezza culturale non percepita dalle classi dirigenti che si ostinano a proporre soluzioni non percorribili dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Agricoltura, città, biodiversità, bacini idrici dovrebbero stare insieme in un disegno che garantisca gli interessi della collettività e non divenire terreno di rapina per vecchi e nuovi speculatori. 
Volendo entrare nel merito, si può affermare che diverse previsioni del Decreto Sblocca-Italia potrebbero diminuire la capacità di controllo delle amministrazioni nel governo dell’interesse collettivo. Con il capo IV, “Misure per la semplificazione burocratica”, rafforza l’influenza del sistema finanziario sulle grandi opere e sulle città. Nel Capo V, l’articolo 17 prevede un “permesso di costruire convenzionato”, in cui occorrerà prestare attenzione ai modi secondo i quali avverrà il negoziato tra costruttore e amministrazioni. Inoltre, le opere di urbanizzazione, diventano eseguibili per “stralci”, con tutte le difficoltà relative a un processo amministrativo che diventa più complicato e probabilmente sfilacciato nel tempo. L’articolo 25 “semplifica” (cioè di fatto rimuove, dice Settis) ogni autorizzazione per “interventi minori privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso, sicuramente facilitando le prassi di trasformazione del territorio.
L’articolo 26 stabilisce che i comuni possano presentare un proprio progetto per cambiare destinazione agli immobili non utilizzati appartenenti al demanio dello Stato. Questa variante urbanistica consente all’Agenzia del Demanio di vendere, dare in concessione o cedere il diritto di superficie di quell’immobile o complesso immobiliare. I Comuni potrebbero, quindi, essere incentivati a svendere il patrimonio pubblico. Con l’articolo 31, infine, si permette ai proprietari di alberghi, di ottenere il cambio di destinazione urbanistica automatico anche per le strutture ricadenti in zona agricola. Anche in questo caso con un grave rischio per le delicate strutture territoriali nelle quali saranno inserite funzioni non necessariamente compatibili con il contesto.
Concludiamo la risposta con una domanda provocatoria. Come è possibile contrastare il dissesto idrogeologico e i cambiamenti climatici se neppure il Governo sembra sostenere con convinzione politiche di forte contrasto ai processi di nuova cementificazione e consente, con eccessiva disinvoltura, l'estrazione dei combustibili fossili sul nostro territorio? 

[Sui danni economici prodotti dal dissesto, che superano largamente il costo della messa in sicurezza del territorio, e sulle controversie legate alle  grandi opere
La risposta a quesiti di questo genere non è semplice. Ci pare di poter distinguere due aspetti prevalenti.  Il primo attiene alla difficoltà di portare a compimento interventi di natura preventiva rispetto a probabili eventi calamitosi di cui si conoscono con certezza le cause. Il dibattito che si è attivato in queste settimane in conseguenza dell'ennesimo disastro provocato dalle esondazioni nella città di Genova testimonia in maniera abbastanza chiara la situazione in essere. Complicazioni inerenti all'assegnazione dell'appalto delle opere pubbliche, difficoltà nella messa in atto dei lavori, aleatorietà dei tempi e delle responsabilità nella conduzione del processo attuativo, costituiscono fatti tristemente noti per i quali non si è finora riusciti a trovare una soluzione radicale in tempi sufficientemente brevi. La recente istituzione e attivazione della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche presso la Presidenza del  Consiglio, nelle mille indeterminazioni, ha almeno il merito del tentativo di razionalizzazione a livello centrale della miriade di iniziative in corso sul territorio nazionale, perlomeno sul piano della gestione della spesa e degli investimenti approvati, in molte occasioni, da lungo tempo. Corollario a questa situazione è un aspetto ancor più problematico da risolvere e che attiene ai modi secondo i quali selezionare i nuovi interventi per la messa in sicurezza del territorio alla luce delle segnalazioni "storiche" dei piani per l'assetto idrogeologico, elaborati e approvati nello scorso decennio, e alle nuove domande che nascono nell'attualità. Gli interventi previsti nei piani assommavano a circa quaranta miliardi di euro a cui occorre aggiungerne con ogni probabilità altri venti. Si tratta evidentemente di cifre imponenti, che potranno essere rese disponibili secondo un impegno temporale, nella migliore delle ipotesi, non inferiore ai vent'anni. Diventa, quindi, fondamentale la selezione delle priorità secondo una prospettiva nazionale o almeno dei distretti idrografici istituiti ai sensi delle direttive europee. Questa attività di selezione è compito specifico della pianificazione di bacino idrografico e, nello specifico, dei piani di gestione del rischio alluvioni dei distretti che le autorità di bacino nazionali, in collaborazione con le regioni interessate, stanno provvedendo a elaborare. La sfida sembra prospettarsi in questi termini: quanto riusciranno ad essere autorevoli e convincenti tali piani e come riusciranno a raccogliere il più ampio consenso ai fini della selezione delle priorità di intervento negli anni a venire? Come reagiranno le comunità locali di fronte al lungo periodo transitorio necessario per vedere finalmente i risultati tangibili degli interventi prospettati? Quanto le amministrazioni di vario ordine e grado saranno in grado di accompagnare gli interventi di messa in sicurezza del territorio con parallele e importantissime attività, cosiddette non strutturali, di limitazione preventiva delle condizioni di rischio nonché di allertamento ed educazione alla convivenza con il rischio stesso? 
Il secondo punto riguarda la programmazione dei grandi investimenti infrastrutturali del nostro Paese e per certi versi è tema un poco distante dagli interessi specifici del Gruppo 183. È fuor di dubbio che le grandi opere solletichino le aspettative dei decisori politici, dei grandi investitori e anche delle comunità locali interessate, oltre a rivestire un valore simbolico per un'intera comunità nazionale sovente mortificata dall'incapacità storica di portare avanti grandi programmi pubblici di natura strategica. Spesso derivano da accordi internazionali non semplici da risolvere. Altrettanto di frequente hanno già visto ingenti finanziamenti della fase progettuale se non di attività già espletate. Proprio per la loro natura e gli interessi coinvolti hanno dato luogo a dibattiti assai controversi, nei quali i saperi esperti non sono risultati dirimenti. 
La questione può allora essere affrontata da un altro punto di vista. Come mai non si è riusciti ad affiancare alla proposta dei grandi progetti e delle grandi opere una altrettanto "grande" e molto più meritoria opera di manutenzione generalizzata del nostro territorio. Perché ci si è dimenticati così in fretta della necessità di un presidio territoriale dell'attività antropica sul territorio montano e rurale? È fuor di dubbio che, tradizionalmente, azioni amministrative in tal senso non abbiano costituito lo scenario preferito dai decisori, proprio per la difficoltà intrinseca delle scelte da farsi e per la mancanza di un sicuro "ritorno" di natura politica delle posizioni assunte. 
Più difficile da comprendere è la sostanziale incapacità di risposta della società civile nel suo complesso, fatti salvi i soliti noti nel mondo delle associazioni, della ricerca e delle amministrazioni settoriali che istituzionalmente si occupano di questi temi. Senza voler sconfinare in questioni antropologiche probabilmente improprie, si possono ricordare un certo fatalismo nei confronti degli eventi naturali, la difficoltà nel trovare una rappresentanza politica adeguata rispetto a questi temi, addirittura una certa complicità derivante dal vantaggio economico di alcune, pur scellerate, scelte di localizzazione di insediamenti e attività. 
Sembra comunque che la rilevanza e la quantità dei problemi messi in gioco dal dissesto di natura idrogeologica non siano mai riuscite a raggiungere quella "massa critica" necessaria per coinvolgere in maniera diffusa i decisori e le comunità insediate, nonostante, il terribile stillicidio della perdita di vite umane. Addebitando le cause dei fenomeni, in maniera a volte davvero vergognosa, alle mutate condizioni di natura, come se l'insipienza nella gestione pubblica del territorio e la connivenza dei tanti soggetti interessati al proprio particolare non fossero quasi sempre l'elemento scatenante dei danni e dei lutti. Probabilmente la vera condizione di eccezionalità nel dispiegarsi degli eventi. 

