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3 maggio 2017

Aleksandr Blok - I dodici



«Mi piace il suo viso severo e la sua testa di fiorentino del Rinascimento»
 (M. Gorkij)


Quando la rivoluzione è in marcia, allora viene il bello. Perché in quel periodo di sovvertimento e sospensione tante sono le aspettative che esplodono e cozzano. Di questo turbine fragoroso ed esaltante i versi di Blok sono una presa diretta immaginifica quanto implacabile. Il carro della storia viene qui rappresentato nel massimo del suo impeto sconvolto ma indirizzato al raggiungimento di un nuovo quadro sociale, coincidente per chi alla rivoluzione prende parte con una nuova visione del mondo.
Ai primi di gennaio del 1918, quando le piazze erano ancora calde e riecheggiavano i fatti dell’ottobre, Blok si dette a una scrittura veloce, quasi vorticosa, che in larga parte rifletteva anche nei ritmi quell’incredibile stagione da poco inaugurata. In seguito alle delusioni del 1905-1906, il giovane letterato ebbe modo di rimeditare la propria poesia, abbandonando il simbolismo e approdando a una fase più matura della sua pratica letteraria, non estranea da questo momento in poi a elementi di aperto realismo e perfino cinismo; con spirito rinnovato e rimesso in discussione per tutto un decennio, il poeta sta in piedi davanti al nero orizzonte, iracondo, violento ma anche fantastico della rivoluzione, uscita dalla testa dei suoi levatori e portata nelle strade dal popolo.
Nei suoi trecentotrentacinque versi, che ne fanno il poema più breve della letteratura russa, la vicenda si scompone e si sincronizza organicamente al moto rivoluzionario. Come una partitura I dodici avanzano nell’autunno moscovita, queste figure della guardia incappottate, con la baionetta a spalla, tra il rassegnato e l’astratto, segni appena accennati sulla tela che nel canto finale, il dodicesimo per l’appunto, apoteosi e sublimazione del narrare anche nel simbolismo numerico, incedono guidati da un Cristo diafano, misterico iniziatore dell’era che si va aprendo.
Durante la stesura Blok ebbe contatti coi comitati bolscevichi, davanti ai quali perorò la sua causa personale nell’ambito di quella politicamente articolata dalla rivolta: «a voi interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo l’anima della rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi». E in effetti alla divulgazione del messaggio nato nella fucina dei soviet, l’arte contribuì in buona misura, almeno nella primissima fase degli avvenimenti. Quando subentrò la disillusione, molti ingegni che avevano sostenuto quel primo slancio presero le distanze, alcuni finirono emarginati, come successe allo stesso Blok, per non dire delle vere e proprie persecuzioni cui tanti andarono incontro nell’isteresi delle purghe staliniane.
Tuttavia, la letteratura di inizio secolo, e in massimo grado la produzione poetica, filtra fino al dissolvimento dell’Unione Sovietica come patrimonio indiscusso di una stagione destinata a lasciare unorma proprio nel farsi della storia. Tra alti e bassi il cosmo letterario di quei primi diciassette anni del Novecento restò un faro per la cultura slava e non solo.
Il contrasto di bianco rosso nero, il monotono accumularsi della neve, il drappo della colonna di soldati che nel suo biblico andare diffonde il vangelo rivoluzionario, il nero della rabbia che impaurisce e sovverte ma che è pure azzeramento e moto generativo – si pensi ai quadrati di Malevič – è la dominante cromatica di questo scritto. Descrizioni fulminee, lampi d’ambientazione – lo striscione della costituente preso di mira dalla bufera, la vecchietta che si lamenta dei tempi, il borghese turlupinato – gesti e sguardi appesi a una dissonanza ritmica che pure sa anche trasformarsi in momenti di assoluto silenzio e raccoglimento. Come la quiete che cade improvvisa sul Névskij o sulla parata finale di cui già s’è detto.
In tutto ciò Blok gioca da artigiano esperto mischiando metri, toni, registri verbali. Dal latino, alla citazione letteraria, al preziosismo erudito fino al gergo di strada. Non è infrequente che nelle chiuse delle singole parti si concentri l’intera carica emotiva delle strofe precedenti, talora affidate alla saggezza proverbiale, come accade al capitolo sette: «Spalancate  le cantine – oggi giran gli straccioni!». Oppure al capitolo nove, dove l’immagine del vecchio mondo ormai in bilico e da demolire va insieme a quella del borghese fermo all’incrocio con accanto un cane rognoso – tra l’altro nell’escatologia legata ai miti sia il cane che l’incrocio rimandano a un passaggio ultraterreno, in genere verso gli inferi.
Innegabile che il poeta connoti l’evento rivoluzionario nel senso di una palingenesi storica, la quale necessariamente attinge ai simboli religiosi. Questa grazia e, se vogliamo dire, leggerezza sacrale nel sommovimento di un mondo che porta con sé morti e distruzione – ma è il prezzo da pagare per far largo al nuovo – s’inserisce nell’ideale messianico e metastorico della grande Russia in cui Mosca per l’epoca moderna vorrebbe assumere su di sé il ruolo che fu della Roma imperiale.
Uno dei suoi confidenti nello strepito creativo di quel gennaio disse di Blok: «sente la musica in tutta questa bufera, tenta di descriverla». E in effetti ci ha consegnato un canto, quasi un salmo, una scena musicale che con martellante incedere polifonico ci proietta anima e corpo dentro il golem rivoluzionario. Non è un caso che le strofe blokiane abbiano ispirato celebri ritornelli di canzoni popolari italiane, dall’inno della Guardia rossa a Prospettiva Névskij di Battiato. Cosa che ancor più testimonia delle profonde suggestioni che questi versi hanno risvegliato in umori artistici distanti dal punto di vista culturale e temporale, traccia di quell’universalità rivoluzionaria che qui premeva liberare.

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consigliata:


Aleksandr Blok - I dodici
a cura di Cesare G. De Michelis, con testo a fronte
Marsilio, 1995












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