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5 marzo 2015

Turner





Regia: Mike Leigh
Con: Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Paul Jesson, Lesley
Musiche: Gary Yershon
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Scenografia: Dan Taylor
Genere: Biografico
Durata: 149
Gran Bretagna, 2014


Il film di Mike Leigh sull’ultimo quarto di vita del grande pittore inglese William Turner (1775-1851), interpretato da un Timothy Spall perfetto, può dirsi un lavoro ben riuscito, in grado di mettere in risalto gioie – poche – e dolori di un personaggio alquanto antipatico e indisponente, in virtù del suo genio.  
Autore tra gli altri di Il segreto di Vera Drake, racconto a tinte forti sulle ipocrisie dell’Inghilterra anni Cinquanta, Leigh conferma la sua capacità di restare attaccato alla vita, anche alle sue pieghe più imbarazzanti e segrete, senza abbellimenti né spettacolarizzazioni. Forse questo è anche il motivo per cui questo ritratto non ha scaldato più di tanto il pubblico. Effettivamente potrebbe parere una narrazione un po’ in sordina, che lascia libero campo ad aspetti piuttosto impalpabili, quali sono quelli dove si aggira la ricerca pittorica. Dunque, alchimia di luce, colore, spasmodica necessità di vedere, di vivere i fenomeni in natura, di studiarli da dentro – per Turner fu quasi un meccanismo compulsivo. 
Leigh ha il merito di rappresentare tutto ciò in maniera più che credibile, il che secondo me basta a promuoverlo, essendo il terreno prescelto alquanto complesso. Non si presuppone qui infatti solo un approfondimento scrupoloso della biografia di Turner, com’è ovvio, ma anche una conoscenza vera del modo di lavorare di un artista, un microcosmo fatto di spazi la cui ‘giusta’ esposizione è fondamentale, di paziente allestimento dei materiali, dalla preparazione delle tele a quella dei colori. Sono aspetti che chi non ha alcuna familiarità con questo mondo può considerare scontati e perfino noiosi, mentre risultano essenziali per qualsiasi discorso si voglia fare sulla pittura. Così lo scambio di battute tra l’affettuosissimo padre di Turner e il venditore di colori, lungi dall’essere un dettaglio di cronaca familiare che testimonia la devozione dell’anziano genitore nelle vesti di factotum, ha il potere di schiuderci una realtà fantastica e avventurosa, dietro la quale si celano scomodi lunghi viaggi per far arrivare i pigmenti sulle mensole londinesi. Sacro fuoco dei colori che dalla tela sembra trasmettersi per osmosi a Turner stesso, viaggiatore infaticabile, animato da curiosità e soprattutto dal bisogno di osservare il divenire delle cose dal vivo, che si tratti di una tempesta o del nuovo treno a vapore. Un uomo che arrivò a farsi legare all’albero di una nave per osservare la caduta dei fulmini sul mare in burrasca, o che a soli ventisette anni, in occasione del suo primo viaggio sul continente, anziché sostare nella salottiera Parigi, preferì tirare dritto e gettarsi in Valle d’Aosta tra le asperità del paesaggio alpino, non può che suscitare interesse oltre che un certo sgomento. E Leigh è molto abile a restituirci il disagio altrui nei confronti di Turner, e di Turner chiuso nella sua fisiologica incapacità di sviluppare dei rapporti col suo prossimo. La cerchia dei suoi intimi, a quel che se ne sa, era più che ristretta. Un legame rimosso con la moglie e le due figlie, che la maggior parte ignorava. Una storia con la sua domestica, destinata unicamente a soddisfarne gli appetiti sessuali. Infine la relazione clandestina con Sophia Booth, gentile signora conosciuta durante i suoi soggiorni a Margate, alla quale non aveva neppure rivelato la propria identità. Questa dell’identità rinnegata è una costante nell’esistenza del pittore, e ha finito per riversarsi anche sulla sua opera. Di lui non si è mai risaliti con precisione al giorno e mese di nascita né è stato possibile datare con sicurezza la produzione, sulla quale è stato condotto un paziente lavoro postumo, dal momento che Turner abitualmente non apponeva ai dipinti né firma né data. Attraverso i cataloghi e altre fonti coeve è stato possibile classificare i quadri che presentò alle esposizioni annuali della Royal Academy of Arts, di cui fu nominato membro nel 1799. La datazione di tutte le altre opere è stata dedotta, accostandone motivi e stili a quelle esposte presso l’accademia. Ma l’epopea del lascito turneriano non si esaurisce in questo certosino lavoro di filologia. In seguito