Emilio Longoni, Il suono del ruscello, 1902-1903
Ogni
volta che mi notificano l’imminente chiusura di un sito a cui ho preso parte ci
sono due stati d’animo che in me si manifestano in rapida successione. Il primo, lo
dico senza girarci intorno, è di delusione. Quando va bene, si liquida in due
tre frasi uno scambio al quale ci si sente ancora legati per come si era definito o per l’utilità
che aveva avuto nel corso di una ricerca. Il secondo pensiero, ispirato a
sentimenti assai meno nobili, è di scocciatura. Non foss’altro che per le
ricadute tecniche prodotte da tali chiusure. Cancellazione dei materiali e
collegamenti disattivati – qualora ci si faccia davvero sorprendere per
mancanza di preavviso rischiamo addirittura di perdere il lavoro pubblicato. E
questo comporta pure un’ampia riflessione sulla natura effimera di internet,
sterminato contenitore divulgativo, affollatissimo multisala della pubblicazione
hic et nunc, ma anche strumento
talora dispersivo, affetto da elefantiasi, che in più di un caso preferisce
fare harakiri anziché stabilizzare o affinare i propri canali.
Ricordo
che la questione si pose in un vecchio corso universitario in cui si parlava di
editing di articoli scientifici. C’era chi si mostrava favorevole alla
citazione in nota di collegamenti tratti dal web, risorsa alternativa ai volumi in carta, e chi invece paventava il carattere troppo volatile e
volubile di uno scaffale posizionato in rete. Un collegamento può cambiare nel
tempo, per modifiche interne al sito o più drasticamente, lo si è detto all’inizio,
perché il sito chiude.
Il
mio caso è piuttosto singolare, se vogliamo. Sebbene abbia sempre avuto
propensione per la rete, in generale sono stata molto restia ad
affidare i miei scritti al web – quelli divulgativi vi sono entrati solo in
parte, e negli ultimi anni quasi esclusivamente attraverso il mio blog, quelli
creativi pressoché affatto, nonostante ripetute sollecitazioni. Non vi è un
motivo preciso. In prima battuta credo internet abbia il pregio di spalancare
le porte della diffusione ma anche di livellare altrettanto. E ci sono cose, la
letteratura è una di queste a mio parere (e la poesia soprattutto!), che ad
essere spianate, sdoganate troppo in fretta, svestite, ci perdono
irrimediabilmente. Se Leopardi avesse scelto di pubblicare L’infinito su facebook per il suo esordio che cosa sarebbe accaduto? Ci saremmo davvero accorti del grande poeta? A
volte mi diverto a pensarci. Thomas Mann titola un suo bel saggio “Poeti,
questi sconosciuti tra noi” in cui celebra proprio tale carattere carsico,
appartato, temporalmente esteso della necessità poetica.
Riflessioni
simili mi vengono anche da certi incontri in cui tento di spiegare, così, tra un
clamore e l’altro, tra un boccone e l’altro, in generale diciamo fra una
distrazione e l’altra, a cosa mi stia dedicando. Ogni tanto ci sono anche
persone gentili che mostrano una curiosità più solida, più radicata, meno
affrettata e apodittica. Ma anche in questi casi è inevitabile prendere atto
che siamo trascinati verso altro; l’idea di una certa bellezza o
cadenza stentano a farsi trovare, e se anche noi le siamo affezionati o devoti, sembra che non possa riaffacciarsi in nessun dove, perché
mancano spazi, voci, gesti che la rievochino. Manca quella vertigine sacra, sacerdotale, che ne custodisce il senso, capace di resuscitarne l’eco quando qualcuno, col
cuore risparmiato dai rumori del mondo, le si avvicina.
E scarseggiano forse anche delle autentiche fucine
fuori dai canoni, luoghi alchemici in cui gli ingegni possano davvero affinarsi.
Dove avrebbe scritto Joyce, quali stimoli avrebbe avuto, se qualche eccentrico
direttore editoriale non lo avesse lasciato fare, capitolo dopo capitolo,
capolavoro dopo capolavoro? La letteratura prende forma anche così. È questione
di vibrazioni telluriche, scosse elettriche, sodalizi, e tempo – non quello
affrettatissimo e in svendita che ci diamo. No, quello no.
