Pagine

26 ottobre 2020

Il cammino e il dubbio


L’incertezza, la perdita di senso che una realtà improvvisamente mutata e, ancor più, mutevole gettano sulla vita umana, aprono le strade al dubbio. Questo cammino, per quanto accidentato e talora faticoso, prelude alla vera esperienza di sé. Somiglia secondo Martin Heidegger, in cerca dell’autentica grecità durante il suo soggiorno in quella che lui chiama «la terra degli dèi fuggiti», all’ambito che definisce ciò che è atteso. Un sentimento presagito, la traccia di un pensiero che scorre e non di rado è perfino più vivida e salda in confronto all’esperienza accumulata fino ad allora. Così la lenta preparazione alle cose, la poesia a lungo custodita sono il témenos (τέμενος), il sacro recinto di ognuno, da cui profondamente irraggia la verità dell’essere.
Andare nel deserto significa risalire alle fonti della propria interiorità. E lì, in quella permanenza rituale, offrirsi al messaggio che ne scaturisce. Già la lingua latina classica – vengono in mente autori quali Cicerone, Livio, Sallustio – esprime nella parola “solitudo” (deserto, solitudine, penuria) l’intensità del nesso tra luogo e affezione dell’anima. Metafora per eccellenza di pellegrinaggi e ascesi, la sua longevità letteraria dagli antichi, alle Scritture, all’indagine filosofica è il segno di una prova necessaria per la definizione degli umani orizzonti.
Addentrandosi nel suo viaggio argonautico, Alessia Rovina ci guida attraverso una sentita riflessione che con lo sguardo rivolto alle esortazioni del sacro tenta di indicarci le possibilità della rotta che sia apre davanti a noi.

(Di Claudia Ciardi)



Yehudah – l’Onorato. * Il rito nel deserto * Foto di Alessia Rovina,
16 ottobre 2018
©

