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10 febbraio 2015

Avanguardia russa





A Torino, nella prestigiosa sede di Palazzo Chiablese, è stata presentata per la prima volta in Italia la collezione Costakis. L’allestimento, visitabile fino al 15 febbraio, raccoglie alcune delle più importanti realizzazioni dell’avanguardia russa, termine con cui si è soliti designare i fermenti dell’arte di un grande paese che, posto tra Europa e Asia, è per sua natura un ponte culturale, aperto ai due influssi. La mostra si sviluppa attorno all’avventura umana di George Costakis, personalità indubbiamente eccentrica nel clima politico moscovita, cui si deve il salvataggio di un patrimonio altrimenti scomparso e che invece, grazie al suo lascito, ha potuto essere esplorato e collocato all’interno della storia dell’arte europea del XX secolo come uno dei suoi capitoli più vitali.
Alla vicenda assolutamente peculiare di Costakis si affianca quella non meno complessa della genesi delle opere da lui raccolte. L’avanguardia russa, binomio talora declinato al plurale, è materia di studio relativamente nuova. Da appena un ventennio infatti ci si dedica all’approfondimento dei rapporti tra i diversi artisti che vi hanno partecipato, ai legami intrattenuti con l’arte occidentale, all’entità degli stimoli giunti loro dalle scienze e dalla filosofia. È recentissima la teorizzazione di una struttura per così dire fluida di questo ragguppamento, al cui interno vennero unendosi e scontrandosi diversi schieramenti, esponenti e tecniche, che si svilupparono e annullarono a vicenda. Recente è anche la scoperta della prima attribuzione del termine “avanguardie” riferito ai nuovi giovani artisti russi, a quanto pare utilizzato per la prima volta nel 1910 dallo scenografo Alexandre Benois, in una recensione della mostra Unione degli artisti russi. 
La passione per questo tipo di arte, alla quale non pochi guardarono con una certa perplessità, si scontrò con la censura stalinista, che bollò l’avanguardia come un’espressione nociva allo spirito della nazione. Andrej Ždanov, commissario per la politica culturale, nel 1934 annunciò che l’arte avrebbe dovuto attenersi unicamente al dogma del realismo socialista, mettendosi così al servizio delle masse e del partito. Tuttavia, la mancanza di favore verso i movimenti d’avanguardia, va fatta risalire agli anni Venti, in seguito alla morte di Lenin. Da allora, iniziò a circolare l’idea che qualunque forma di creazione artistica avrebbe veicolato la propaganda sovietica. Molti dei pittori che avevano contribuito allo sviluppo del movimento non riuscendo ad adattarsi sparirono dalla scena. Altri tentarono di cambiare stile; è il caso di Ivan Kljun, uno dei nomi di maggior peso, riccamente rappresentato nel lascito Costakis, il quale si volse a una specie di espressionismo claustrofobico e notturno, riversandovi il proprio disagio e anche un senso di protesta nei confronti di un indirizzo politico che bandiva l’artista dalla centralità che fino a quel momento aveva occupato. Kljun è stato indubbiamente uno degli ingegni più eclettici all’interno dell’avanguardia, affascinante quanto e più di un Kandinskij. Parimenti dotato nel figurativo e nell’astratto, i suoi paesaggi preludono agli studi sulla luce e sul colore, e perfino nelle ombre del villaggio di Gorki, di sapore munchiano, quando ormai era iniziata la caccia alle streghe e l’avanguardia aveva i giorni contati, non abdica completamente alle suggestioni primitiviste. 
Peraltro in molti di questi interpreti le due vie restarono sempre comunicanti, nell’approdo all’astratto non c’è nulla di improvvisato, nulla è frutto di esperimenti casuali e affrettati – non come si vede in tantissime opere contemporanee dove è fin troppo chiaro che l’autore non ha alcuna base figurativa, e si è dato all’astrazione in modo piuttosto furbo. Né venne mai a cadere, neppure al palesarsi delle chiusure governative, il dialogo con l’arte orientale, uno dei principi basilari del nuovo modo di dipingere. Ancora una volta lo si osserva in Kljun, autore di disegni a matita nei quali è lampante la ripresa dei canoni pittorici cinesi, e in Malevič, maestro del suprematismo, i cui sfondi bianchi costituiscono un volontario rimando al cosmo orientale. Occorre infine rilevare un altro problema, di natura cronologica, legato alle censure di regime. Man mano che la stretta sulle avanguardie divenne dottrina ufficiale, gli artisti per non incorrere in sanzioni o provvedimenti disciplinari di altra natura, in diversi casi retrodatarono agli anni Dieci soggetti alla cui sintesi erano giunti solo alla fine degli anni Venti, se non addirittura nel primo scorcio degli anni Trenta. Facendosi l’atmosfera sempre più pesante, mentre le opere considerate “formaliste”, dunque inutili a sostenere il messaggio di coesione e progresso del paese, sparivano dai musei pubblici per finire stipate dentro i loro depositi, Costakis, autista presso l’ambasciata greca fino al 1940, quindi responsabile del personale tecnico per quella canadese, entrava in azione. Forte delle coperture diplomatiche e dei numerosi addentellati che poteva vantare in questo ambiente, ma non senza correre rischi, contravvenendo alle indicazioni staliniane, si mise sulle tracce degli artisti ancora vivi, dei loro familiari, amici e conoscenti, e fino al 1977 riunì nel proprio appartamento sull’Avenue Vernadskij a Mosca le opere di quei visionari geniali, (in particolare Pavel Filonov, il suo prediletto, padre dell’arte analitica, Ivan Kljun, Kazimir Malevič, Michail Matjušin, Liubov’ Popova, Aleksandr Rodčenko, Ol’ga Rozanova e Vladimir Tatlin) altrimenti destinate all’oblio. O peggio. Il rischio fu quello di una stagione dei roghi, sulla scia tedesca dove pure si prese a perseguire la cosiddetta “arte degenerata” (Entartete Kunst), ma in ogni caso lo stalinismo determinò una strozzatura in un panorama creativo che, se liberamente lasciato sviluppare, avrebbe avuto con ogni probabilità ulteriori insospettabili ricadute. Sepolto il periodo in cui i diversi ambiti del sapere collaboravano insieme, dando vita a ordinamenti di studio estremamente articolati e dinamici, fioriva la sotterranea ricerca di Costakis in attesa che quell’affascinante microcosmo tornasse a interessare il pubblico. 
Le foto degli interni dell’appartamento di questo collezionista sui generis ci consegnano pressoché intatto il fascino di un luogo le cui pareti erano ricoperte per intero dai quadri. Un ambiente non grande, reso quanto mai accogliente dalla presenza ravvicinata di tanti capolavori. Nella sua autobiografia Costakis cita il soprannome, affatto lusinghiero, di cui era oggetto nell’ambiente del collezionismo russo: «il greco pazzo che raccoglie spazzatura inutile». Interessante è anche il ricordo della figlia Aliki, attualmente nel consiglio di amministrazione del Museo Statale di Arte Contemporanea di Salonicco: «Posso garantirvi che vivere in una casa – in realtà un appartamento – che poi divenne un piccolo museo non fu facile. Né per il collezionista né per la sua famiglia. Ma mio padre aveva un principio forte: chiunque volesse vedere la collezione poteva avervi accesso. Non disse mai di no a chi ne faceva richiesta, fosse un artista sconosciuto di Kiev o di Novosibirsk, un gruppo di cento studenti di una scuola d’arte di Mosca, o David Rockefeller e i suoi amici che arrivavano a mezzanotte passata dopo un serata al teatro Bol’šoj».
Anche il giovane professore americano John E. Bowlt, già studente di arte russa all’Università statale di Mosca tra il 1966 e il 1968, e successivamente impegnato  a promuovere nel mondo le opere dell’avanguardia, ha in seguito rammentato il suo incontro a casa di Costakis, nel 1973, nella fase crepuscolare della Russia brežneviana. Sopraffatto in un primo momento dalla confusione con cui gli si offrivano le opere appese ai muri, tanto da sentirsi come all’interno di un caleidoscopio, le osservazioni puntuali e profonde del suo ospite, lo misero subito a proprio agio, trasmettendogli il lavoro puntiglioso da lui perseguito, in termini di valutazione curatoriale di ogni singolo pezzo, accompagnato da un conoscenza vastissima delle vite e degli stili dei pittori esposti.
Nel 1977 Costakis lasciò Mosca, giungendo a una trattativa col governo. Fatta donazione di una parte considerevole alla Galleria nazionale Tret’jakov, ottenne la liberatoria per le restanti, che poté dunque portare con sé fuori dalla Russia.
L’allestimento torinese, oltre a essere una prima assoluta in Italia, lo si è detto, per quanto riguarda la presenza della collezione, ha il pregio di evocare in maniera scrupolosa la straordinaria impresa di un uomo che, districandosi tra censure, divieti, ristrettezze economiche, sentì la necessità di far risalire dal buio delle cantine un capitolo fondamentale della storia dell’arte. Aggirarsi per queste sale, complici anche i visitatori russi presenti, è un po’ come mettere piede nelle stanze del suo appartamento che per un trentennio assistettero, silenziose complici, al realizzarsi del folle meraviglioso progetto.