[La gestione dell’emergenza sul territorio]
La sensazione è che, nonostante i limiti noti e le derive dell’ultimo periodo in cui vi era a capo Guido Bertolaso, la Protezione civile italiana abbia quasi sempre dimostrato una significativa competenza tecnica per la prima emergenza, soprattutto per i grandi eventi calamitosi successivi al terremoto dell’Irpinia. Più discutibili le scelte effettuate per la risposta di medio periodo, comunque molto condizionate dalle decisioni politiche. Inoltre, anche la Protezione civile nazionale, come lamentato a più riprese, sembra aver subito negli ultimi tempi il mancato sostegno da parte degli organi di governo, diminuendo in maniera assai significativa la sua rilevanza e la efficacia.
Molto più articolata è la situazione della Protezione civile a scala locale, dove la capacità di risposta e le competenze presenti sono molto differenziate nel territorio nazionale. Ed è su scala locale che diventa necessario essere in grado di dare una risposta adeguata alle conseguenze provocate dai fenomeni di natura idrogeologica. 
È, quindi, molto difficile suggerire azioni con carattere di generalità. Sicuramente occorre ribadire ancora una volta che l’unico modo per riuscire a rendere meno critica l’azione immediatamente post-evento è mettere in campo un rigoroso programma di azioni di natura preventiva atte ad ottenere la maggiore consapevolezza possibile delle popolazioni insediate. Indubbiamente, in molti casi, è necessaria la realizzazione di opere per la diminuzione del rischio presente. Ma a fianco di questi interventi devono essere promosse regole per il corretto uso del territorio e il giusto comportamento durante gli eventi, compresa la corretta valutazione dell’allerta. Risulta, inoltre, necessario prevedere una migliore forma di coordinamento e responsabilità della catena decisionale a carattere locale, tra soggetti istituzionali – le amministrazioni interessate – e il composito mondo delle associazioni volontarie, in modo tale da evitare carenze organizzative e vuoti di direzione nei momenti immediatamente successivi all’evento.
In molte parti d’Italia non si parte da zero, occorre allora essere sempre più puntuali ed efficaci nelle procedure già stabilite. E, come sempre, occorrono i fondi relativi per tenere in vita o prevedere ex novo le strutture necessarie.

(Intervista di Claudia Ciardi)

