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1 febbraio 2018

Le nuove frontiere della pittura





Che buona parte delle proposte artistiche contemporanee si sia indirizzata a una rimessa in discussione formale, e in larga parte iperconcettuale, delle avanguardie storiche è un dato acquisito. Mi torna in mente una mostra poco pubblicizzata di qualche anno fa a Palazzo Sozzifanti (Pistoia), assai esemplificativa per questi temi, in cui vennero esposte alcune tra le opere di maggiore richiamo nell’ambito della piccola scultura da Fortunato Depero a Beverly Pepper, una carrellata densissima tra avanguardia e postavanguardia. Ricordo con chiarezza la sensazione di una ripetitività, che rasentava il fastidio, il tono autoreferenziale di un esercizio volutamente ostentato, non appena usciti dagli spazi delle avanguardie storiche, con un picco nelle espressioni prodotte tra i Settanta e gli Ottanta. Messaggio: è già stato detto tutto, non resta che la citazione della citazione. Da dopo la metà del Novecento s’impone una sorta di logaritmo dell’arte in base astratta, capace di dare risultati simili se non uguali. Ora, la mia suona forse come una semplificazione eccessiva, ma credo non sia esagerato ravvisare in molte di queste opere una pratica fine a se stessa, lontana se non antitetica alle istanze di rottura delle prime avanguardie.  
Discorso ad ampio raggio che coinvolge non solo le arti plastiche ma latamente ogni manifestazione creativa, e in particolare la letteratura, con cui l’avanguardia pittorica del primo Novecento ha stretto un dialogo serrato, tra contaminazioni, prese di distanza e ricongiungimenti. Si consideri, ad esempio, l’espressionismo, nato in pittura e quindi approdato alla poesia. Quando nelle sue proposte letterarie può dirsi già esaurito – più o meno intorno al 1920 – persiste la sua vitalità artistica, almeno per un altro quinquennio, sebbene anche qui con evidente esaurimento della sua carica iniziale.
Dagli anni Quaranta ha inizio quel processo di invecchiamento dell’avanguardia innescato dal capillare afflusso della cultura americana nell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. Dal vecchio continente la modernità si trasferisce oltreoceano e diviene postmodernità, oggetto di studio, materia d’archivio sviscerata dalla critica, voce addomesticata a cui torna a guardare proprio quella borghesia elitaria, scossa un ventennio prima dall’irruzione dei suoi figli più indisciplinati e geniali sul palcoscenico delle arti. Scrive Alfonso Berardinelli nel saggio Poesia non poesia, dedicato agli sconfinamenti e alle declinazioni del moderno: «La continuità si era interrotta. Non si poteva credere di continuare esperienze primo-novecentesche. Sarebbero state comunque  trapiantate e riusate accademicamente, in un contesto ormai mutato nel quale il “pubblico borghese” classico, scandalizzato e oltraggiato dalle avanguardie storiche, era stato addestrato dalla critica e si era trasformato  nel pubblico neoborghese avanzato e consenziente che considerava la trasgressione avanguardistica come il primo comandamento culturale. L’avanguardia si insegnava nelle accademie. E questo ha determinato negli anni Sessanta la nascita di quella postmodernità matura che trasferiva lo shock moderno in un aldilà pacificato». Dunque, si è ripetutamente spacciato per contestazione ciò che in realtà nasceva in seno al mare tranquillitatis di élites politicamente e culturalmente promosse dal sistema; e questo spiega anche perché molte delle opere scaturite in tale contesto non hanno aggiunto nulla al nostro senso critico né hanno saputo spingere verso una qualche forma di rinnovamento. Una promessa mancata – e non poteva essere altrimenti – in quanto stravolta all’origine dalla sua filiazione: il nuovo conservatorismo politico non poteva produrre un’arte nuova.
In tutto ciò il figurativo è rimasto un mondo a parte, un cenacolo di pochi e per altrettanti nostalgici, confinato in una sorta di limbo delle arti e tacciato di mancanza di originalità.
Il curatore di Le nuove frontiere della pittura, allestita alla Fondazione Stelline (Milano), Demetrio Paparoni, nella sua articolata presentazione della mostra insiste su un doppio binario politico, analizzando la rinascita figurativa da un lato come una risposta culturale alta allo spaesamento globale, che ha sovvertito l’idea tradizionale di spazio-tempo, perlomeno così com’era veicolata in occidente. Dall’altro isolandone l’autentico gesto di ribellione alle chiusure critiche, dettate da una contrapposizione ideologica esasperata perdurante fino a prima della caduta del muro di Berlino. La postavanguardia a rilettura americana implicava un accantonamento del figurativo quale puro esercizio ornamentale svincolato dagli orientamenti di potere. «In sostanza, quella parte della critica ideologizzata attiva sulla scena degli anni Settanta e Ottanta», scrive Demetrio Paparoni, «ha fatto muro contro la pittura figurativa perché convinta che cambiare la struttura del linguaggio equivalesse a portare avanti una sorta di rivoluzione politica».
E su tale fronte è di estremo interesse osservare come negli stessi Stati Uniti non sia venuta meno una corrente figurativa che nell’ultimo trentennio ha mantenuto un suo vitalismo, ancora una volta influenzando ex contrario le tendenze dell’arte, stavolta in concomitanza con esiti similari in altre parti del mondo, soprattutto asiatico. Inka Essenhigh, Dana Schutz e gli italiani Alessandro Pessoli e Nicola Verlato, americani d’adozione, nomi che non a caso trovano spazio nella rassegna milanese, sono esempi di quello che potremmo definire un antiavanguardismo militante.
L’intreccio con la grafica e la fotografia nella trentina di tele in grande formato esposte al Palazzo delle Stelline è palese. Nel caso degli artisti del sud-est asiatico (sono esposti Li Songsong, Liu Xiandong, Nguyen Thai Tuan, Natee Utarit, Wang Guangyi, Yue Minjun, Zhang Huan) si aggiunga la riflessione del fatto storico – il recente passato coloniale, la guerra – riletto e calato nell’attualità attraverso volute distonie, quando non si tratta di aperti contrasti tesi a generare stalli e interruzioni nel fatto narrato. Tutto è compenetrante e vivo ma anche sfuggente, sempre ai limiti dell’incomprensione: giocare a sovrapporre memorie e immaginazione, momenti del reale e dell’irreale, sogni e storia è un modo comune per ammonirci sulle sirene del nostro tempo. Ma anche per lasciarci la massima libertà di movimento nel percorrere le nuove coordinate disegnate dall’epoca globale, consapevoli che l’impostazione narrativa stessa non può non risentire del cambiamento.
E proprio la presenza per certi versi deformante ma anche imprescindibile della grafica alla base di queste creazioni denota come la pittura figurativa, data per morta più e più volte, sappia ancora autoprodursi in una sfera rappresentativa indipendente, autonoma e capace di raccontare il mondo da un punto di vista originale e, soprattutto, attraente per chi vi si affaccia.


