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28 aprile 2018

F. Braudel - Sguardi sul Mediterraneo (I)




Un saggio di storia tra i più profondi, estesi e stimolanti degli ultimi cinquant’anni, dove cronaca, commento agile e disinvolto dei fatti, analisi sociologica e teoria politica s’intrecciano mirabilmente, facendo appassionare il lettore a vicende altrimenti poco note, eppure non così lontane nello spazio e nel tempo. Ci aggiriamo infatti negli avventurosi e turbolenti secoli che preparano il terreno al consolidamento degli Stati moderni, tra la metà del Cinquecento e il Seicento, periodo di cambiamenti sociali, in qualche caso sarebbe più opportuno dire scivolamenti, e anche repentine battute d’arresto. Il libro è Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, la sterminata opera di Fernand Braudel, in Italia pubblicata da Einaudi a partire dalla metà degli anni Sessanta e subito al centro di un fervido dibattito. Inutile dire che siamo davanti a uno di quei monumenti sacri investiti del ruolo di attrarre e convogliare attorno a sé energie nuove della storiografia recente e della sua teoria, innovando la disciplina in alcune delle principali articolazioni che le sono proprie.
Bastano scorci di questo tipo: «Siviglia, ottobre 1581: i vagabondi fermati in una retata della polizia sono imbarcati di forza sulle navi di Sotomayor [l’artefice del disastro dell’invincibile armada], dirette verso lo stretto di Magellano. Erano destinati a fare gli sterratori, i guastatori, ma quattro legni colarono a picco durante la traversata e mille di quegli sventurati finirono annegati», oppure «in Sicilia le imprese dei briganti erano cantate dagli “urvi”, cantori ciechi itineranti, che si accompagnavano con una specie di violino polveroso, e che la folla circondava avidamente sotto i platani dei viali». Bastano, si diceva, questi quadri vividi tratti dai resoconti del tempo, che Braudel con l’agilità del grande studioso riassume in poche pennellate e fa tornare attuali, per farci toccare con mano il passato e scoprirlo sorprendentemente contiguo, e per dare al suo lavoro un taglio che non è esagerato definire letterario. Del resto a fornire tutti gli ingredienti è proprio il gran teatro della storia, cui lo scrittore guarda. La severità tracotante, nutrita del più arcaico e immobile feudalesimo, dell’aristocrazia, le ambizioni di una borghesia mercantile che tuttavia è ancora poco cosciente del suo ruolo di classe, uno Stato moderno consolidato ma al contempo dai confini ancora incerti, che vive d’innumerevoli compromessi e appoggi nella classe nobiliare che ancora fino a tutto il Seicento orienta i giochi di potere. Ma pure si tratta di una nobiltà ambigua, sfuggente, che attraversa rovesci pesantissimi e si apre, di necessità, agli innesti di nuove personalità, di grandi mercanti e banchieri che avevano fatto fortuna lontano dalla terra e che a un certo punto alla terra vogliono tornare. Infine la massa di contadini, poveri, vagabondi, avventurieri, rovinati delle congiunture economiche sfavorevoli, che sulla fine del Cinquecento divengono una sconcertante realtà con cui le culture mediterranee si trovano a fare i conti. Picari, briganti, pirati, ladruncoli di strada, mercenari, imboscati, prostitute, vedove in cerca di nuovi redditieri, rivoltosi, disoccupati per costrizione o per volontà di non voler andare sotto un padrone. Le torme di diseredati che scendono dai monti verso la pianura, affluendo nelle campagne di Spagna o sulle coste provenzali o nell’entroterra italiano, al solo fine di razziare, sono connaturate alla storia mediterranea, dai Pirenei al Marocco. Talora divengono protagoniste di sommosse, anche violente, ma brevi e subito brutalmente strangolate dagli eserciti o da altri mercenari, in qualche caso quella stessa gente che viveva in promiscuità con tali compagni di strada, assoldata dal signore di turno per far pulizia.
È un mondo in subbuglio che Braudel inchioda alle soglie di un pauperismo in deciso aumento in tutte le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo. Sovrappopolazione, violenza dei potenti, soprusi di Stato, graduale o improvvisa uscita di scena di quelle borghesie mercantili che avevano saputo attrarre ricchezze e metterle in circolo nella società, costituiscono una miscela infiammabile, destinata a rimescolare di lì a poco equilibri e certezze. «Un lungo e intenso lavorio in profondità elaborò a poco a poco e trasformò le società mediterranee, dal 1550 al 1600, concludendo una lunga gestazione. Il malessere generale e crescente, pur non traducendosi in rivolte palesi, modifica nondimeno tutto il paesaggio sociale. Ed è un dramma innegabilmente di carattere sociale. […] Indubbiamente, tutto tende a polarizzarsi tra una nobiltà ricca, vigorosa, ricostituita in famiglie potenti sostenute da vasti beni stabili, e una massa di poveri sempre più numerosi e miserabili, “bruchi o maggiolini” [così si legge nelle cronache d’epoca], insetti umani, ahimè sovrabbondanti. Un cracking spacca in due le vecchie società, vi scava baratri. Nulla li colmerà: neppure, ripetiamolo, la straordinaria carità cattolica di fine secolo. […] La crisi dà i suoi colori alla vita degli uomini. Se i ricchi bazzicano con la canaglia, si mescolano più facilmente alla folla che disprezzano, vuol dire che la vita ha allora le sue due rive vicine; case nobili da un lato, sovrappopolate di domestici; picardìa dall’altro, mondo del mercato nero, del furto, del vizio, dell’avventura e soprattutto della miseria… Analogamente, la più pura, la più esaltata passione religiosa si accosta alle più sorprendenti bassezze e brutalità. Singolari e meravigliose contraddizioni del barocco, si è esclamato. No, non del barocco ma della società che lo sostiene e lo ricopre male. E, nel cuore di queste società, quale disperazione di vivere!». Questo il commento conclusivo a una delle sezioni più avvincenti del libro, il capitolo V dedicato alle società e alle loro incongrue, complesse, affatto scontate trasformazioni, di cui intendiamo qui rileggere alcuni passi salienti. Se non è vero che la storia si ripete esatta, è invece inconfutabile che la sua conoscenza approfondita aiuti a capire meglio chi siamo. L’approfondimento di alcune delle dinamiche riportate alla luce dall’enorme lavoro di scavo di Braudel è un dono quanto mai prezioso che di certo non ha ancora esaurito il suo messaggio. 