10 dicembre 2014

Estanislao Pryiemski – Un polacco in Mato Grosso


Pre-war Warsaw

La storia di Pryiemski, viaggiatore, naturalista, esploratore, ma soprattutto personalità eccentrica, si può leggere in uno di quei libri che fino a qualche anno fa – nel caso di cui si parla la pubblicazione risale agli anni Novanta – ingrossavano collane tirate su in fretta, dove una bella foto di copertina cercava di farsi perdonare la mancanza di pregi letterari. Adesso non è raro incontrarne ciò che resta sui banchi di mercatini itineranti o tra le scaffalature di botteghe dell’usato, ed è in un posto così che mi è venuta tra le mani l’avventura di quest’uomo insolito, spirito essenzialmente solitario, posseduto fin da giovanissimo dal desiderio di uscire dal vecchio continente per vivere più vicino alla natura, in luoghi non ancora aggrediti dalla legge del profitto.
Questo ambiente lo ha trovato in Mato Grosso, raggiunto nel 1924 quando si decise a lasciare la Polonia. Aveva allora trentadue anni e non senza incappare nella disapprovazione dei genitori voltò le spalle a un futuro di amministratore delle proprie terre. C’è da chiedersi però se la scelta di Pryiemski, alla luce dei rovesci che coinvolsero la Polonia nel ventennio successivo, non si sia rivelata in qualche misura opportuna. È probabile che con l’invasione dei nazisti difficilmente avrebbe preservato intatti i suoi beni e una posizione di relativa agiatezza. Ad ogni modo non è dato sapere nulla sulle sorti dei suoi familiari, sulla vita che costoro seguitarono a fare a Varsavia, luogo delle loro origini, e nell’antica fattoria dove Estanislao trascorse le vacanze estive fin dall’infanzia. Il libro ho voluto leggerlo per questa strana commistione di eventi in cui un polacco di Varsavia, ancora giovane e con un avvenire assicurato dai suoi possedimenti, abbandona tutto per andare dall’altra parte del mondo, in un territorio quasi impenetrabile, il Pantanal, tagliato fuori dalle normali vie d’accesso e di comunicazione con cui siamo abituati a figurarci lo spazio del vivere. Dico la verità, speravo di reperire più notizie biografiche, soprattutto che fosse chiarito quel salto interiore all’apparenza assurdo e privo di coerenza che dal cuore dell’Europa ha fatto abbracciare all’autore un’esistenza precaria e molto grama sul piano delle risorse.
Tranne alcuni incarichi ufficiali, e comunque saltuari, presso il Museo Nazionale di Rio de Janeiro, infatti, Pryiemski ha vissuto alla giornata, praticando i suoi studi in proprio, oggi si direbbe da freelance, accanto ad attività di puro sostentamento, quali la caccia e la pesca, passando lunghi periodi insieme agli ultimi indios guatos che gli hanno sempre riservato un’ospitalità generosa.  
Di Pryiemski non esistono praticamente immagini, tranne un ritratto in seppia, riprodotto in quarta di copertina, accanto a un ema, lo struzzo dell’Amazzonia. È una foto nella quale appare ancora piuttosto giovane, certamente lontana dall’incontro con Gino Ballabio, l’italiano che andò a raggiungerlo a Campo Grande nella primavera del 1981. A più di duemila chilometri da Rio de Janeiro e dodici ore di treno surreale in mezzo al cosiddetto Mar do Xaraes, uno dei tanti nomi dati nel tempo al Pantanal, Ballabio si trovò davanti un ottantanovenne provato dalle febbri, sebbene ancora lucido e pieno di entusiasmo per i suoi progetti. Voleva continuare a scrivere, classificare animali e piante, salvare le voci della foresta. Questo anzi era stato da sempre uno degli obiettivi principali delle sue escursioni. Dalla Polonia aveva portato con sé un armamentario di imbuti cattura-suoni, registratori a piste, magnetofoni, apparecchi che ne solleticarono l’interesse a partire dai primi viaggi attraverso il continente europeo, quando era studente di agronomia applicata a Bruxelles. Anche di tale periodo si sa poco o nulla, non trovandosene traccia in annotazioni diaristiche o d’altro tipo, né Pryiemski vi indugia nel suo libro che potremmo definire di congedo, essendo il frutto di una testimonianza suscitata dall’incontro con Ballabio, nell’ultimissimo scorcio della propria avventura. Si può arguire che simili attrezzi e il progetto di catturare la voce della foresta, fossero il retaggio del suo personale confronto con le avanguardie europee del primo Novecento dove, tra le altre cose, si dette libero sfogo ai più vari e bizzarri esperimenti musicali. 
Immaginarlo in canoa, mentre scivola su fiumi in piena, in cerca di posizioni d’ascolto favorevoli, pare ben strano. E tuttavia, in questo conciso resoconto, la sua devozione per le voci della natura emerge con estremo vigore. È anzi il tratto distintivo di un carattere pervaso dall’attaccamento a un posto fragilissimo, i cui equilibri sono inesorabilmente minacciati. Proprio le notti divengono i momenti più vicini a quella rivelazione che Pryiemski sembra aver cercato nel corso della vita. Il Pantanal si fa allora centro di una solitudine sterminata ma anche di assoluta perfezione. Ornitologo colto e appassionato, le pagine più commosse le riserva all’osservazione e al canto degli uccelli amazzonici. Questi passi contengono perfino lampi di poesia. 
Restiamo dunque affascinati e confusi dal volo di gruppo della grande cicogna jaburè, dalle lunghe file di cormorani che sorvolano gli acquitrini, dagli stormi di anù che nelle prime ore dei pomeriggi assolati si cimentano in fragorosi concerti, dalla spietatezza dell’urubu nero, l’avvoltoio che si scaglia sulla vittima per finirla, dalla voce presaga della gallinella dei pantani, la saracura, che col suo nome di vaghe assonanze giapponesi si mette a cantare poco prima che inizi a piovere; e poi ancora l’anhuma, la chimera notturna il cui verso rimbalza lontano nell’oscurità, i neri cormorani appollaiati sugli alberi sbiancati dal guano, i biguasciri, di nuovo una parola che sa d’oriente, con cui i brasiliani si riferiscono a questi singolari posatoi d’uccelli. Scene di un aldilà orfico.
Ma vi è un ricordo che più di altri scopre i contorni dell’inconsueta sensibilità dell’autore. Un giorno, nella capanna di una famiglia india, due anatre si levano all’improvviso dal fiume e la bambina in braccio alla madre, tendendo le mani verso gli animali, dice in un soffio: «Mamma due anatre». Su uomini e cose scende l’armonia di chi ha appena afferrato un segreto. Pryiemski registra l’episodio come unico e irripetibile, l’attimo di una verità sciamanica. 
Sul rapporto con gli indios si sofferma non poco. Uomini disperatamente aggrappati a uno stile di vita messo in discussione, sopravvissuti ma non per molto ancora, ripete con sconforto quel bizzarro amico straniero, che ha deciso di condividere con loro cibo e sorte. Suo amico fraterno, l’indio Toenaro, è stato per lui una guida fedele, spalla, scorta, complice, maestro.
Non mancano infine delle sagge stilettate contro l’espansione demografica. Un problema di cui gli occidentali parlano con sconvolgente ipocrisia. Anzi, a essere precisi non ne parlano. È questo infatti un argomento tabù, perché l’essere umano nelle società considerate progredite è prima di tutto un consumatore, quindi serve virtualmente a mantenere elevata la domanda di beni – ma nel mondo globale nessuno è fuori dal meccanismo. Non ci viene mai in mente che le risorse di cui disponiamo sono limitate, e la terra non può reggere un aumento di popolazione più che esponenziale. Il vero attaccamento alla vita lo si dimostra con meno falsità su questi argomenti. Se la vita la vogliamo preservare davvero, insieme all’ambiente che la ospita – e non si tratta di due cose separate, come troppo spesso si lascia intendere – bisogna imparare a parlarne in maniera un po’ più svincolata da certi dogmi. Di quale benedizione dovrebbe trattarsi, se un bambino si affaccia in un mondo sfruttato, depredato, sovvertito, annientato?
Pryiemski ha il coraggio di porre queste domande a viso aperto e con estrema semplicità. Un punto di vista che in genere si riscontra in coloro che hanno sperimentato cosa significa vivere in natura, faticare per procurarsi il necessario, sapere che si può contare sulle proprie forze e poco altro. Una lezione che noi, inguaribili geocentrici veterocontinentali, abbiamo completamente smarrito.

