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12 agosto 2016

Annotazioni su Tonio Kröger e Tristano




Entrambi del 1903, Tonio Kröger e Tristano si possono annoverare fra i capolavori assoluti di Thomas Mann, insieme a La morte a Venezia (1913) e Mario e il mago (1929). Si tratta di romanzi brevi o racconti lunghi, come si preferisce, sviluppati attorno a temi comuni. Uno scrittore attraversa un periodo di crisi creativa e perciò decide di concedersi una vacanza che in realtà rende ancora più problematica la sua condizione; un caso estremizzato in La morte a Venezia, dove il già famoso Gustav Aschenbach trova la fine dei suoi giorni nell’atmosfera astratta e decadente del lido. Materia che si presta a una riflessione sull’osservanza delle regole borghesi da parte dell’artista, e su ciò che si determina in lui quando queste norme vengono meno. Chi non è in grado di aggirarne il peso contraddittorio che esercitano sul temperamento creativo, volta le spalle al compromesso ma abbracciando una simile radicalità, se non ha dentro di sé le risorse per dominarla, va incontro alla propria irrecuperabile caduta di creatore e di uomo. 

Non mancano i riferimenti autobiografici. È un dilemma che Mann sembra essersi posto molte volte in proprio e si capisce perché ami tornarci sopra, mostrando al riguardo una congeniale disinvoltura. Nel racconto di Mario e il mago, che è del tutto autobiografico, Mann si cala direttamente nei panni dello scrittore in vacanza e intesse il suo discorso giocando su presagi negativi che col passare dei giorni prendono corpo, fino al dramma dell’epilogo.
Furio Jesi dedica pagine di grande intensità alla messa in discussione del borghesismo da parte dello scrittore di Lubecca. Il celebre critico e studioso illustra molto bene lo stallo a cui giunge l’idea dell’artista come “eroe in tensione” nell’opera manniana. Per colui che si dedica al lavoro d’invenzione è necessario profondere in ciò che fa un’energia identica, governata dalle stesse forze che regolano il lavoro borghese. Solo così la sua esistenza potrà assumere pari dignità a quelle socialmente riconosciute come valide e produttive. Ma nel momento in cui il creativo abdica alla tensione che lo tiene avvinto alla materia, i simboli della borghesia gli si rivoltano contro, decretandone la rovina. Nei due scritti che qui intendiamo mettere in maggior evidenza, Tonio Kröger e Tristano, il tema della disfatta artistica viene a innestarsi sull’incompiutezza del desiderio d’amore e dell’unione erotica. I protagonisti sono infatuati da donne che puntualmente li ignorano e nel tempo, in maniera fallace, inconcludente, rabbiosa, coltivano gelosie e rancori che sfociano in assurde nefandezze o nella presa di coscienza del proprio annichilimento. Quando Tonio Kröger osserva da dietro una vetrata la festa da ballo, alla quale partecipa la bella Ingeborg Holm, suo amore di gioventù, è tutto concentrato nel proprio egoismo, in una narcisistica contemplazione dell’amore per l’amore. Sente quanto Ingeborg è lontana da lui – e lo è sempre stata – e non è un caso che abbia scelto per compagno il sereno e pragmatico Hans, altra passione dell’adolescente Tonio. Lui sapeva già ogni cosa, essendo una di quelle creature spirituali complicate che amavano rifugiarsi nelle tortuosità artistiche, mentre i compagni di scuola andavano avanti a viso aperto, senza perdersi in lunghe meditazioni o in spossanti letture di poesia. Quando ritrova i due amici cresciuti e felici con cui era solito passeggiare lungo i bastioni della città e prendere lezioni di ballo, gli sembra di rivivere ogni istante delle passate sensazioni; inadeguatezza, umiliazione, gelosia lo stordiscono ma non lo fanno arretrare di un passo dalla vetrata. Nota infine una ragazza pallida, di aspetto fragilissimo perfino un po’ curva di spalle che forse vorrebbe essere avvicinata da lui, perché sente di somigliargli. 
Tuttavia Kröger vuole torturarsi, non potrebbe farne a meno, sa perfettamente anche questo, e la ignora. È troppo preso dalla trionfale sconfitta della propria passione, nulla può distoglierlo. Così quando la timida e misteriosa ragazza sviene davanti al suo sguardo si limita a rianimarla con parole di circostanza, e tutto finisce lì. Nel processo di formazione dell’indole letteraria di Kröger – altro tema esplorato in profondità dalla narrativa di Thomas Mann – non casualmente l’autore colloca aspetti della propria metamorfosi iniziatica. I genitori di Tonio, la scuola, le passeggiate tra i vicoli dell’antica città che si arrampicano intorno al porto, ricordano non poco l’infanzia dello stesso Mann. Vi è perfino un passo dove si può cogliere un abbozzo del magistrale saggio autobiografico che lo scrittore darà alle stampe nel ’30, in un fascicolo dello storico editore Samuel Fischer. Ci si riferisce alla confessione del protagonista relativa al suo quaderno di versi che gli avrebbe rovinato la reputazione fra professori e studenti. Tali circostanze, soprattutto l’analisi della polarità caratteriale dei genitori – il pragmatismo da stimato commerciante del padre, la creatività di ascendenza mediterranea della madre – riecheggiano anche in altri scritti come ad esempio il Bajazzo.
