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10 dicembre 2020

#SilvioPellico 1820-2020


Ricorrono i duecento anni dall’arresto di Silvio Pellico (13 ottobre 1820). Per quello che Puškin definì con acuta sensibilità il «martire mansueto», iniziava una delle prove più dolorose e sconvolgenti che possano toccare in sorte a una vita umana. Dieci anni di prigionia nel carcere fortezza dello Spielberg dove fu inviato a scontare la condanna di cospirazione ai danni dell’impero austriaco. Attivo tra gli indipendentisti italiani, Pellico coltivava scambi politici e culturali con larga parte dell’intellighenzia e della nobiltà milanese. Nel capitolo 50 di Le mie prigioni, in cui si legge un toccante spaccato autobiografico, parla delle care amicizie che generosamente gli offrì la città meneghina: «…avea proseguito a studiare ed amare la società ed i libri, non trovando che amici egregi, e lusinghevole plauso. Monti e Foscolo, sebbene avversarii fra loro, m’erano benevoli egualmente. M’affezionai più a quest’ultimo; e siffatto iracondo uomo, che colle sue asprezze provocava tanti a disamarlo, era per me tutto dolcezza e cordialità, ed io lo riveriva teneramente».
All’indomani della liberazione, un’altra prova attese dunque Silvio Pellico, la scrittura del suo memoriale sollecitata dal benevolo abate Giordano. E tuttavia non pochi furono i conoscenti che intesero scoraggiarlo, credendo che si sarebbe attirato nuovi guai e inimicizie. Non la madre che lo esortò subito a seguire ciò che sentiva. Così si legge in uno dei cosiddetti capitoli aggiunti: «Parlai dei progetto con mia madre. – Vedo ch’è pericoloso, diss’ella, e mi fa tremare. Cerchiamo d’illuminarci colla preghiera. Indi a pochi giorni ella mi chiese s’io avessi pregato Dio a questo proposito. – Sì, le risposi, e mi sembra che quel libro possa esser buono, e sia da farsi. – Ebbene, diss’ella, accingiti a farlo; anch’io ho pregato e mi pare d’esser tranquilla» (capo VI/6). Confortato poi anche dall’opinione positiva dei conti Balbo, a cui lesse poche pagine iniziali mentre era loro ospite a Camerano, decise di portare a compimento l’impresa. Pubblicate nel 1832 presso l’editore torinese Bocca, Le mie prigioni donarono alla personalità di Silvio Pellico un’incredibile fama. Oltre alle stimate parole di Puškin, cui abbiamo già accennato, che molto ci dicono della statura letteraria di questo libro – a mio avviso uno dei più incisivi nella produzione italiana ottocentesca per la limpidezza della scrittura e la lezione di una humanitas che non si lascia travolgere dal dramma – Gioberti gli dedicò il suo Primato morale e civile degli Italiani, mentre Luigi Filippo di Francia avrebbe voluto affidargli l’educazione del suo ultimo figlio. Venne quindi l’amicizia di altri stimati personaggi dell’epoca come i marchesi di Barolo o dei tanti scrittori che prontamente vollero tradurlo nella lingua dei loro paesi, come ad esempio il de Latour.
Qui rivivono i momenti di un’esperienza che come poche altre scuotono la forza di volontà dell’uomo e la sua capacità di reagire. Stralci di normalità nella durezza della detenzione fanno di quest’opera un resoconto intimista, pacato, tutto teso a salvare la dimensione umana, al riscatto dell’essere pur se condannato e costretto in una condizione che lo vorrebbe annientare. Così nell’attesa della sentenza, durante gli interrogatori ai piombi di Venezia (capitolo 44), il saluto di una famiglia che incoraggia e per qualche momento allevia la sofferenza, è qualcosa di inaspettato, un raggio che scalda mentre il prigioniero vive sospeso e incerto: «Quelle conversazioni erano piccola cosa, e non bisognava abusarne per non far gridare il custode, ma ogni giorno ripetevansi con mia grande consolazione, all’alba, a mezzodì e a sera. Quando accendevano il lume, quella donna chiudeva la finestra, i fanciulli gridavano: «Buona notte, Silvio!» ed ella, fatta coraggiosa dall’oscurità, ripetea con voce commossa: «Buona notte, Silvio! Coraggio!». Quando que’ fanciulli faceano colazione o merenda, mi diceano: «Oh se potessimo darti del nostro caffè e latte! Oh se potessimo darti de’ nostri buzzolai! Il giorno che andrai in libertà sovvengati di venirci a vedere. Ti daremo dei buzzolai belli e caldi, e tanti baci!».». E di simili memorie tante ve ne sono, disseminate, intrecciate ai giorni foschi dello scoramento, della perdita di speranza. Minime tracce di una quotidianità che ostinatamente s’insinuano nella solitudine del prigioniero e lo tengono in vita.
Nel medesimo capitolo 44 colpisce anche il fatalismo con cui l’autore, che pure si dichiara affatto superstizioso, parla delle difficoltà che sovente il mese di ottobre gli aveva riservato. Eppure, dalla circostanza dell’arresto, di certo la più dura fra quelle fronteggiate, sarebbe scaturito il nuovo cammino dell’uomo.


(Di Claudia Ciardi)
















«La somma solitudine può tornar vantaggiosa all’ammendamento d’alcune anime; ma credo che in generale lo sia assai più se non ispinta all’estremo, se mescolata di qualche contatto colla società». Silvio Pellico, Le mie prigioni, capitolo 84   


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