(Di Claudia Ciardi)  


Estanislao Pryiemski
Le voci del Pantanal
A cura d Gino Ballabio
Piemme, 1998



4 dicembre 2014

Holzwege - Questione di sentieri





La seguente riflessione nasce attorno a una frase di paternità ignota che, va detto, non è proprio un esempio di chiarezza anzi, posto che si venga in qualche modo rassicurati sul senso, non è del tutto condivisibile, ma invitante comunque a sviluppare un ragionamento sul camminare.
«Sulle montagne si possono trovare centinaia di sentieri che portano tutti nella stessa direzione, non importa quale decidiate di prendere. L'unica perdita di tempo è quella di colui che cammina in lungo e in largo, dicendo a quelli che incontra che il suo sentiero è sbagliato».
Riporto le voci dei tre commentatori sotto forma di variabili. 

x: Perplesso.
y: A che proposito? 
x: Riguardo la temerarietà delle affermazioni.
z: Che si imbocchi il sentiero "giusto" o quello "sbagliato", il passaggio delle nubi sulle montagne non delude mai.
x: L’errore grave di questo scritto è che nella natura le parole giusto e sbagliato sono senza virgolette.
y: Sbagliato senza virgolette, la parola "giusto" non c'è. Ho cercato questo scritto un po' dappertutto ma non ho trovato una vera e propria fonte.
z: Le virgolette stanno a indicare la relatività di due concetti che, come dici tu, non sono per l'appunto dati in natura e neanche nella vita dell'essere umano. Cosa sia giusto o sbagliato nessuno lo sa, il bello è mettersi in cammino.
x: Veramente ho scritto proprio il contrario. Ma va bene.
In natura se si prende il sentiero giusto si torna a casa. Se si piglia lo sbagliato è meglio, se c’è nebbia, avere il sacco a pelo. In Italia escono ogni anno 13000 titoli nuovi circa.
[L'incauta “z” aveva avuto l’ardire di presentarsi poco prima come soggetto in forze all’editoria]
z: Lo dirò senz’altro al mio editore. Quanto ai sentieri, mi è capitato più di una volta di imboccare quelli sbagliati, ma quando ormai pensavo di essermi persa, ogni volta mi sono ritrovata in un luogo assai migliore.

Al di là del tono di fondo piuttosto pugnace, e la materia non mi pare cosa su cui accalorarsi, questo breve confronto mi ha stimolata a scriverne. È evidente che “z” gioca sul filo della metafora. Assurdo sarebbe infatti prendere alla lettera la frase citata all’inizio. I sentieri in montagna non vanno affatto nella stessa direzione, alcuni si perdono nel nulla, altri sono semplicemente impraticabili per le ragioni più diverse. Invece, postulando che alla base dell’affermazione vi sia l’idea che il viaggio è bello per sé, e dunque vale la pena affrontarlo, anche se questo comporta incertezza e forse perfino incoscienza, allora l’insieme del discorso diviene più congruente. Nell’identico procedere dei sentieri verso la meta, bisogna leggere, credo, quel pungolo a mettersi in strada che l’essere umano, qualsiasi sia l’epoca o la latitudine di provenienza, possiede come uno dei suoi istinti. 
È curioso che nel dialogo riportato, la necessità di accogliere sotto forma di metafora quanto si dice non venga presa in considerazione. Ma vi è pure un ulteriore aspetto che sollecita a soffermarsi sulle parole. “Giusto” e “sbagliato”, virgolettati per introdurre alla via metaforica, sono certamente due concetti basati sull’esperienza umana. Quindi, anche fuor di metafora, dire che in natura le virgolette non ci sono equivale a sostenere che il cielo è azzurro; sì, azzurro al nostro occhio. La natura, dal suo punto di vista, non contempla affatto questi due concetti. L’uomo con il fraintendimento che ne deriva, glieli affibbia in totale disinvoltura. Del resto è l’unico modo che ha per immaginarla. Considerarla anche solo parte del suo ragionare, per quanto polo opposto e incomprensibile e depositario di forze minacciose, implica da parte sua l’inserimento in un sistema di pensiero che da se stesso volge all’esterno.
L’uomo traccia le sue strade, interiori e reali, ovunque ritenga opportuno, a volte non senza forzature o aggressioni; anzi proprio da questo atteggiamento spesso manchevole della ricerca di una complicità con la natura, ossia di far arretrare se stesso, vengono nefaste conseguenze. Dunque, socraticamente parlando, cosa sono il giusto e lo sbagliato in assoluto l’uomo non è in grado di saperlo. Cosa siano per la natura è domanda priva di fondamento, perché presuppone vestire la natura di panni che non può indossare.
E siccome, benché s’illuda, la riflessione umana è necessariamente limitata, sarà pure il caso di non interrogarsi troppo su quelle vie che, almeno in apparenza, non ci portano a nessuna meta. Ce le ha descritte magnificamente Martin Heidegger, battezzandole Holzwege, alla lettera “sentieri del legno”, in quanto servono ai boscaioli a portare la legna fuori dal bosco e quindi si interrompono dove gli alberi sono stati tagliati. Con tale metafora Heidegger voleva affermare che non esiste un’unica via per pensare, ma che tutte hanno una loro utilità e legittimità.

(Di Claudia Ciardi)