(Di Claudia Ciardi)


«Nel vasto campo mediterraneo del secolo XVI, l’evoluzione delle società appare abbastanza semplice. A patto, evidentemente, di limitarsi all’insieme, di trascurare i particolari, i casi locali, le aberrazioni, le occasioni perdute (che furono numerose) e i rivolgimenti spesso più drammatici che profondi: sorgono, poi spariscono.
Questi sconvolgimenti, è evidente, hanno la loro importanza. Ma le società di allora, a base terriera, si evolvono lentamente e sono sempre in ritardo sulla politica e sull’economia. E le congiunture sociali sono come tutte le congiunture, ora in un senso, ora nell’altro; spesso finiscono col compensarsi, così che, alla lunga, l’evoluzione effettivamente compiuta resta poco avvertibile. In Francia, probabilmente hanno giocato forti alternative: tutto il primo secolo XVI è sotto il segno della mobilità sociale, i poveri si spostano da un punto all’altro, da una regione all’altra, senza soccombere nel corso dell’avventura; in pari tempo, in verticale, lungo la scala sociale, ci sono ricchi che cessano di esserlo e sono sostituiti da nuovi ricchi; poi, verso gli anni 1550-60 si osserva un rallentamento, e il movimento riprende più tardi per bloccarsi ancora, forse fin dal 1587 in Borgogna, o verso il 1595, sull’ora mondiale dell’inversione della tendenza maggiore. Abbiamo così di volta in volta, un’accelerazione, un ritardo, una ripresa, un ristagno, e tutto ciò porta, ma solo momentaneamente, alla vittoria evidente delle aristocrazie, e solo sul finire del secolo, a un semiblocco delle società. Questa realtà, però, è ancora un risultato congiunturale, di quelli che possono scomparire o essere compensati dall’ondata successiva» [si cita in proposito il Drout “Mayenne et la Bourgogne”: «Questi legulei, che avevano da un secolo sconvolto il vecchio ordine sociale, verso il 1587 formavano già un corpo conservatore. Volevano mantenere il regime che aveva favorito la loro ascesa, e il pane che poteva garantire il loro avvenire. Tendevano anche ad isolarsi come classe sulla sommità conquistata»].
Il secolo XVI, insomma, nonostante le sue esitazioni o a causa di esse, non ha rimesso in discussione le vere basi della società. In complesso, le accetta e le riceve, già pronte, dalle epoche precedenti; e a sua volta le accetterà il secolo XVII. […] Una nobiltà alle prese con continue difficoltà finanziarie, a cui tuttavia sopravvive; uno Stato moderno che non riesce a compiere la sua missione e a realizzarsi come rivoluzione sociale (si accontenta di compromessi, gioca alla coesistenza); una borghesia che continua a tradire – ma si riconosce forse come patria sociale? – ; infine un popolo inquieto, scontento, agitato e tuttavia privo di una vera coscienza rivoluzionaria».