Questa
premessa è per riproporre gli estratti di un saggio che scrissi anni fa. Una
prova di scrittura importante che oggi scompare dalla rete perché il sito, di
cui condivido a pieno le ragioni della chiusura, ha smesso di funzionare.
Ricordo che fu per me un esercizio comparatista notevole, ma non solo
confinato in quel metodo. Dunque ringrazio per la possibilità che mi si offrì
di presentarlo in pubblico per quella via – altra non ne avrei avuta e ciò è sempre
stato credo a detrimento e forse perfino in contraddizione con la mia lunga
attività di curatrice e traduttrice di libri dai trent’anni in avanti.
Oggi
mi scuso con quanti non troveranno più il testo integrale all’indirizzo che è
stata mia premura divulgare nelle mie pagine. Purtroppo correggere
quei post sarebbe dispendioso e qualcosa sfuggirebbe comunque. La lunghezza di
quello scritto non mi permette di restituirlo qui per intero ma, ripeto, almeno
in estratti sono felice di farlo, se non altro a testimonianza del processo
creativo che ne aveva accompagnato la nascita.
(Di
Claudia Ciardi)
Estratti da Fabula fluit
«Prendendo
in mano per la prima volta in questi mesi il testo del Finnegans, intuisco che c’è qualcosa di lui anche nel mio inizio
d’opera.
È
il levarsi della figura dalla materia, la parola che musicalmente attrae ogni
struttura linguistica per abbatterla e risvegliarla a una vita nova. Bisogna
ripartire dal Finnegans.
Questo
policentrico divagare per frammenti dell’Imitazione si accompagna a un
tentativo di metamorfosi della lingua come struttura sonora, su cui in
apparenza non cristallizza nessun significato, salvo poi scoprirsi disposta a
una associazione di immagini e sensazioni, significanti e dunque in grado di
significare, richiamate in forma di spirale.
L’esperienza
di Finnegan, la sua testa trasformata in promontorio e il corpo abbandonato al
fiume nella veglia di Dublino, accanto ai quali si stende forse più di un’ombra
ispirata all’asino apuleiano, fanno sentire pure la mia parola in bilico tra
cattività e risveglio.
Cosa
ne avrebbe detto E. P.? Di sicuro sarebbe valsa la pena anche in questo mio
modesto campetto vedere all’opera le cesoie che hanno coltivato la terra di
Eliot. Quanto alla prosa che si è rivelata nei Pisan Cantos, l’unica cosa certa, direi, è che il debito con E. P.
adesso è divenuto inestinguibile».
[…]
A Luminous Detail
«Per Cartesio il cosmo
era pieno di materia, un “plenum” simile a un vorticoso flusso d’acqua […]
Faraday suggerì che il flusso di cui parlava Cartesio fosse in realtà un mare
di sole forze. I punti di materia, gli atomi, erano soltanto le intersezioni a
forma di stella di miriadi di linee di forza radianti che si spandevano da
questi centri per tessere il loro cammino nell’universo».
All’inizio
di I gather the limbs of Osiris, una sorta di Ars poetica, Ezra Pound introduce
il lettore al metodo attorno a cui si organizza la sua ricerca, ossia il metodo
del luminous detail. Si tratta di un approfondimento e di una ulteriore
precisazione di ciò che era stato enunciato nei saggi di The Spirit of Romance.
Il modus operandi della filologia poundiana, già prefigurato dalla raccolta di
saggi del 1910, trova in questo successivo essay (1911) un compendio alle
distanze prese dall’utilizzo dei testi per trarne argomenti validi a suffragare
le ideologie dei nascenti nazionalismi, sulle quali si stavano strutturando i
nuovi canoni letterari.
Questa
visione meccanicista e strumentale del testo, secondo Pound, deve essere
accantonata a favore di una ricerca basata sul valore letterario intrinseco al
componimento, trascendente condizionamenti, leggi, mode di un’epoca e
appartenenze nazionali. Sono soprattutto gli storici positivisti a farsi
portatori di un atteggiamento percepito dal poeta come disgregante della
materia di studio e dunque della sua comprensione.