Torre di Caprona - Monti Pisani

30 novembre 2014

Intervista a Paolo Arduini


Mi sembrava necessario per questo mese concentrare la discussione sul dissesto idrogeologico. I ‘bollettini di guerra’ venuti da Genova ma anche da molte altre parti d’Italia hanno riacceso tanti interrogativi. Purtroppo ho dovuto constatare, nel corso dei miei scambi con quanti sono stati colpiti dal disastro e con attivisti, che c’era molta stanchezza e poca voglia di mettere su carta qualche considerazione. Se fossi un amministratore del territorio, questo sentimento diffuso in maniera così capillare, mi susciterebbe non poche preoccupazioni. Siamo inequivocabilmente davanti a un distacco dettato prima di tutto dalle difficoltà materiali in cui migliaia di persone si sono trovate, dalla rabbia per aver denunciato in tempi recenti le criticità (il caso di Carrara mi pare emblematico) senza ricevere risposte adeguate, e infine anche dall’idea che “ormai è tutto inutile”, il che ha comportato e comporta l’isolamento di migliaia di cittadini i quali non riescono più a pensare se stessi come parte attiva di un contesto.
L’esito dell’ultima tornata elettorale fa spavento. A giudicare dal clima che, seppure su scala minore, ho percepito nelle settimane precedenti, per cui chi ancora ha qualcosa a cui attaccarsi va avanti a testa bassa e senza far motto, e chi non ha più nulla ha perso anche la voce, il crollo non poteva non attendersi. Un astensionismo così alto è uno schiaffo in pieno viso alla politica di qualunque colore. E il premier, secondo me, è caduto in un errore marchiano, commentando i risultati. Minimizzare i dati sull’astensione può sembrare un modo risoluto attraverso cui prendere di petto l’onda del dissenso, che per questa via si è espresso. Ma in una compagine sociale già estremamente sfilacciata a causa del protrarsi della crisi e dei problemi ulteriori che la crisi accompagnano, il rischio concreto è di esserne travolti. Il dissesto del territorio non è tema secondario. Oltre all’impatto materiale sulla vita delle persone, ne ha un altro assai più profondo in chi non ne è colpito direttamente, a livello psicologico. L’impressione di vivere in una “casa” che crolla e verrà spazzata via, suscita paura, disorientamento, ma anche il bisogno di essere ascoltati da chi opera nelle amministrazioni centrali e locali. Se non si creano mai le condizioni di un incontro, se non si gettano le basi per un disegno di risanamento vero – la proposta toscana a “volumi zero” che blocca la deriva cementizia è un primo passo – se, insomma, ci si veste di decisionismo, lo si mangia a colazione, pranzo e cena, però poi non si versa carburante negli annunci, la disaffezione della cittadinanza andrà sicuramente messa in conto.   
In un dettagliato resoconto del 15 ottobre 2014 scritto da Sergio Rizzo per il «Corriere della Sera» si legge che lo scolmatore sul Bisagno a Genova è «appeso a un bando folle», un’espressione che rende bene le lungaggini burocratiche sull’opera di messa in sicurezza. L’articolo si sofferma quindi sulla previsione di durata dei lavori: 1846 giorni (cinque anni e un mese) per un costo di 40 milioni di euro. Ciò dà la misura di quanto tempo prezioso sia andato finora sprecato. Ma anche della rilevanza dell’investimento che, messo in rapporto con i danni prodotti dall’alluvione del 9 ottobre (l’ultima stima è di 60 milioni di euro per famiglie e imprese) dà un sapore ancora più amaro all’intera vicenda. In situazioni d’emergenza i ritardi creano una voragine economica da cui è difficile venir fuori, specialmente in una fase così stentata per il nostro ciclo produttivo. 
Nel caso genovese il progetto, dunque, c’è da tempo ma la volontà di praticarlo è di là da venire. L’acqua non si ferma e non si fermerà. Ce lo ha dimostrato anche negli ultimi due mesi. La natura non è né buona né cattiva, né giusta né sbagliata, come già un paio di secoli fa ci ricordava il nostro bistrattato Leopardi. Semplicemente si riprende lo spazio che le appartiene, dicendoci che l’incuria non paga mai.
Ospitiamo un breve intervento del professor Paolo Arduini, insegnante presso il dipartimento di latino di lingue dell’Università di Pisa, da anni impegnato nella difesa dei diritti del cittadino (rappresentanza, casa, lavoro) e sui temi di tutela ambientale contro l’abuso edilizio, i condoni facili, la cementificazione selvaggia. Con la generosità che lo caratterizza, messa a servizio dell’avventura redazionale «Luci sulla Città», e portata in diverse battaglie che hanno coinvolto anche personaggi importanti dell’attivismo culturale italiano, come Don Ciotti di «Libera», Milena Gabanelli, Marco Travaglio, ha risolto alcuni dei quesiti da me formulati in relazione ai recenti problemi.
Le sue parole sono, come sempre, buoni spunti di riflessione, nell’auspicio che altri abbiano voglia di ripartire da qui e levare una voce di protesta costruttiva. Il silenzio, infatti, non aiuta a sensibilizzare chi ancora non comprende la gravità del vivere in un territorio pesantemente inquinato e offeso.




La tutela del territorio passa necessariamente per la consapevolezza dei cittadini. La comprensione dei problemi è il primo elemento su cui edificare una comunità solida, che sia in grado di mettere a punto strategie efficaci per risolvere le proprie criticità.
Dovendo giudicare il grado di coscienza e impegno civile su questi temi in Italia, cosa minaccia principalmente lo sviluppo di tali aspetti e quali, invece, le conquiste che sono state fatte grazie al lavoro capillare e paziente di comitati e associazioni?

La coscienza non c'è o è sminuzzata in mille risposte particolari. Solo il movimento No TAV in Val di Susa ha costruito una "coscienza di luogo" (che è quello che vorremmo costruire qui a Calci, dove vivo ora), ma lo stanno massacrando militarmente, perché la coscienza di luogo richiede un'azione di attacco e difesa ma le forze sono impari.

Non appena è iniziato l’autunno abbiamo vissuto un vero e proprio stato di calamità a causa del continuo susseguirsi delle alluvioni. La Liguria, il basso Piemonte, Parma, Carrara, la provincia di Roma. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. In un territorio a fortissimo rischio idrogeologico, tutela e prevenzione si sono rese latitanti per troppi anni. Quali considerazioni?

Banale, ma va ribadito: al primo posto ci sono le Grandi Opere inutili e costose, dove ci sono forti guadagni, legali e illegali poco importa, mentre la manutenzione e programmazione del territorio nessuno la farà mai, in un sistema fondato sul Dio Denaro.

La cementificazione è certamente uno dei tanti mali italiani. Il settore dell’edilizia che, fino a poco prima della recessione, figurava come uno dei volani economici della penisola, nasconde in realtà moltissime ombre e più di una responsabilità nell’attuale sfacelo del territorio. Che tipo di politiche bisognerebbe avere il coraggio di organizzare da subito? 

Rendere effettiva la chiacchiera sul recupero e sulla valorizzazione del patrimonio edilizio esistente; abbattere tutto il resto, offrendo alternative semplici e concrete a chi ci è rimasto "infognato".

I danni portati dal dissesto idrogeologico sono, sul piano economico, ingentissimi. Un esempio: 40 milioni di euro il costo dello scolmatore sul Bisagno a fronte di 60 milioni di danni stimati nell’alluvione del 9 ottobre. Si continuano a sostenere opere faraoniche quali la Gronda, per rimanere in territorio genovese, e la Tav. Perché, neppure a fronte dell’enorme difficoltà economica in cui ormai si dibatte il paese, e delle caratteristiche palesemente controproducenti di questi progetti, la classe dirigente non fa marcia indietro una volta per tutte?

Non possono fare marcia indietro, per il motivo appena detto, e in questo sono un sistema unico di affari e dominio, senza colore.

Nel corso delle emergenze la macchina degli aiuti si muove con grande lentezza e inadeguatezza. Non si ha il coraggio di ammettere che non siamo preparati ad affrontare disagi di tali proporzioni. Cosa non va nell’attuale gestione delle crisi?

Gli aiuti servono a "tappare i buchi"  e ottenere voti, non a dare un corso diverso alle opere e alla vita delle persone, per cui saranno sempre in ritardo e atti solo ad alzare il PIL (vedi gli euri ora richiesti da Renzi all'UE per il riassetto idrogeologico, *il riferimento è al controverso piano Juncker di cui finora non sono stati chiariti né termini né risorse).