a un contenzioso con gli eredi, che impugnarono il testamento dove il pittore esprimeva la volontà di donare l’intera sua produzione allo Stato britannico, la corte di giustizia dispose che andasse alla nazione quanto si trovava nello studio dell’artista: circa trecento tele a olio e ventimila fogli contenenti schizzi e disegni. Si inaugurava così l’immane lavoro degli esperti. La National Gallery impiegò diversi anni prima di poter esporre al pubblico anche solo una piccola parte della donazione. Oltre ai problemi ‘anagrafici’ di cui abbiamo detto, si dovettero mettere in conto lungaggini burocratiche e anche problemi pratici di allestimento: spazio insufficiente e rischio che il “fondo Turner”, causa le sue dimensioni, oscurasse tutto il resto. Molti pezzi finirono così a coprirsi di polvere nei magazzini. Quando durante la seconda guerra mondiale si dispose lo sgombero dei materiali da quest’area per trasformarla in rifugio antiaereo, le tele del maestro ormai incrostate di sporcizia rischiarono di essere scambiate per scarti da gettare. Fu solo grazie all’intervento del direttore che volle vederci chiaro – alla lettera, visto che si mise a ripulirle con tanto di strofinaccio – se il misfatto non venne consumato. Insomma, per uno strano scherzo del destino l’anticipatore di impressionismo ed espressionismo ha dovuto attendere il XX secolo perché le sue opere trovassero una sistemazione definitiva.
Leigh sviluppa molto bene anche questo discorso dell’incomprensione tra i contemporanei della maniera di Turner, che nell’ultima parte della sua esistenza fu oggetto di sfottò e attacchi diretti alla propria persona; l’uso che faceva del colore era attribuibile, secondo i più, a qualche patologia mentale da cui sarebbe stato afflitto.
Apprezzamento va anche e soprattutto alla cura della fotografia, nelle quale si sono volute rendere le saturazioni oniriche e sanguigne dei tramonti, i riflessi stranianti del sole sulla superficie del mare – Turner aveva una particolare predilezione per lo studio dell’acqua – in altre parole ci si è cimentati al meglio per rendere sul piano cinematografico quella sua tavolozza brillante, costruita attorno agli effetti del sole sulla realtà, che aveva il proprio nucleo nell’utilizzo del bianco. C’è uno scavo profondo del personaggio proprio per quanto riguarda questa dialettica con la luce, alla quale Turner era interessato anche in rapporto alla sua composizione fisica, alle sue strutture organiche. Non è un caso che si citi l’amicizia con la scienziata Mary Sommerville che al pittore illustrò i suoi esperimenti sullo spettro luminoso; o ancora si dedichi un’intera scena alla visita di Turner in un atelier londinese dove si realizzavano i primi dagherrotipi. Dopo aver manifestato curiosità per il funzionamento della macchina, si abbandona a un’esternazione piuttosto stizzita «che il pittore sia preservato il più a lungo possibile».
Inutile dire che qualsiasi riproduzione dell’arte è destinata al fallimento. Anche il catalogo migliore di questo mondo non potrà rendere i colori dell’originale. In un simile raffronto si nota quanto pittura e fotografia non siano tra loro sostituibili. Nella pittura a olio il bianco soprattutto è una componente quasi impossibile da catturare. Ricordo di averne fatto esperienza diretta osservando i Fuochi fatui di Klimt. La fisicità di quelle scaglie di bianco sullo sfondo scuro e fluttuante della tela era quasi una frustata per l’occhio, qualcosa di assolutamente inesistente in una copia digitale del quadro. E di esempi ve ne sarebbero molti altri.
Perciò possiamo dire che Leigh abbia saputo condurre lo spettatore in un universo di per sé sfuggente riuscendo a mantenerne quasi intatte le suggestioni e le tante forze evocatrici che vi si agitano.

(Di Claudia Ciardi)



La valorosa Temeraire trainata all'ultimo ancoraggio per essere demolita 
Una delle scene più intense del film per quanto riguarda la resa del colore


Per approfondire:

Ian Warrell, Turner, «ArteDossier», Giunti, 2004

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«On Margate Sands.
I can connect
nothing with nothing.
The broken fingernails of dirty hands.
My people humble people who expect
nothing»

«Sulle Sabbie di Margate. 
Non posso connettere 
nulla con nulla. 
Le unghie rotte di mani sporche. 
La mia gente, gente modesta che non chiede 
nulla»

T. S. Eliot, The Waste Land

A sketch at Margate  

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