L’uomo nel suo deserto

di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Compagni di viaggio, l’estate è trascorsa, e con il ritirarsi del tepore dorato dei tramonti di Agosto così sono sfumati i nostri affannati tentativi di normalità. Nel benessere, che temevamo di dover solo immaginare, ci siamo gettati, convinti che fosse finalmente arrivato il momento della nostra overdose di esperienza, persuasi che finalmente potesse riprendere la nostra piena navigazione nel mare che noi avremmo potuto scegliere. Nei mesi trascorsi quanto dolorosamente abbiamo dovuto prestare ascolto al sorprendente proverbio tedesco che compare nel terzo capitolo de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, il quale recita «einmal ist keinmal»: una volta è come nessuna volta. In quella foschia che ci ha messo dinnanzi alla nudità, il nichilismo si è impossessato della nostra esistenza, che accade una volta. E una volta è come se mai fosse accaduta. In parte, noi siamo davvero una volta e nessuna volta. Siamo esseri mortali, destinati, come puntualizza il Coro degli anziani di Fere nell’Alcesti di Euripide, a pagare un debito che ciascuno di noi ha con gli Inferi, maturato nel momento stesso in cui emette il suo primo vagito (vv. 418-419). E ora, con gli ultimi accadimenti, la partita a scacchi di Bergman è ritornata ad essere un memento quotidiano. L’incertezza che tutti noi eravamo riusciti a tenere a bada è di nuovo tornata a bussare alle nostre porte. Anche la mia, quella di una persona che da quando ne abbia memoria ha sempre avuto una domanda ad ogni risposta. Per questo motivo ho deciso, intercettando gli umori dei miei interlocutori, in questo breve tempo autunnale, saturo di dubbi, di interrogare le traiettorie che fino ad ora ho percorso, in questo mio eterno viaggio verso il Vello d’Oro che a ciascuno di noi spetta, e solo una metafora sono riuscita a visualizzare: il pellegrinaggio… Nel deserto. Sì, lo stesso che incontrarono i nostri sodali Argonauti, quando per i venti avversi furono costretti a portare sulle proprie spalle la loro nave Argo nel deserto di Libia – il giogo dolce e necessario della responsabilità della propria vita – e lo stesso della più conosciuta tradizione antica, vale a dire quello che separa la terra d’Egitto dalla Terra Promessa, quel luogo agognato «in cui scorre latte e miele» (Esodo, 3,8), dato in eredità da Io Sono – affascinantissimo nome con cui il Dio dei Padri si presenta, tutt’oggi ammantato di ineffabilità nella tradizione ebraica. Un luogo a cui i salvati potranno giungere solo dopo una traversata che a prescindere essi considerano come impossibile, e verso cui manterranno un atteggiamento incredulo, arrivando all’ostilità aperta nei confronti di Mosè e di Dio, e soprattutto a rimpiangere la prigionia egiziana, che garantiva la morte, ma soprattutto la certezza di essa. Una morte… Senza rischi, per quanto paradossale possa sembrare l’affermazione. Ebbene, quello era uno dei primi grandi pellegrinaggi terrestri raccontati puntualmente: guidati da un puro desiderio di libertà, Mosè e Dio sanno che è giunto il momento di camminare verso ciò che spetta loro. Ma il gregge non è d’accordo. Litiga, s’azzuffa, pretende cibo e acqua, e poco importa essere finalmente padroni di sé, attraversare il Mar Rosso, conoscere l’amore del Cielo: l’uomo ha bisogno di concretezza, continua, immediata, costante. Di prove. Anche ora è così: ognuno di noi ha bisogno, in minima o in larga parte, della sua dose di garanzia quotidiana, della certificazione che nulla devierà dai propositi stabiliti con la grande assertività, ottundente eredità del nostro mondo multimediale. La ripresa autunnale ci ha rimpinguati di questa nostra abitudine: provare che la scuola ora è sicura, e che non succederà più nulla di brutto. Non è così. «Atreo non ti generò per essere fortunato in ogni cosa. Sei un mortale, devi conoscere tanto la gioia quanto la sofferenza», dice dolcemente l’anziano servo ad Agamennone nel prologo dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Tendo a dimenticarlo molto spesso, ma quando ricordo che ogni essere umano, dall’avanti Cristo fino a me, l’ha profondamente sperimentato, mi sento più leggera. A questo servono i Classici: amici eterni che non ci lasciano mai, e continuano a chiacchierare, ritardando l’ora in cui si spegne il lume, per continuare a parlare… Eppure, qualcosa accade, ad un certo punto. Prima, o poi. Lo chiamerò utilizzando la parola più abusata e più fraintesa: l’Amore. Un Amore così potente da mettere in crisi tutto. Per i nostri pellegrini antichi, questi erano i comandamenti del Sinai, in cui il Dio dell’Antico riversava la sua predilezione, e forniva, come fanno i genitori, un decalogo da seguire per poter essere sempre sul Suo sentiero. Ma, nella bellezza mai abbastanza valorizzata di questo momento, accade poi uno squarcio, che mette in crisi quella che era diventata una legge di comodità: Dio si rivela. E lo fa affidando al mondo Suo Figlio: Gesù. Costui, da uomo, prima di ogni azione legata alla sua missione pubblica, si ritira, e va nel deserto. Non un deserto qualunque; egli discende nello stesso luogo che aveva ospitato i Profeti, il Battista e Davide: il deserto di Giuda, ancora magnifico ed abnorme, nei suoi wadi sensuali e totali, una moltitudine di fianchi sdraiati tra il Giordano, Gerico ed En Gedi. Lo Spirito lo guida lì (Matteo, 4,1): è necessario che egli sperimenti, per il simbolico intervallo di quaranta giorni, la condizione basilare dell’uomo: la solitudine. L’uomo manca. Per definizione. Quanti dei nostri cuori ora sono un deserto. Deserti soprattutto di guizzo, di speranza e di creatività. A così poco serve la possibilità di guardare il mondo da uno schermo, se il mondo non fiorisce in noi… Sempre affascinante ed eloquentissima, in quella ricchezza che posseggono le lingue che s’affacciano sul Mediterraneo e sono nate dai primi grandi scambi culturali, è la resa ebraica dei lemmi «figlio d’uomo/colui che parla» e «deserto»: בַּר, bar, eמִדְבָּר, midbar. Questo perché ogni erede della Vita deve portare con sé il dubbio, la difficoltà, la durezza del deserto. Ma, anche perché quel deserto deve essere abitato, deve essere percorso, perché solo nel suo nudo silenzio possiamo sentire la nostra parola. Questi mesi più che mai mi hanno ricordato che il dolore è prezioso. Non portiamolo in giro come un vessillo consumato, non sminuiamolo con qualsiasi contatto possiamo intercettare. Osserviamolo, piuttosto, con passione: capiamo se al suo interno non ci sia un qualche petalo che stia spuntando. E, se dovesse capitarci di riuscire a vedere una sfumatura, anche debolissima, all’orizzonte di questo deserto, in questo viluppo di nervosismo e disfattismo, fermiamoci immediatamente a fissarla. E usiamole la più grande pietà: quelli siamo noi, che aneliamo a ciò che c’è oltre ogni desolante materialità.

(Di Alessia Rovina, classicista, appassionata di teatro, 16/10/2020
account twitter: @rovina_alessia)

Vorrei sinceramente ringraziare la preziosissima Claudia, Nume di questo angolo virtuale di bellezza, che con le sue parole mi ha dato la possibilità di riaprire le ferite del mio cuore, che da mesi cercavo di ignorare, per tornare a parlare del significato per me personalissimo del deserto, e dei dubbi che esso pone. E della fede, che spesso inconsciamente genera. Grazie anche perché ha contribuito a farmi ricordare il luogo in cui ero esattamente due anni fa e anche un anno fa, rendendomi conto del privilegio della nostra Vita, che vale la pena di essere anche solo per un secondo.


Nessun commento:

Posta un commento