(Intervista di Claudia Ciardi)

26 novembre 2014

Marc Augé - Rovine e macerie




Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo,
Bollati Boringhieri, 2012

«Bisogna ritornare per scrivere, quantomeno ritornare a casa»
Marc Augé

«Essendo noi oggi molto più sradicati e momentanei»
Piero Bigongiari


Vi è un’analogia fra ricordo e rovina. È questo l’assunto fondamentale del libro di Augé, una testimonianza sul tempo così come risale dai luoghi alla sua percezione di antropologo ma più semplicemente di viaggiatore, perché le due cose nel suo discorso non sono tenute separate da marcatori accademici. Anche in questo lo studioso francese rompe gli schemi e non sorprenderà pertanto che la scrittura saggistica incroci in lui il genere memoriale, facendosi romanzo autobiografico. Tale aspetto, sommato allo spessore contenutistico della sua ricerca, aiuta a spiegarne la fortuna presso il largo pubblico. 
Il padre del concetto di non luogo, attorno al quale non manca di ragionare anche in queste pagine, ripercorre le tappe della sua iniziazione alla scoperta dell’altro, curiosità per lui innata, come ricorda nel grazioso volumetto dedicato all’infanzia a Parigi e ai primi viaggi della sua vita, lungo le linee di quella metropolitana. Qui le prime immagini che vengono incontro al lettore appartengono alla Costa d’Avorio, ai palazzi in rovina edificati dai coloni per i mediatori locali, costruzioni di appena sessant’anni, all’epoca in cui Augé se li trova davanti, eppure già segnati da una decrepitezza che concentrava su di sé l’intera desolazione dell’ambiente e che anzi sembrava da lì addirittura scaturire.  
«Lo spettacolo di quelle rovine recenti costituiva una specie di enigma di cui avvertii immediatamente l’esistenza senza identificarne i termini né coglierne la natura». È intorno a questo enigma, all’interrogativo che la vista delle rovine suscita nel visitatore, che prende forma la sua teoria sulle assonanze tra storia e memoria. Il dubbio circa la persistenza di una simile sensazione, di qualcosa di irrisolto eppure insinuante nell’attimo in cui si posa lo sguardo su un monumento, su un gruppo di vecchie sepolture di cui nessuno pare occuparsi più, è l’elemento conduttore di tutta la sua indagine. Cos’è quel senso di struggente vicinanza a nessun tempo e a nessun essere umano in particolare, da cui ci siamo afferrati di fronte a una costruzione diroccata? Perché quando il nuovo si porta via il vecchio – e Augé lo dice senza alcuna retorica e tenendosi alla larga dai luoghi comuni – ci scopriamo così attaccati alle fragilità di quegli spazi che le leggi di mercato pretendono di riordinare?
Ciò che costituisce le coordinate del nostro immaginario, e questi meccanismi risultano accentuati nelle città e più ancora nella metropoli, anche se non ne abbiamo una precisa consapevolezza culturale, si crea in stretta simbiosi con gli eventi storici. I sussulti e le rotture della storia, spesso di natura violenta, si riverberano entro l’orizzonte in cui ci muoviamo. L’architettura è il riflesso dei tempi e si offre al nostro sguardo come un corpo, con le sue vulnerabilità, le sue sconfitte, e noi siamo portati a comparare le sue forme, i paradigmi che vi si manifestano, a quelli di un corpo vivente. Una rovina è l’occhio dissepolto del tempo che si ribella alla storia. Quel che ci attrae delle rovine sta nella sovrapposizione di natura e cultura in modo che il passato che lì si ascolta non è più in grado di parlarci distintamente di sé. Sappiamo che esiste, ne abbiamo una vaga idea ed è sufficiente a rassicurarci.
«Il tempo puro è questo tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione». Nello scenario delle rovine la riunione di temporalità diverse non diviene qualcosa di stridente, contribuisce anzi a limare il dramma delle vicende storiche, cui lì ripensiamo senza la pressante rumorosità che ci incalza quando invece siamo costretti a valutarne l’attualità.
Tra le diverse voci alle quali Augé si rifà, vi è quella di Albert Camus a Tipasa, città romana nei pressi di Algeri. Camus sottolinea la lunghezza del processo con cui il passato finalmente abbandona le cose e poi scrive: «Avevo sempre saputo che le rovine di Tipasa erano più giovani dei nostri cantieri e delle nostre macerie». 
Affermazione folgorante. Lo spazio liberato dalla storia appare più conciliante e perfino più giovane. Le macerie invece, dal latino maceria, “muro a secco”, “muraglia”, non conservano nulla di questa lenta maturazione storica, dell’affrancamento della storia da se stessa. Si collocano semmai sulla direttrice opposta, sono il frutto di un deragliamento. La maceria è il segno tangibile della «follia della storia» e in un orizzonte di macerie si potrà solo avvertire il peso della distruzione, che è un atto di violenza, dove la forza e la rapidità dello scontro operano a cancellare il tempo, a polverizzarlo ma non nel senso del suo lungo decadimento. Le radiazioni della storia contaminano le macerie e chi vi si imbatte. Non si avrà dunque una visione pacificata piuttosto la presa di coscienza di quello che potrebbe accadere in ogni momento. A Berlino i segni di questa febbre, almeno per quanto riguarda l’Europa, sono profondamente incisi nello spazio urbano e, sostiene Augé, la enorme opera di ricostruzione che dura tuttora anziché celare rivela. Metropoli dai nervi fragilissimi e scoperti, la foga con cui si mette mano a nuovi cantieri e progetti non è unicamente il riflesso di un’aspirazione alla modernità, che vuol gettarsi tutto alle spalle. Semmai mostra proprio la continua ricerca della città, e la difficoltà che comporta, a risistemare la violenza del passato e a recuperare un rapporto con quel passato che ha lasciato macerie, non rovine, dove difficilmente ci si sarebbe potuti aggirare senza percepire come lo sfaldamento implicasse quello delle persone. E dove tuttora capita di camminare con questo sentimento. Ma bisognerebbe anche parlare di Varsavia, città completamente annientata, di Amburgo, Dresda, delle ferite di Londra e prima ancora delle città bombardate nella guerra civile spagnola. E poi Beirut durante la guerra civile libanese, Sarajevo, Aleppo, per restare tra Europa e Medio Oriente. Luoghi nei quali l’uomo ha rinunciato a farsi interprete del suo tempo, proprio quando invece pensava di esserlo come mai prima.
D'altra parte l’odierno livellamento cui oggi assistiamo nella costruzione di quartieri avveniristici, di centri commerciali all’ultima moda, di zone residenziali identiche nei due emisferi a scapito delle peculiarità degli spazi in cui sorgono, tendenze contro le quali Augé esprime il proprio disappunto in un passaggio del libro sulla ‘sua’ Parigi, è una fase nuova che proietta l'uomo in un territorio ignoto. Su di lui grava la sfida a non esserne fatalmente estromesso.     