To
gather, ecco il dettaglio ‘discriminante’ e adtrahens del concetto e della
figura (Tamuz-Adone come Osiride, come Dioniso), che prende vita insieme
all’altro luminous detail, il fiume-corrente. L’aggregazione della materia
verbale si decide nel mutevole esercitarsi della fluida volontà isiaca, che ha
in sé gli elementi di ichor e amore, in grado di ricondurre l’identità al suo
plenum.
Il
nesso che da qui ci porta all’incantesimo acquatico del Finnegans, dove i
personaggi sono allo stesso tempo personae e luoghi, si stabilisce in maniera
meno improbabile di quel che si potrebbe frettolosamente pensare:
«lurch
away in the moonshiny gorge of Patself on the Bach. Adyoe. […] Rain. When we
sleep. Drops. But wait until our sleeping. Drain. Sdops».
Strofa
augurale scandita al ritmo della pioggia sul sentiero e sul sogno del
viaggiatore, fino alla scomposizione della singola goccia, in pura immagine
sonora.
«Out of Phlegethon!»
Quasi
complemento musicale del prologo dei pisani, il Canto 75 approfondisce e
realizza le attese rituali della nékyia, evocando la fuga dal Flegetonte e la
risalita del verso che, in seguito alla catarsi musicale, rinviene l’unità del
melos: «not of one bird but of many», coralità di memorie che introduce al
navigium pisano. Anche qui vediamo recuperata l’istanza già presente nell’essay del 1911: dai frammenti
dell’esperienza, riflessi su un verbum
scoordinato e mutilo, a un nuovo corpus poetico ricomposto nell’armonia di
suono e canto.
Il
Flegetonte è il fiume ardente, con ciò veicolando, insieme all’idea
dell’incessante fluire dell’acqua, anche quella del fuoco.
Ora,
proprio il fuoco ha in sé una doppia natura, distruttiva e generatrice, e la
sua fluidità che lambisce la materia, segnandola nell’opera di affinamento (si
pensi al fuoco che affina in Dante), funziona nei Cantos da elemento conduttore del pensiero, frutto dell’esperienza:
«Il pensiero che deriva
dall’esperienza sensoriale si manifesta come “fuoco” e dà vita alle figurazioni
mitiche quali Afrodite, Kypris, Elena, ecc., mentre l’attività intellettuale si
manifesta come “luce” e trova riscontro in Artemide, Selene, Diana ecc.
Tuttavia entrambe le esperienze costituiscono i due aspetti di un’unica energia
e danno origine alle due sfere: “the ball of fire” e “the great ball of
crystal”. Si ricordino le progressioni: «the body of light came forth from the
body of fire» e più avanti «from fire to crystal/ via the body of light». Siamo
ricondotti all’idea della “Pietra” la cui connessione con l’elemento fluido
apre nuove prospettive».
Qualcosa
di simile alla Blendung, in italiano
“accecamento” e “abbagliamento”, che ad esempio innesca la nascita (o
rinascita) letteraria di Elias Canetti. Nello scrittore bulgaro di lingua
tedesca, ci torneremo anche più avanti, la parola si regge sulla esortazione a
una verità che attraversa il fuoco, per potersi dire salva dai pericoli del
fraintendimento.
I
fiumi dunque sono i portatori per eccellenza dell’idea della lotta ingaggiata
da ogni essere per sopravvivere. E tra i fiumi che più hanno rappresentato la
vita anche nella morte il Nilo vanta una antica e lunga tradizione, andata ad
alimentare un complesso amalgama mitologico e misterico. Non a caso è da questo
fondale culturale che Pound attinge per trarre l’intreccio di maggiore spessore
allegorico, utile sia la stesura dei saggi sia all’infinita spirale dei Cantos:
Iteru, il Nilo, primo officiante di quell’immaginario mai esaurito che rende
omaggio alla polimorfia dei suoi quadri concepiti sulle sponde di altrettanti
fiumi augurali.