[…]

«All’epoca di Enrico II, la nobiltà francese importava, ogni anno – così si diceva – capi di abbigliamento per quattro milioni di lire, provenienti dall’Italia. Ma le apparenze non escludono, anzi richiamano le realtà tangibili della potenza, della ricchezza… Su spazi immensi, quelle nobiltà vivono della linfa e delle vigorose radici feudali. Un ordine antico fa capo a quei privilegiati e ancora li sostiene. Le sole eccezioni sono intorno o all’interno delle grandi città, corruttrici delle antiche gerarchie, sono nei centri mercantili (e ancora), nei paesi arricchitisi per tempo, quali i Paesi Bassi e soprattutto l’Italia, ma non tutta l’Italia.
E queste eccezioni? Punti minuscoli, zone ristrette. Su scala mediterranea ed europea, si tratta, evidentemente di una storia minoritaria. Di quel vasto complesso, possiamo ripetere ciò che diceva Lucien Romier della Francia di Caterina de’ Medici, nella quale tutto diventa chiaro “non appena le viene restituita la sua cornice naturale, un vasto regno semifeudale”. Per ogni dove, lo Stato, rivoluzione sociale (ma appena abbozzata) quanto politica, deve lottare contro “quei possessori di feudi, padroni dei paesi, dei campi, delle strade, guardiani dell’immenso popolo rurale”. Lottare, e cioè venire a patti con essi, dividerli, e anche proteggerli, perché è impossibile tenere in pugno una società senza la complicità di una classe dominante. Lo Stato moderno prende nelle sue mani quello strumento, e se per avventura lo spezzasse, tutto sarebbe da rifare. E creare un ordine sociale non è cosa da poco, tanto più che nessuno, nel secolo XVI, ci pensa seriamente.
Così, nobiltà e feudalità hanno dalla loro il peso delle consuetudini, la forza di posizioni da tempo tenute, per non parlare della relativa debolezza degli stati, o della limitata immaginazione rivoluzionaria del secolo».

[…]

«Nel secolo XVI, la borghesia, legata al commercio e al servizio del re, è sempre sul punto di perdersi. Essa non rischia solo la rovina. Se diventa troppo ricca o ne ha abbastanza dei rischi della vita mercantile, eccola acquistare cariche, rendite, titoli o feudi e lasciarsi tentare dalla vita nobiliare, col suo prestigio e i suoi ozi tranquilli. Al servizio del re si diventa nobili abbastanza rapidamente; anche per questa via, che non esclude le altre, la borghesia si perde. Essa rinnega se stessa, ancor più facilmente perché, nel secolo XVI, il denaro che distingue il ricco dal povero vale già come un pregiudizio di nobiltà. E poi, alla svolta tra il XVI e il XVII, gli affari segnano il passo, respingono i prudenti verso la terra e i suoi valoro sicuri. E la terra è aristocratica per vocazione. «Molti dei principali mercanti fiorentini sparsi per le diverse piazze dell’Europa – racconta il Galluzzi nella Istoria del Granducato di Toscana – secondando il genio del granduca portarono in Toscana i loro fondi per convertirli in terreni, ed applicarsi all’agricoltura; in conseguenza di ciò ritornarono da Londra i Corsini e i Gerini, i Torrigiani da Norimberga e si fecero fiorentini gli Ximénes, mercanti portoghesi, i quali ben volentieri concorsero a covertire in tante terre in Toscana le loro ricchezze…». […] Non è eccessivo parlare di un fallimento della borghesia, a condizione di portarsi abbastanza avanti nel secolo XVII. La borghesia era legata alle città; ora, le città conobbero una serie di crisi politiche, come la rivolta dei Comuneros spagnoli nel 1521, la caduta di Firenze nel 1530. Le libertà cittadine ne soffrirono molto. Poi vennero le crisi economiche; prima transitorie, poi, col secolo XVII, persistenti, esse intaccano profondamente le prosperità della città. Tutto cambia, deve cambiare».