(Testo e foto di Claudia Ciardi)



Una casa abbandonata in Via del Molino a vento - Trieste, 2014

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Non luogo - Enciclopedia Treccani

Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald - Helios Magazine (2010)



«Quello che potrebbe sembrare un insolito terreno di esplorazione, incoerente all’apparenza col mondo di superficie, si rivela un luogo di richiami e sedimentazioni, caratterizzato invece da una straordinaria capacità ricettiva. E viceversa, giacché il sottosuolo, divenendo fulcro delle abitudini in base a cui si articola la vita in metropoli, contamina largamente quel che accade qualche metro sopra. La sintonia che qui è possibile cogliere con i livelli più profondi del sé, permette di analizzare la struttura del corpo sociale, fino a tracciarne riti e itinerari riconducibili a una vera e propria era geologica che ha visto la piena affermazione della metropoli e dei suoi ritmi».
 Recensione di Un etnologo nel metrò, Elèuthera, 2010. Su Sololibri.net



Paesino abbandonato di Mirteto sui Monti Pisani, 2009  

22 novembre 2014

La poesia delle Apuane



Rolando Alberti
L'estremamente magico
a cura di Enrico Medda e Guglielmo Fiamma
Miraggi Edizioni, 2013


Ho ricevuto in dono questo libro all’inizio dell’anno. Scoprire le Alpi Apuane dai componimenti di chi le vive, è stata un’esperienza insolita e perfino sorprendente. Rolando Alberti, classe 1971, nato a Forno, piccolo borgo immerso nell’aspra bellezza dei monti apuani, è pastore e poeta.
La recensione che alcuni mesi fa ho dedicato al suo lavoro si può leggere qui:
Ciò che scrive è il frutto di una consuetudine ininterrotta con i luoghi dove l’uomo si regge sulla pietra in un equilibrio faticosissimo, prigioniero di quelle leggi di natura cui non sfugge essere alcuno ma che qui si avvertono più vicine e ineludibili.     
Tornare a parlarne mi permette forse di dire ancora qualcosa su una poetica scaturita da un paesaggio che è estremamente familiare anche alla mia persona, avendovi trovato la mia immaginazione più di una risorsa. Nei versi di Alberti s’incontrano una saggezza arcaica e uno stato per così dire di sospensione cui spontaneamente si abbandona chi affonda radici e ragioni della propria esistenza in una terra di frontiera, isolata e contesa tra roccia e mare. Tali sono le Apuane, confine abitato da genti guerriere, dalle loro imprese e credenze, sogni e ombre che nei secoli hanno popolato quei crinali e quei sentieri, e nessuno può attraversarli senza che la sua mente se ne senta afferrata. 
Orizzonte fantastico vestito d’inquietudine, l’incantamento che produce in colui che l’osserva è sempre sul punto di mutarsi in qualcosa di diverso eppure ogni volta sfuggente. Tutto sulle cime appare oggetto di trasfigurazione, anche il tempo. E il pastore vi presiede come un errante, consapevole delle parabole e dei limiti in cui si aggira ma rassicurato anche da una dimensione cosmica, nella quale gli eventi ininterrottamente fluiscono e ogni legame, ogni gesto si ritrovano ben oltre il presente. La geografia della montagna sembra farsi depositaria di quanti lì hanno speso i loro giorni in affanno o serenità, nel ciclico passare degli anni. Una visione consolatoria, perché nel profilo di quei sassi sarà un giorno chi, uscito dalla propria condizione terrena, si troverà riunito all’essenza che governa il mondo. In questo canto delle generazioni, costellato di attese e fughe paniche, non pochi sono i tributi alla poesia omerica, alla discesa dantesca, alle vivide estasi foscoliane, principalmente raccolte attorno a quell’indelebile trapasso che è il sonetto Alla sera. Affiorano non già come citazioni ma piuttosto nelle vesti di spiriti delle leggende alpine, preposti ad accendere bagliori negli assoluti quotidiani e non certo a dare spiegazioni circa la loro natura.
Se la vita umana, dice Alberti, è una scheggia uscita dall’eterno, soggiogata alle regole del qui e ora, e dunque anche all’alternanza di memoria e oblio – richiamo forse involontario all’inconciliabile separatezza tra uomini e dèi come la descrive Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò – allora, anche il corpo si aggira in preda al dubbio fra quella che è la sua finitezza e la coscienza di un altrove, che nei momenti più solitari pare quasi rivelarsi. Questione di attimi, come quando scendono nell’aria i colori dell’imbrunire o tra i ruderi di un casale si rinviene l’incisione di una data, piccole epifanie che subito dissolvono, lasciando dietro di sé nient’altro che un’eco flebilissima incapace di farsi intendere. Andare verso questo ulteriore che in alcune circostanze sembra caparbiamente insinuarsi nei nostri pensieri, può rasserenare ma talora anche sconvolgere.  
I sortilegi gettati dalla luna sulle pareti dell’alpe, i «nidi di luce» che accendono il mare al tramonto mentre il buio avanza dappertutto, i fantasmi che vegliano i passi, i lampi che fendono la notte, la voce dei torrenti divengono allora volti di un’epica sommessa, cantata tra il poeta e il monte, in cerca di una conferma che le sue orme non saranno completamente disperse ma il tempo saprà unirle al cammino di altri e così infinitamente nell’infinito crearsi delle cose.

(Di Claudia Ciardi)
    
«Quelli che scrivono non danno importanza solo ai loro 70 anni di vita e 70 chili di peso. E quelli lì sviluppano la parte umana che ci caratterizza, che va al di là del nostro mangiare, del nostro dormire, del nostro egoismo».

«L’immediato è troppo infinitesimale, non per moltiplicazione, per divisione… quindi noi viviamo in uno stato di allucinazione, di pre- e postallucinazione. Il tempo è allucinazione».

«Sì, siamo limitati dalla fisicità. Purtroppo abbiamo una fisicità di cui tenere conto. E da lì Ulisse risale in superficie e dopo parte. Poi incontra le Sirene. Le Sirene rappresentano il vizio, perché il vizio cos’è? Il vizio è la totalità del benestare, cioè il benessere. Invece l’uomo deve essere capace anche di soffrire e Ulisse in questo caso incontra le Sirene, le ascolta, si fa legare, soffre, impara e soffre e va. Dopo incontra Scilla e Cariddi, il male minore e il male peggiore. L’uomo è capace di scegliere, non tra il bene e il male, che è una cosa semplicissima – tutti lo sappiamo fare – ma tra male minore e male maggiore, tra Scilla e Cariddi. E dopo arriva all’isola del dio Sole, che vede tutto. Il sole rappresenta il nostro interiore, il nostro ego, e lì si trova a combattere non solo contro se stesso, ma anche contro le lusinghe degli altri. E grazie alle lusinghe degli altri si trova in disgrazia. Quindi si trova sull’isola dei Feaci, e lì contro la magnanimità di Alcinoo non possono fare nulla nemmeno gli dèi, cioè, contro il bene umano… se l’uomo sceglie di concedere la grazia all’altro uomo, gli dèi non possono intervenire, perché l’uomo si alza a qualità di dio, perché ha la capacità di scegliere fra il bene e il male».

