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31 gennaio 2021

Declinazioni di solitudine (Eschilo)


Tre tragici per altrettante dissertazioni sul senso della solitudine. Quella ostinata e drammaticamente scossa dallo stordimento che agita Serse nei Persiani di Eschilo, l’altra disperata e sospesa di Filottete su cui pende il verdetto altrui, declinata nell’omonima tragedia sofoclea, infine l’isolamento annientante di Eracle, esplorato da Euripide, il poeta per eccellenza della vastitudo animi (espressione che in latino rimanda a lande desolate ma pure alla straordinaria grandezza); e pensiamo anche al suo Oreste braccato dalle Erinni, solo di fronte all’empietà del matricidio, così dolorosamente sconvolto per il proprio delitto che lo allontana dagli uomini e scava il suo corpo, sprofondandolo in un’estrema consunzione.
Un viaggio sentimentale che unisce l’inquietudine di Ulisse alla Wanderung romantica, che l’essere umano nei millenni non ha smesso di praticare fra aspirazione a partire e bisogno di fermarsi, talora osservando un radicale ritiro dal mondo. Asceti, eremiti, indovini, poeti, ma in qualche caso anche consiglieri politici e imperatori – Marco Aurelio fondò la sua grandezza su un esercizio umile e paziente del potere, fuggendo le lusinghe mondane, aggrappandosi piuttosto all’integrità morale che gli infondeva lo stoicismo. In una simile equilibrata mediazione tra contatto umano e colloquio con se stesso scoprì la possibilità di sopravvivere alle bassezze cortigiane, tanto che il suo mandato imperiale ne ebbe un indiscusso prestigio.
I Persiani sono la più antica tragedia greca superstite. Messi in scena nel 472 a. C., pochi anni dopo la battaglia di Salamina, facevano parte di una tetralogia comprendente anche un Fineo, sulla liberazione per mano degli Argonauti dell’omonimo personaggio del mito accecato dalle Arpie.
Nei Persiani il coro eschileo, formato dagli anziani reggenti della corte di Susa, che fin dalla parodo si dice perplesso per un’impresa temeraria, insieme agli altri presagi della disfatta persiana, sono elementi che conferiscono al racconto un’inedita tensione in un crescendo di sconcerto che pervade i protagonisti.
La riflessione che qui introduciamo, nella difficoltà presente di comprendere quanto sta accadendo e che quindi ci impedisce di tornare a noi stessi con la forza e la lucidità necessarie, prova a offrire delle chiavi di lettura senza pessimismi né giudizi sommari. Questa dunque la proposta di Alessia Rovina che vuole così omaggiare i grandi del teatro classico greco traendo uno spunto per sondare una condizione complessa che l’essere umano attraversa nelle differenti circostanze del vivere. Ringraziandola per il suo intenso e articolato contributo, le lasciamo la parola.

(Di Claudia Ciardi)

