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9 novembre 2015

Taboga





Numeri, statistiche, salterii. Un essere sta a un formulario come un fiume al deserto. Vite cifrate, e questo è tutto. Computisteria del linguaggio, dozzinale classificazione di un carattere e di una psiche: l’arrabbiato, il nevrotico, il subdolo, l’arrogante, il candido, l’edipico, il faustiano, il narciso. Declinabili anche al femminile, ovvio, tendenti a una casistica infinita. Reclinabili in oggetti, collocati in non meno intasate circostanze. L’essere cosa, la più fine scoperta dei tempi. Specchi buoni o cattivi, muti o parlanti, con matrigna o senza, commerci e denari, ipoteche, saldi di fine stagione, svendite, aste, voglie inconfessate, erotismi confusi o stancamente estrusi. Ingenuità affacciata sul mercato, una piazza di barattieri, molte voci nessuna opinione. Oliato esercizio dell’imbroglio, moto di rapina. Il contabile? In fondo al corridoio, ultima porta. Annota le paranoie altrui, sbocconcellando frasi, la pietra pomice gli sbatte tra medio e anulare, scartavetra ipotetiche di un possibile abbastanza irreale mentre sull’indice tiene attaccati i duali e scompone i triviali. Andamento runico o latino classico? Agrammatismo. Gran brutto segno, qui si rasenta la nevrosi. 
Che esistesse anche questo mestiere di scodellatori della parola, inzuppata nei raggiri lessicali, benedetta dall’analista testamentario, proprio non lo potevo immaginare. Da qualche parte si taglia e cuce una lingua per ottenere un profilo criminale. Perché l’osservatore annota solo il difetto, tutto quel che stona è incriminato, e il capo d’accusa segue a ruota. Se malauguratamente un disturbo non si trova, il vizioso non potrà certo rischiare se stesso. No davvero, bisogna che inventi qualcosa, che provveda alla malalingua computazionale. Annaffierà ogni interlinea col sospetto, stravolgerà il senso seminando cretinerie in toni e semitoni purché l’impianto accusatorio non sia compromesso.  Potere del pregiudizio, quanti alleati. 
Di anno in anno soccombenti alle medesime affezioni, loro i dottori dell’alter ego, non riescono a guarire. A testa in giù dentro i gironi a cui sono assegnati, così alacri nell’andare incontro ai peccatori, che qualcuno gli ha ordinato di redimere, da essere prevedibili. È triste constatare gli umani limiti ma pur sempre umano. Alla rivelazione della stupidità, invece, non c’è verso di rassegnarsi. Ci si sente anzi gettati nello sconforto. Ciò da cui è tratto un singolare giovamento, necessario perché l’istinto di sopravvivenza si mantenga in posizione eretta, quella volontà di ognuno che tende alla realizzazione ed è appesa a un filo assai sottile, la fiducia nelle capacità degli altri, subisce un danno. In alcuni casi anche irreparabile.
Non è un contraccolpo da poco. Potrebbe sopraggiungere anche la morte per asfissia. Sforzi e aspettative scialacquati in qualche frazione di secondo. Ma come si è arrivati a tanto? E più temibile ancora, il carattere violento della stupidità affatto nuova a simili svolte. C’è nel guardare da un angolo ottuso un’assurda propensione a fare del male, a agire con protervia, a sovvertire i significati, elemento comune all’imbalsamatore di lingue appena raccontato. Il vivere sospettando genera altro sospetto, ma sempre più esteso, incallito e di volta in volta più offuscato in rapporto a una sana percezione delle cose. Gli addendi e le proporzioni sono gradualmente stravolti, scambiati. Già, perché lo stolto, soffermandosi poco e niente, si chiama fuori dalla realtà, e questo scarsissimo grado di coinvolgimento lo induce a passar sopra, a perpetrare la sostituzione senza il minimo rimorso. 
Tra formule pasticci raggiri legalmente imbanditi, mentre si prende atto dell’assurdo con leggerezza, scherzandoci sopra come una tollerabile devianza, un impiccio di cui liberarsi con un’alzata di spalle, ecco sopraggiungere il colpo. L’irruzione è tanto repentina quanto efficace. Piomba su una resistenza ormai sviata, per meglio dire spirituale, nel senso del suo quasi totale distacco dalle vicende terrene; del resto, una tale iniziativa non verrebbe mai presa se non si andasse sul sicuro. 
L’urna è rovesciata, l’alveare staccato dal ramo, preso a calci. Ognuno, come ape operosa, fino a un attimo prima se ne stava chiuso nel suo nido sigillato di cera. Un buco confortevole e caldo bastante a tenere il mondo a distanza. Fuori il lavoro – perché a un’ape il lavoro non manca – e dentro la pace domestica. Poi d’un tratto, che gran brutta corrente d’aria! Da dove viene, cosa annuncia? 
Il cifrario è stato cambiato, nulla sarà più come prima. Nuovi ordini, tutto da rifare. 
Il contabile ora è in ambasce. Altro che qualche sbellicamento di parole, qui non si sa più dove guardare. Ma l’imbecillità essendo entrata ovunque nell’alveare, s’illuderà che ogni cosa sia rimasta al suo posto, come nulla fosse. E senza renderci conto di essere stati scaraventati giù, talmente in basso da non capire neanche dove siamo, penseremo di vivere ancora appesi a un ramo dove niente e nessuno verrà a disturbare. E di tutto si farà una giostra. Provino i signori lo scivolo più alto mai costruito. Mentre la musica stempera la paura del salto, intorno la folla preme per avere un biglietto.


(Di Claudia Ciardi)



* Insieme ai due qui pubblicati, Risus abundat! e Guglielmo II e la tenzone dei coboldi, questo pezzo fa parte di una galleria di prose di andamento polemista e totemico, un’irregolare riflessione sul vivere, liberamente ispirata a Einbahnstraße di Walter Benjamin. 

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