(Rolando Alberti)


Alpi Apuane e acrocoro dei Monti Pisani da Boccadarno (agosto 2014)  - disegno di Claudia Ciardi

14 novembre 2014

Torneranno i prati




Titolo: Torneranno i prati
Regia: Ermanno Olmi
Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti
Genere: drammatico
Durata: 85 min.
Anno: 2014

Vigilia di Caporetto. Un avamposto in quota sul fronte nord-est. Dopo i disastrosi scontri del 1917, quel che resta dei contingenti giace sfiancato, sepolto sotto metri di neve. La trincea è un inferno sotterraneo, che la montagna si sforza di occultare. Assediata dai rigori dell’inverno, la guerra sembra non esistere più. Gli uomini sono occupati a sgombrare i passi ai portatori. Si sente solo il rumore cadenzato e metallico delle pale, e tra le valli il cupo brontolio dell’artiglieria, prima lontana, poi più vicina e invadente, a ricordare che sull’altopiano di Asiago si lotta ancora. 
È un film in punta di piedi, quest’ultimo girato da Ermanno Olmi. Laddove la guerra è clamore e spesso, nel cinema, ridondante spettacolarità, il regista sceglie un tono pacato, musicalmente si direbbe un pianissimo che anima sia le voci dei protagonisti, voci di fantasmi, di sopravvissuti, sia le immagini. La stessa colonna sonora di Paolo Fresu si limita a scortare l’indicibile quotidianità in cui tutti sono prigionieri, senza strappi senza enfasi. Fabio Olmi, figlio del maestro, compie un lavoro impeccabile sul piano fotografico, giocando il dentro-fuori in una quasi monocromia tra ocra e grigio, servendosi di colori desaturati che proprio nella loro sfocatura pongono in risalto la prostrazione degli uomini e la cornice alienante in cui le loro vite sono incastrate. Le montagne immense e spettrali non hanno nulla di rassicurante. Il canto del soldato napoletano che scalda i cuori dei commilitoni, e anche dei “vicini” di trincea austriaci, è appena un sussulto nato per caso dalla bellezza fiabesca del plenilunio. Ma come vanno le cose nelle fiabe, pure su questa breve tregua son più le ombre a gravare dei sentimenti positivi.    
Ci si attacca a quel poco che ancora, seppure flebilmente, lega al mondo: la corrispondenza – e c’è chi non riceve neppure quella perché ormai nessun familiare si ricorda di lui – un topo che gira in mezzo alle brande in cerca di molliche di pane, una volpe a caccia sul crinale, un larice sfogliato, apparizione estrema di una resistenza che pare compartecipe della sorte dei soldati.
Perfino la neve, per quanto sia un elemento così pervasivo sulla scena, ha un carattere sfuggente e in quel suo non essere mai del tutto bianca assume una connotazione infida, dove la morte sta acquattata in attesa di sorprendere le sue vittime. Tale straniamento accresce a dismisura l’inutilità dello stare lì e il senso di impotenza; la trincea è un buco claustrofobico, specchio delle ansie di chi la occupa, sempre sul punto di collassare. Nell’attesa snervante che tutto sia compiuto, senza che però se ne abbia un’idea precisa, l’avversario più temibile è il crollo emotivo. Quello che obbliga l’ufficiale a rinunciare ai gradi, consegnando il comando a un giovanissimo tenente. Il suo incarico è organizzare la difesa finché il comando provveda a inviare un sostituto adeguato. In un’ora la sua vita cambierà per sempre. Si troverà coinvolto nel martellamento dell’artiglieria nemica, avrà esperienza diretta di quanto la morte colpisca con cinica e sconvolgente rapidità e di come tutto ciò nella percezione di chi rimane in piedi finisca per divenire una sorta di abitudinaria perversione. 
La guerra obbliga a convivere con un abbrutimento bestiale di sé, perché è lei stessa «una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai», come si legge nella chiosa del pastore Toni Lunardi, alla fine del film.
La metamorfosi è dunque avvenuta, la neve sulla trincea si è fatta nera. Prima esisteva solo un’ipotesi del dramma, adesso la desolazione ha riempito tutti gli spazi. Già Monicelli aveva reso l'idea di ciò che poteva essere il bombardamento di una posizione. Ma il suo racconto si giocava sulla distanza. Sordi e Gassman, in missione per un carico di filo spinato, osservavano da una posizione arretrata quel che accadeva qualche metro sopra le loro teste. La mattina dopo si ritrovavano a camminare sui resti della loro trincea, scoprendo l’orrore della distruzione. Qui invece la furia della battaglia è narrata da dentro, dall’impetuoso cadere degli oggetti, dal tremore degli uomini, paralizzati o scaraventati per aria, dall’assordante sequenza dei colpi, cose che travolgono in blocco la sintassi della trama, imponendosi ancor più per l’esplicito contrasto col tono che le precede. 
Sulla traccia di Federico De Roberto, che dapprima fu favorevole alla guerra e poi si liberò della retorica statalista, pubblicando nell’immediato dopoguerra dei racconti estremamente incisivi, Olmi crea una sequenza densissima, all’insegna del rigore storico e dell’attinenza alle fonti, fedele alle atmosfere già disvelate in Il mestiere delle armi.
Restando sul versante letterario, oltre a La paura di De Roberto, vi è un bagno sulle rive surreali di Il deserto dei Tartari. Questa immersione nelle coordinate di Buzzati conferisce la cadenza alla guerra di Olmi. Tanto scavo psicologico, la trincea-labirinto si replica ossessivamente nei pensieri dei protagonisti, assediandoli più della guerra reale. Puro logoramento dei nervi dove anche la malattia con cui il film si apre, un’influenza che viene dai Balcani – «tutti i mali vengono dai Balcani» dice l’ufficiale mentre fa rapporto al Maggiore – è una febbre che toglie energie ma dà l’impressione di seminare dietro di sé, e soprattutto dentro chi ne è colpito, qualcosa di ben più atroce. Si intuisce che gli uomini, quelli che metteranno il capo fuori dalla catastrofe, non saranno mai più risanati.    
  
(Di Claudia Ciardi)




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Federico De Roberto - La paura nella Grande Guerra