(Di Claudia Ciardi)


Aleksandr Michajlovič Rodčenko, ‪‎Pierrot‬, 1919
Bibliografia:

Avanguardia russa. Da Malevič a Rodčenko. Capolavori della collezione CostakisCatalogo della mostra - Skira, 2014

Avanguardie russe. Tradizione, innovazione, rivoluzione, a cura di Licia Michelangeli, Giunti, 2004

In questo blog:

Entartete Kunst - L'arte degenerata secondo i nazisti

Berlin Metropolis - Berlino prima di Weimar. Ebrei e avanguardie


Ksenia Ender, Modello per una tabacchiera, 1926

Per una ricognizione sulle pubblicazioni d'arte e un'ampia scelta di cataloghi delle mostre, si consiglia di visitare la libreria "L'angolo di Via Manzoni", Via Cernaia 36/D (Torino, zona Porta Susa).
Tra le tante rimanenze di questa bellissima libreria "vecchio stile" ho avuto il piacere di incrociare, dopo secoli che non mi capitava, alcune copie del Kaddish di Allen Ginsberg, a cura di Luca Fontana, Net Poesia.
Insomma, un luogo a cui non può mancare una visita.


Ol'ga Rozanova, Nuovi libri hanno spiccato il volo!, 1913*

*Le prese della mostra sono state autorizzate dal personale 

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