Catalogo:

Le nuove frontiere della pittura,
a cura di Demetrio Paparoni,
16 novembre 2017 - 25 febbraio 2018, Fondazione Stelline, Milano,
Edizioni Skira


Ultimi giorni per visitare Dentro Caravaggio, la mostra che vede presenti a Palazzo Reale (Milano) più di venti capolavori di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610).
Iniziativa di ampissima risonanza, grazie all’approfondita introspezione nel modus operandi dell’artista milanese. Evento basato su un progetto di divulgazione multimediale in linea con le più recenti tendenze negli allestimenti espositivi. Le tecnologie ormai sempre più sofisticate al servizio della cosiddetta diagnostica artistica permettono di catturare le fasi di realizzazione di un’opera, analizzando al dettaglio il lavoro compiuto dal pittore in ognuna delle sue parti. Si entra, dunque, nel laboratorio caravaggesco come mai prima era stato possibile. Strati di pittura, sfondi, riposizionamento dei soggetti vengono ora svelati al largo pubblico.
Caravaggio può essere considerato il padre della fotografia in pittura. Quelle che ci regala nei suoi dipinti sono vere e proprie istantanee. L’uscita dal manierismo ne fa un innovatore assoluto e per certi versi “precognitivo”, discorso che va ben al di là delle tecniche da lui messe a punto nel suo percorso artistico. Per quanto possano sembrare mondi lontani, le frontiere della pittura, rassegna che porta per la prima volta in Italia più di trenta opere di arte figurativa contemporanea da tutto il mondo, e Caravaggio hanno un filo conduttore. Il figurativo dalla modernità in avanti non ha mai smesso di innovarsi e innovare. La pittura ha “inventato” la fotografia e quando la fotografia l’ha data per morta ha dimostrato di saper restare sul campo senza pericolo di essere superata.


(Di Claudia Ciardi)





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