Praefatio
Di
Alessia Rovina

Se dovessi compilare un personale lessico di questo cruciale e sempre più sfocato momento umano e storico, non potrei prescindere da alcuni lemmi fondamentali. Accanto ai primi vocaboli, emersi nella contingenza delle prime restrizioni – nella mia Mantova arrivate con largo anticipo – come informatica, finestra, sbigottimento, e a quelli che immediatamente sono seguiti nel frasario di ciascuno – come: paura, lontananza, morte; ma anche: immaginazione, impegno, ricostruzione – devo e voglio conferire un ruolo di indiscussa importanza ad una parola in particolare, quella che per me più precipuamente connota questo frangente: solitudine. Dovrei essere più precisa: la parola che a mio parere connota l’esistenza umana, in particolar modo questi strani anni tra postmodernismo e distopia, la cui concretezza si è più che mai dolorosamente imposta con l’avanzare di un’emergenza sulle tante, quella sanitaria, che senza distinzione affligge il mondo, e pertanto non è più identificabile nel totem di una sfortuna che colpisce solo alcuni predestinati alla sofferenza.
La solitudine, costante spauracchio per l’essere umano, non a caso il cucciolo del regno animale che per più tempo ha bisogno delle cure materne, condizione aborrita e pure misteriosamente seducente, spesso propizia per l’attuarsi di quella cura morale che sperimenta, prima dell’armonia, le ferite del rivolgersi solo a se stessi.
D’altro canto, molteplici sono i volti di questa compagna: esiste una solitudine ricercata più o meno consapevolmente con volontà autolesionista e distruttrice, una solitudine causata dall’impossibilità altrui di comprendere, una solitudine causata dall’inganno e dal tradimento, non solo estrinsechi, ma talvolta anche intrinsechi: il tradimento della propria indole può causare effetti tremendamente annichilenti. Esiste poi una solitudine universale, in cui si constata l’impossibilità dell’autosufficienza umana, come accade alla Saffo del frammento 168b Voigt, che nel notturno tramonto della Luna e delle Pleiadi trova la sua incompletezza affettiva – rimane insuperata la resa lirica di Salvatore Quasimodo del verso finale: «e io nel mio letto resto sola»; ed esiste una solitudine convintamente ricercata in quanto condizione di massima comunione con il  divino – forme di eremitismo sono note sin dall’antichità sia per le religioni d’Oriente che per i monoteismi del Mediterraneo. Infine, esiste una solitudine spietata e ancor poco trattata, per quanto in espansione tra i giovanissimi, destinata a diventare oggetto di indagine alla luce della recente necessità d’isolamento: il fenomeno hikikomori. Ebbene, un lemma, tantissime sfumature, che abbiamo deciso di sondare in tre contributi attraverso la genialità e la pregnanza dei tre grandi d’Atene – Eschilo, Sofocle ed Euripide – dedicandoci monograficamente ad altrettanti personaggi drammatici, ciascuno espressione di una diversa sfumatura di quella stessa solitudine che ciascuno di noi, in modi differenti, sperimenta.
Il nostro viaggio tra i meandri della psiche Antica e Moderna è animato dalla convinzione che ogni status emotivo ed affettivo meriti ascolto – come magistralmente hanno compreso i cantori che incontreremo – e in particolar modo in questo momento, in cui si presenta a noi un grandissimo rischio, o una grandissima opportunità: dimenticarci che siamo creature umane, o ricordarcene drasticamente.
Buon Viaggio!


Un giorno d’inverno – Fotografia di Alessia Rovina ©

 
Declinazioni di solitudine I: Serse

(I Persiani – Eschilo)

Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

È al 472 a.C. che risale la più antica opera teatrale a noi pervenuta. Luogo della première è il grandioso Teatro di Dioniso di Atene, quel fulcro culturale dell’Occidente da cui si irradieranno i capolavori dei Maestri della tragedia e della commedia, nonché delle massime espressioni artistiche e poetiche di sempre. Eppure, questa pietra angolare della tragedia rappresenta da subito una grande sorpresa. Luogo della finzione teatrale non è la Grecia, bensì il centro del potere orientale: Susa, il luogo simbolo di quella oscura popolazione divenuta per l’Occidente emblema di perfidia, mollezza, lascivia e malvagità: i Persiani. E proprio la tragedia omonima di Eschilo, Πέρσαι, Persiani, vede il suo intreccio dipanarsi tra le stanze sfarzose della reggia Achemenide, in cui si interrogano e si disperano gli attanti: il Coro degli uomini Persiani, la regina Atossa, l’ombra di Dario il Grande, tutti legati nel loro agire da un unico oggetto: il giovane sovrano Serse. Prima di scendere più in profondità nel nostro personaggio eletto, non sfuggano a noi due fondamentali considerazioni: anzitutto la datazione. I Persiani vengono rappresentati circa sette anni dopo la definitiva sconfitta dell’impero persiano da parte dell’Ellade – conosciamo bene gli effetti straordinari che questa vittoria provocò da un punto di vista ideologico-culturale. Secondo poi, la totalità degli attanti è rappresentata, appunto, dai Persiani stessi. Eschilo riesce a costruire un’opera teatrale completamente focalizzata dal punto di vista del nemico, raccontando con magnifico eloquio la disperazione dei genitori del giovane Serse, i quali in un dialogo quanto mai significativo tratteggiano la cieca volontà che spinge l’uomo alla distruzione, nel momento in cui dimentica di dover sottostare a leggi universali ed imperscrutabili: soggetto del loro lamento è proprio il figlio, Serse.
Serse, il giovane erede di Dario il Grande, è all’unanimità indicato come perfetto exemplum storico di tracotanza, e le tappe che lo portano al peccato di ὕβρις – il più grave nell’orizzonte greco – sono delineate con precisione dallo «storico delle Guerre Persiane», vale a dire Erodoto. All’interno del libro VII delle sue Storie ha luogo un lungo focus sul fronte dei Persiani, occupati nello stabilire la successione di Dario in un Egitto ribelle. Designato che fu Serse, in quanto nipote di Ciro, lo storico riporta, a partire da VII, 5, la cronaca della perversa discesa di Serse stesso verso il peccato, iniziata con la suadente e strategica piaggeria di Mardonio, e a cui il giovane neo sovrano non saprà e non vorrà opporre resistenza, inebriato com’è dalla possibilità di regnare su ogni popolazione – Mardonio, seducendo e lusingando Serse, gli dirà che la Grecia e l’Europa non son degne di alcun padrone, «se non il Grande Re» (Erodoto, Storie, VII, 5). L’esaltazione inizia a pervadere il giovane sovrano, e arriva a livelli di invasata magniloquenza nel momento in cui espone all’assemblea, in un entusiastico crescendo, il suo intento di muovere contro la Grecia (Storie, VII, 9-10). Allarmato dal pericoloso azzardo del giovane regnante suo zio Artabano formula una risposta ponderata, volta a riportare il buonsenso nell’animo di Serse, argomentando la prudenza con le evidenze date dalla Storia – il popolo persiano conosceva già bene la tempra dei Greci: «Evita il rischio di un tale pericolo, quando non ve n’è alcuna necessità, ascoltami: […] con l’attesa ed il tempo le cose si fanno più trasparenti, anche se ora non pare così.» (Storie, VII, 10). La saggezza di Artabano, lontana dall’essere una manifestazione di vigliaccheria, è poi corroborata dall’evocazione del grande topos ellenico: la gelosia divina – φθόνος θεῶν – che non lascia scampo a chi mediti pensieri di superbia nel proprio cuore.
La preoccupazione familiare che emerge nel racconto erodoteo riecheggia nel dialogo tra la regina Atossa, assalita dall’angoscia come gli altri genitori che apprendono la triste sorte toccata ai valenti figli in terra straniera (Eschilo, Persiani, v. 245), e l’ombra del defunto marito e sovrano, Dario, il quale ebbe personalmente dolorosa esperienza dell’«indomabile» popolo greco (v. 242). La regina esprime la propria invidia per il marito, poiché a lui venne risparmiato di vedere la sciagura abbattutasi sul popolo persiano presso Atene, e allo stupore di Dario, il quale domanda chi mai dei propri figli abbia potuto condurre l’esercito fin là, Atossa significativamente replica: «θούριος Ξέρξες, κενώσας πᾶσαν ἠπείρου πλάκα» – «È stato il focoso Serse: ha svuotato tutte le plaghe del continente!» (v. 718). Dario, domandando lungo quale via siano giunti i soldati sul continente, riceve l’agghiacciante risposta: «Con dei macchinari [scil. Serse] aggiogò lo stretto di Elle, per crearsi un passaggio», e così il defunto re si lascia andare al lamento: «È arrivato a questo? Ha incatenato il potente Bosforo? […] Un demone grande davvero deve averlo toccato, per farlo delirare in questo modo!» (vv. 722/725). Ecco il perno su cui si incardina l’apice della follia e dell’aggressiva superbia di Serse: egli ha voluto prevalere con il suo orgoglio sulla natura dello stretto, aggiogando la materia sacra con l’artificiale ponte di barche, in aperta blasfemia con l’imposizione del limite che la divinità olimpica pone all’uomo. Non si fa attendere la sciagura, e la punizione all’orgoglio e all’ostinazione di Serse sono tremendi, amplificati in quanto con sempre maggior pervicacia egli ha voluto perseguire la via della distruzione di sé e dei suoi compagni, tanto che egli, il giovane sovrano umiliato e ferito, farà il proprio ingresso sulla scena solo al termine dell’azione drammatica (v. 908), subendo le accuse del Coro, in quanto irresponsabile esaltato che ha portato ad una assurda morte i suoi uomini, mostrando tutto il doloroso effetto della propria superbia: egli è solo.
Così, lacerato dall’assurdità di una follia che solo ora riesce a vedere nitidamente nel suo nascere e nel suo innalzarsi, umiliato nel corpo e nello spirito, rimane l’evidenza della sua solitudine. E Serse non ha che la forza di piangere.

(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro,
account twitter:
@rovina_alessia
22/01/2021) 

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