[…]

«Sui poveri la storia getta ben poche luci, ma essi sanno, a modo loro, attirare l’attenzione dei potenti di allora, e di rimbalzo anche la nostra. Disordini, sommosse, rivolte, preoccupante moltiplicarsi di “vagabondi e girovaghi” [“erranti e vagabondi” è la definizione dei consoli e scabini di Marsiglia, che, nel loro consiglio del 2 gennaio 1566, decisero di visitare i quartieri della città per cacciarne tutti quegli oziosi]. Ripetuti colpi di mano di banditi, tanto subbuglio, seppure spesso attutito, rivela la singolare ondata di miseria dello scorcio del secolo XVI, destinata ad aumentare ancora nel secolo successivo. Verso il 1650, probabilmente, quella afflizione collettiva tocca il fondo. Ascoltiamo il diario inedito di G. Baldinucci, da cui abbiamo tratto più di una notizia: nell’aprile 1650, a Firenze la povertà è tale che non è più possibile ascoltare in pace la messa, tanto si è importunati, durante il rito, dai miserabili «ignudi et pieni di scabbia». Tutto, in città, è spaventosamente caro «e le arti non hanno lavoro»; per colmo di sventura, poi, il lunedì di Carnevale, una tempesta ha distrutto olivi, gelsi e altri alberi da frutta…».

[…]