In Tristano il discorso sul fallimento di chi crede di essersi consacrato all’arte mentre se ne allontana senza rimedio, si sviluppa in una clinica privata per clienti facoltosi. Uno scenario che dunque ha stimolato l’estro manniano assai prima del sanatorio di Davos, alla base di La montagna incantata. Lo spazio del ricovero è la cornice ideale per la rappresentazione di quella maniacalità latente che affligge gli scrittori dannati usciti dalla sua penna. In questo perimetro di ossessioni prende forma l’oscuro signor Spinell, che gira e rigira fra le mani il manoscritto del proprio romanzo «di medie dimensioni, munito di un confusissimo disegno in copertina e stampato su una sorta di carta assorbente con caratteri tali che presi uno per uno sembravano una cattedrale gotica». La descrizione del tomo è in completa simbiosi con Spinell, si direbbe il suo naturale prolungamento. L’uomo riservato e falsamente educato quanto basta a renderlo indigesto al lettore, corteggia in maniera serrata ma senza approdare ad alcuna conoscenza biblica, l’ultima ospite arrivata alla clinica. Costei, la diafana e mite moglie di un commerciante del Baltico, viene così risucchiata suo malgrado nel vortice ossessivo dello scrittore frustrato. Una sera in cui la clinica è semiabbandonata per una gita che ha momentaneamente allontanato gli ospiti, i due si ritrovano seduti davanti al pianoforte, e Spinell incalza la gentile amica affinché esegua il Tristano di Wagner, opera per eccellenza del tormento d’amore. È una sera invernale di luce soffusa e arrendevole, che riflette il cupo bagliore della neve abbondante caduta nel giardino del ricovero. A un certo punto la porta si apre, i due supposti amanti clandestini, che però non riescono ad essere completamente amanti, sussultano. Truce, funerea messaggera di un qualcosa che sfugge alla comprensione terrena, la moglie del pastore Hölenrauch «che ha messo al mondo diciannove bambini e non è più assolutamente in grado di formulare un pensiero qualunque» attraversa la sala al braccio di un’infermiera, «trascinata da un’ebete forsennatezza». La loro improvvisata unione è quindi sancita dall’immagine stessa della malattia, perché malati sono ambedue i protagonisti che non a caso si incontrano sulla soglia del proprio male fisico e spirituale; ma pure qui i confini sono meno netti di quanto appaiano.  
Anche in questo caso le premure di Spinell nei confronti della donna sono un’allucinazione dei sensi, il rifugio dalla propria indolenza di uomo incompiuto a livello creativo e dunque esistenziale. Mentre la musa prescelta fatica a entrare in questo ruolo e, costretta a elucubrare su argomenti che le sfuggono, peggiora il suo stato di salute. Come nel poema medievale Tristano cerca di trovare consolazione all’amore infelice per Isotta, sposando un suo quasi doppio, Isotta dalle bianche mani, perché il nome e la bellezza gli ricordano l’altra, i personaggi di Mann portano in sé qualcosa di questo compiacimento per l’amore mimato e respinto, più o meno consapevoli della beffa ma incapaci di fare a meno di questa attrazione fatale. Non sorprende pertanto che il riferimento alla storia di Tristano affiori anche nell’articolato discorso di Tonio Kröger in cui tenta di definire l’essenza artistica.
Equivocare il proprio ruolo di artista attira sciagure, mina le convenzioni del quieto vivere, cosa che se già tende a verificarsi nei caratteri inclini alla creatività, rischia di deflagrare quando di tale elemento si fa un uso irresponsabile, alla stregua di un alchimista impazzito. Mann sembra giocare volentieri con simili componenti, alla ricerca di un suo personale equilibrio, per quanto ne abbia ben chiara la natura precaria e come soffra la pur minima oscillazione. Sa che ragionare attorno a questa materia gli consegna uno degli spunti più avvincenti per deformare, esasperandoli, aspetti e condizioni con cui in parte ha fatto i conti lui stesso, specie agli inizi della sua carriera. E se la cava  con estrema disinvoltura, visto che, lo ripeto, siamo di fronte ai suoi capolavori.   

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consigliata:

Thomas Mann, La morte a Venezia, Tonio Kröger, Tristano,
traduzione di Enrico Filippini, postfazione di Furio Jesi,
Feltrinelli, 2014

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