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3 maggio 2015

La via dell'arte tra oriente e occidente




Dio greco del vento, da Hadda (Gandhara, attuale Afghanistan), II secolo - Dio del vento, Grotte Kizil (Bacino del Tarim, Xinjiang, Cina), VII secolo - Fujin, Dio giapponese del vento, XVII secolo.

Prendo spunto dalla monografia La via dell’arte tra oriente e occidente a cura di Mario Bussagli per tornare a un argomento di grande rilevanza culturale, le contaminazioni che per due millenni hanno contribuito a unire due parti di mondo, di cui troppo spesso, a livello di alcune analisi desolatamente banalizzanti, si sono volute evidenziare le differenze.
Un tema che oggi peraltro, in conseguenza dell’imporsi di un punto di vista semplificato per non dire falsato, che certo finisce per essere anche il più rassicurante in virtù della sua maggiore accessibilità, vive una stagione quanto mai impopolare, ciò annidandosi proprio nella radicata inconsapevolezza delle persone, dove la politica degli etnocentrismi e dei separatismi ha buon gioco. Nel medioevo, gloriosa stagione per tutto il Mediterraneo, pur tra tensioni e conflitti, furono aperti straordinari sentieri di dialogo che per quanto riguarda l’arte italiana hanno fruttificato in esempi di rara perfezione come il romanico pisano, con le sue citazioni moresche, la cappella palatina di Palermo dipinta da artisti fatimiti, la basilica di S. Marco a Venezia, così sfacciatamente bizantina.   
Ma il Mare nostrum di allora fu anche quel bacino da cui salparono commercianti, avventurieri, esploratori diretti nella penisola anatolica, sulle vie carovaniere dell’Iran e del sud-est asiatico fino ad approdare in Cina. La paura dell’altro si accompagnava alla volontà, più forte, di mettere in contatto due mondi. L’amicizia tra Kublai Khan e Marco Polo, divenuto suo fedelissimo cortigiano, ha un valore enorme, non solo come esperienza personale che ha unito due grandi protagonisti della storia, ma come dono fatto all’umanità che in loro trova una testimonianza di durevole scambio, comprensione e fiducia incondizionata, nonostante o forse grazie alle loro differenti culture. E che dire del gesuita milanese Giuseppe Castiglione (1688-1766), alias Lang Shih-ning, considerato ancora ai giorni nostri il più grande ritrattista cinese?
Ad avvicinarsi a questi personaggi, che secoli or sono hanno messo in discussione le loro origini per abbracciare la storia di altri, si è presi da ammirazione ma anche quasi da sconcerto, ed è proprio in questo declinarsi delle nostre sensazioni che secondo me si affaccia il tarlo della cultura in cui siamo immersi, una cultura belligerante, da barricata, esclusivista, eurocentrica – nel senso peggiore e peggiorativo, che esaspera cioè e stravolge i valori occidentali e che, inevitabilmente, ci condanna all’ignoranza.
Proprio in queste stesse settimane in cui ho ripreso in mano la pubblicazione di Bussagli, mi capita di trovare altrettante interessanti considerazioni su questi temi nel bel libro L’ipocrisia dell’occidente di Franco Cardini, medievista ed esperto di cultura araba e orientale, appena uscito per Laterza. Cardini affronta il problema del fondamentalismo islamico, sgombrando il campo da non poche letture di comodo che si sono accumulate, ma sarebbe più giusto dire ingolfate, negli ultimi quindici anni (dopo l’11 settembre). Si tratta di pregiudiziali pesanti, sbandierate anche per soldi da molti cosiddetti analisti  – è apprezzabile il fatto che lo storico denunci questi meccanismi senza mezze parole e soprattutto non perdendo di vista il passato, in un confronto costante tra oggi e ciò che fu secoli fa. Le cose vengono allora riportate alle giuste proporzioni, che non sono né belle né brutte, né buone né cattive, sono quelle del tempo, dell’incontro e dello scontro che però seppe tenere vivo il fuoco della conoscenza reciproca che si scopre di natura assai diversa dalla nostra paralisi culturale. Ne riparleremo in seguito.