In
Ungaretti, il poeta dei fiumi, il cui corpo straziato dall’esperienza in
trincea è stato disperso come Osiride, si tratta dell’immersione rituale della
memoria nell’Isonzo che gli permette di recuperare le origini violentemente
cancellate dalla guerra, riportandolo fatalmente alla propria infanzia in
Egitto:
«Questo
è l’Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/
dell’universo/ Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia/ Ma quelle
occulte/ mani/ che m’intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità/ Ho ripassato/
le epoche/ della mia vita/ Questi sono/ i miei fiumi»
Andando
a ritroso non solo nello spazio ma anche nel tempo, sulla scia delle immagini
mentali salvate nei secoli da cronisti, viaggiatori e scrittori, torniamo a
visitare le sorgenti da cui è scaturita la riflessione degli antichi. Così
Seneca, nel III libro delle Naturales Qaestiones vedeva nei fiumi la
possibilità di raggiungere la summa veritatis : «Metaforicamente, capire la
vera origine del fiume significa rinunciare a qualsiasi altra domanda». Né la
ricerca tacitiana si definisce più fisicamente di quanto il lettore moderno
potrebbe aspettarsi da una trattazione geo-etnografica sulla Germania.
Le
prime parole dello storico latino ci regalano una ‘fotografia aerea’
dell’impero scandito dai grandi corsi d’acqua che ne hanno levigato la storia:
«Germania omnis a Gallis
Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo
metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum
inmensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus, quos
bellum aperuit. Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti vertice
ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur.
Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus pluris populos
adit, donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat: septimum os paludibus
hauritur».
Non
si evidenziano qui le divisioni dei territori ma il fluire delle vite dei
popoli accanto ai loro fiumi, tutti – uomini e paesaggi – cinti dal padre
Oceano, fiume lui stesso, che corre intorno alla terra. La rappresentazione dei
luoghi avviene dal punto di vista delle acque che li percorrono e, più che alla
precisione geografica, Tacito si mostra affezionato, come anche in altre
sezioni della sua monografia, a una visione del mondo che attinge a una
prospettiva quasi fiabesca, in cui gli elementi di natura assumono lo status di
personaggi mitici e voci narranti, sovrapponendosi alle gesta dei popoli che
questi spazi occupano.
Remo
Ceserani, in un’ampia ricognizione sui fiumi e l’immaginario che li accompagna,
chiosa proprio questo punto:
«Nella
letteratura dei Romani e nel loro ampio e diversificato territorio si assiste
alla confluenza dei diversi modelli di fiume, in particolare quello egizio e
quello greco. Alcuni dei fiumi del territorio dominato dai Romani, come il Po e
il Tevere e i grandi fiumi europei, il Rodano, il Reno, il Danubio, sono ampi e
anche navigabili, altri mantengono il carattere torrentizio e capriccioso,
passando da un regime pacifico a uno violento e offrendo immagini consone alla
poesia».
Tacito
si è fatto interprete e sacerdos
della doppia identità occidentale; nella sua opera la cultura mediterranea
risale verso nord, miscetur, appunto, pur lasciando incompiuta la
rappresentazione dell’incontro.
La
Grecia, l’Italia, il nord, l’occidente e l’oriente sono le direttrici dell’imperium ma anche gli assi per cui si è
trasmesso quel moto sconfinante di latitudini e storie affacciate oltre il limes, che scende inquieto fino al Mar
Nero. L’argine tuttavia non può non sentire il vibrare della corrente che gli
scorre dentro, e la sorgente e la foce dissolvono nell’unicum della loro
reciproca appartenenza.