«In realtà, a differenza dell’Europa settentrionale dove le guerre cosiddette di religione mascherano una serie di rivoluzioni sociali a catena, il Mediterraneo del secolo XVI, pur di sangue vivo, vede fallire le sue rivoluzioni. Non certo per non averle messe e rimesse in cantiere. Esso, però, è vittima di una sorta di stregoneria. Forse perché le città furono presto smantellate, lo Stato forte ebbe la vocazione irresistibile del gendarme? Il risultato in ogni caso, è chiaro: si potrebbe immaginare un enorme libro dove disordini, sommosse, assassini, misure poliziesche, rivolte si succedono e raccontano una perpetua e molteplice tensione sociale. Alla fine, però, non esplode niente. Il libro delle rivoluzioni del Mediterraneo è enorme, ma i capitoli non sono legati assieme e il libro stesso, in fondo, suscita dubbi. Merita forse solo il suo titolo?
Questi disordini, infatti, avvengono ogni anno, ogni giorno, come semplici incidenti stradali cui nessuno più bada, né gli autori, né le vittime, né i testimoni, né i cronisti, né gli stessi stati. Tutti sembrano rassegnati a questi incidenti endemici, tanto al banditismo catalano, quanto a quello di Calabria o a quello degli Abruzzi. Ora, per un fatto citato, dieci, cento ci sfuggono, e certi sfuggiranno sempre. I più importanti sono inoltre così piccoli, così poco chiari, così difficili da interpretare. Che cosa fu veramente la rivolta di Terranova in Sicilia nel 1516? Quale posto dare alla cosiddetta rivolta protestante di Napoli nel 1561-62, occasione di una spedizione punitiva delle autorità spagnole contro Valdesi della montagna calabrese: alcune centinaia di uomini sgozzati come bestie? O la stessa guerra di Corsica, per tutta la sua durata (1564-1569) e la guerra di Granada, verso la fine, entrambe decomposte in episodi indecisi, guerre della miseria ancor più che guerre straniere o religiose? Che cosa veramente sappiamo sui torbidi di Palermo nel 1560, sulle cospirazioni degli “eretici” contro il duca di Mantova nel 1569? Nel 1571 i sudditi del duca di Urbino si sollevarono contro le esazioni del loro signore, Francesco Maria della Rovere; ma l’episodio è poco noto, di difficile spiegazione; il ducato d’Urbino è terra di soldati mercenari; allora chi tira le fila? La crisi interna di Genova nel 1575-76 è appena più chiara. La jacquerie dei contadini insorti in Provenza nel 1579 (i Razas), la presa del castello di Villeneuve e il massacro del signore del luogo, Claude de Villeneuve, si perdono nella complicata trama delle guerre di religione francesi al pari di molti torbidi sociali. […] Nel 1589 si erano ribellati i sudditi del duca di Piombino, sulla costa toscana. L’insurrezione calabrese nel 1599, occasione dell’arresto di Campanella, fu soltanto un grosso fatto di cronaca. Numerose anche le rivolte che si notano nell’impero turco dal 1590 al 1600, senza contare le sollevazioni endemiche di arabi e di nomadi in Africa del nord o nell’Egitto, sollevazioni abbastanza vigorose di Yazigi, lo “scrittore”, e dei suoi partigiani nell’Asia Minore, nelle quali la cristianità pose speranze eccessive; moti di contadini serbi nel 1594 nel Banato, nel 1595 nella Bosnia ed Erzegovina, nel 1597 di nuovo nell’Erzegovina. Se a quest’elenco incompletissimo aggiungiamo di colpo la massa fantastica dei fatti di cronaca relativi al brigantaggio, non avremo un libro, ma un’enorme collezioni di racconti… Sì, d’accordo: ma quegli incidenti, quegli infortuni, quel nugolo di fatti di cronaca costituiscono forse la trama di una storia sociale valida, che, in mancanza di altra espressione, parlerebbe quella lingua confusa, goffa, forse ingannevole? Si tratta dunque di una coerente testimonianza in profondità? Questo è il problema. Rispondere di sì, come facciamo noi, significa accettare corrispondenze, regolarità, movimenti d’assieme, là dove, a un primo sguardo, non c’è che incoerenza, anarchia, assurdità evidente. Significa ammettere, per esempio, che Napoli “dove si ruba e si incrociano le spade (quotidianamente) fin dalla prima ora della notte” sia teatro di un’interminabile guerra sociale, in cui il delitto puro non ha, né può avere la parte principale. Significa ammettere la stessa cosa per la Parigi della primavere del 1588, ormai politicamente – anche socialmente – fanatizzata. […] Guerra sociale, dunque crudele e a buon mercato, che fa leva su passioni e antinomie profonde. Ora, tutti quei fatti di cronaca di cui parlavamo portano a loro volta il segno di crudeltà sempre all’erta, dall’una come dall’altra parte. I crimini agrari che cominciano attorno a Venezia all’inizio del secolo sono spietati quanto le repressioni che vi tengono dietro. I cronisti, o chi consegna quei fatti nei registri pubblici sono, di necessità, contrari a quei fautori di disordini, di cui danno, regolarmente, un ritratto denigratorio. […] La ferocia degli atti commessi e della repressione – questi segni dunque, restituiscono autenticità a quei fatti di cronaca, danno ad essi un senso dell’interminabile rivoluzione larvata che caratterizza tutto il secolo XVI e poi tutto il XVII».

[…]

«Questo gioco di guardie e ladri, di città oneste e di vagabondi non ha principio né fine. È uno spettacolo permanente, una struttura. Una retata, e tutto ritorna calmo, poi le rapine, gli assalti ai viandanti, gli omicidi si moltiplicano. Nell’aprile 1585, a Venezia, minaccia d’intervenire il Consiglio dei Dieci. Nel luglio 1606 a Napoli tornano a esserci troppi delitti: sono allora operate perquisizioni notturne in alberghi e locande, nel corso delle quali vengono fatti 400 arresti, tra cui molti soldati delle Fiandre “avvantaggiati” e cioè “superpagati”. Nel marzo 1590 “li vagabondi, zingari, sgherri e bravazzi” sono cacciati da Roma con otto giorni di tempo. […] In tutta l’Europa, troppo popolata per le sue risorse, non più animata da un espansivo impulso economico compensatore, e anche in Turchia, si prepara la pauperizzazione di notevoli masse di uomini, tormentati dal bisogno del pane quotidiano: l’umanità che sta per precipitarsi negli atroci conflitti della guerra dei trent’anni, quella che Challot, testimonio implacabile, ritrarrà nelle sue incisioni, e di cui Grimmelshausen è il cronista troppo fedele».


Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, volume II, 1976, capitolo V, Le Società.










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