Quel che mi preme sottolineare è che nella storia le avventure migliori, i passi più esaltanti sono in genere accompagnati anche dalle minori limitazioni verso il mondo esterno. Nel mondo antico viene da sé guardare al progetto di Alessandro Magno che fece capitolare il Gran Re, spingendosi fino alla valle dell’Indo, sposò un principessa dell’Afghanistan (satrapia nota all’epoca col nome di Battriana) e pure dai suoi ufficiali pretese che si unissero a donne locali: si tratta delle famose nozze collettive di Susa del 324 a. C. Era guerra, certo, ma c’era anche, anzi direi soprattutto, l’idea di mischiare usi e culture. E se la vita di Alessandro Magno fosse stata più lunga? Di quali incredibili sincretismi si sarebbe fatto promotore, se già nel suo brevissimo passaggio l’ellenismo da lui diffuso è riuscito a radicarsi in maniera tanto sbalorditiva?
Sfido qualsiasi appassionato a negare di essersi posto simili domande dopo aver letto questa storia. 
Ma c’è anche il rovescio della medaglia, il fosco epilogo della spedizione di Crasso, immobiliarista ante litteram, venale, malato di potere che sfidò, lui militarmente impreparato, il modernissimo esercito dei Parti, ostinandosi a muovere le legioni romane contro le temibili formazioni di arcieri persiani, la cui tecnica di combattimento era avanti di secoli, già proiettata al medioevo. Sulla fine di Crasso pende l’orribile sentenza aurum sitisti… risuonata nelle orecchie di generazioni di studenti. 
Personalmente ammetto di aver tifato anche per Antonio e Cleopatra, e prima ancora (ma meno) per Cesare. L’apertura all’Egitto, cercata dal già anziano condottiero romano, sebbene in termini per lui strettamente utilitaristici – l’Egitto era il granaio del Mediterraneo – diviene con Antonio vero e proprio progetto politico e culturale. La vittoria di Antonio avrebbe significato spostare Roma a oriente e forse instaurare un potere più forte, più contaminato, più disponibile agli influssi esterni, più inclusivo e animato da complicità a livello di rappresentanza, di quanto non fu quello augusteo (per quanto si parli di pax e floruit letterario, ma ricordiamoci che Augusto mandò in esilio il suo poeta migliore, Ovidio, e che la sua pax fu più propaganda che realtà).
Insomma, la monografia di Bussagli incentrata sulla via dell’arte tra est e ovest, ha il merito di far riaffiorare nel lettore molti di quei momenti storici nei quali la bilancia sembrava pendere a oriente, senza che ciò significasse una preminenza di tale universo culturale sull’altra parte, bensì il pungolo a sviluppare quelle potenzialità politiche e culturali che un occidente altrimenti chiuso e ripiegato su se stesso rischiava di volgere contro di sé. Leggere il resoconto di questo storico dell’arte mi ha permesso di colmare diverse lacune e anche di tornare a interrogarmi su temi che mi hanno sempre affascinata. Considerando che la rivista in questione ha visto la luce nel 1986 fa un certo effetto trovarsi sotto gli occhi, subito dietro l’introduzione, l’immagine dei Buddha di Bamiyan, che ci guardano nelle loro millenaria perfezione investiti dal riverbero del tramonto, sotto una corona di monti innevati. La distruzione fondamentalista, dentro quello scatto, è ancora di là da venire. Adesso le foto stanno lì, anche con un certo piglio accusatorio, per noi che ora sappiamo e che, nei nostri rapporti con quel mondo, abbiamo troppo sbrigativamente abbandonato le vie millenarie che ci avevano schiuso una comunicazione, una conoscenza. Ci siamo comportati giocando a campana con la storia ma a forza di salti siamo inciampati e mentre ci rialzavamo le caselle avevano mutato di posto, non erano più le stesse.

(Di Claudia Ciardi)


La via dell’arte tra oriente e occidente. Due millenni di storia.
a cura di Mario Bussagli,
«ArteDossier», Giunti, 1986 

In questo blog:

Oriente-Occidente

Storie di eremiti



Amuleto: Thoth raffigurato come un Ibis con Maat. Porcellana, 664-332 a.C 
dimensione: 2.5cm


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