[…]
Ed
ecco che avanzando per questa stessa via ci ritroviamo scortati dalla Fackel di
Canetti, l’altro grande traghettatore della Mitteleuropa sulle acque del
Danubio, che marca questa “terra di mezzo e in mezzo”, dove lo scrittore svolge
au revers il periplo della sua vita. Sennonché, nella sua ricognizione
biografica Canetti finisce per mettere fuori campo proprio la vicenda
personale. Lo scrittore emerge negli incontri, nelle conversazioni, il suo
carattere si colora nel passaggio attraverso gli altri e attraverso le letture,
inesorabilmente incorporate alla definizione di se stesso. In questo senso, la
rievocazione del decennio che porta alla stesura di Auto da fé, solo in parte
ci riconduce a un inizio. Si tratta ancora una volta di un’origine umbratile e
sfuggente, più viva dentro la trasfigurazione della parola scritta che nella
sua reale collocazione nello spazio. Ruse, la città natale, il movente del
percorso, è infatti lontanissima dal lettore. Il «viaggio all’ingiù» che
dovrebbe riportarci a casa, diviene improvvisamente reticente, e Ruse, con un
colpo di mano, è sostituita dall’immensa epopea di Odessa, vissuta con gli
occhi di Babel’. È lo scrittore russo a permettere a Canetti di ripensare la
geografia della sua infanzia sul Danubio. Il nesso s’inserisce tra le immagini
delle settimane passate a Varna con i familiari e l’incontro con Babel’, molti
anni più tardi, nello stridente clamore con cui il settembre del 1928 passava
su Berlino. Questo passo nel quale sono raccolti i luoghi di una vita e gli
spazi letterari che vi corrispondono, in perfetta contiguità e sintesi, è uno
dei più alti della Fackel:
«Ritenevo
che il Mar Nero mi appartenesse, benché lo avessi conosciuto soltanto, per
poche settimane, durante il mio soggiorno a Varna. Era come se la forza
variopinta e selvaggia delle storie di Odessa fosse stata alimentata dai
ricordi della mia infanzia; senza saperlo, avevo trovato in Babel’ il capoluogo
naturale di quella piccola regione del basso Danubio; se Odessa fosse sorta
alle foci del Danubio, la cosa mi sarebbe parsa naturale. In tal caso il famoso
viaggio che aveva dominato i sogni della mia fanciullezza, il duplice viaggio che
scendeva e risaliva la corrente del Danubio, sarebbe andato da Vienna a Odessa
e da Odessa a Vienna, e Rustschuk, che era piuttosto in basso, avrebbe trovato
in quel percorso la giusta collocazione. Ero curioso di Babel’ come se fosse
nato in quella regione, della quale mi riconoscevo figlio soltanto a metà. Solo
in un luogo che si apriva sul mondo mi sentivo perfettamente a mio agio. E
Odessa lo era. Così Babel’ aveva sentito quel luogo e le sue storie. Nella casa
della mia infanzia tutte le finestre guardavano Vienna. Ora, su un lato rimasto
fino a quel momento in disuso, era stata aperta una finestra verso
Odessa».
Dunque,
se Ruse è Odessa, e ancora nella casa di Vienna le finestre continuano a
guardare verso il Mar Nero, impariamo da Canetti che le origini stanno dove si
decide di collocarle, e al contempo ci troviamo insieme a lui nel bel mezzo di
quelle invisibili correnti e traiettorie che uniscono le persone all’accadere
delle cose, attraendo senza sosta le une alle altre. Canetti si affida al suo vodjanoj come Babel’ vi si affidò a quattordici anni, per imparare a nuotare tra
le onde del Mar Nero, «un mare verde e pesante».
Babel’
e Canetti si affacciano su questa foce comune.
Del
Ponto Eusino Erodoto diceva che l’unico popolo degno di essere menzionato era
quello degli Sciti, riguardo ai quali ha scritto che hanno ottenuto la loro
supremazia «grazie al terreno favorevole e alla presenza dei fiumi che si
rivelano loro alleati». E ancora, a
proposito dell’essenza acquatica che nutre i corpi degli esseri umani, vale la
pena riportare la descrizione dei traci, fatta da Claudio Magris che cita Anton
Dončev:
«I
traci sono oceano, i proto bulgari, unogonduri e onoguri, che giungono dal Mar
Caspio e dal Mar d’Azov, sono onda che muove e agita quell’oceano originario,
gli slavi sono la terra e la mano paziente che la impasta e le dà forma: i
bulgari moderni sono la fusione di tutti e tre gli elementi».
[…]