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6 agosto 2021

L'arte dei piccoli pass

 

Cappella Sansevero - Napoli


Quando alla conferenza stampa di fine luglio ho sentito la parola musei nell’elenco dei luoghi “interdetti”, a meno di avere in tasca il pass, ho pensato di aver capito male. Quindi sono andata a rileggermi il provvedimento e in effetti l’interdizione era confermata. Ma ho continuato a pensare di non aver capito. Io non ho capito.
Già veniamo da quasi due anni di serrate, con una caduta verticale degli introiti solo nel comparto mostre che si attesta fra un 70-80%. E, per quanto abbia provato a interrogarmi, non trovo ad oggi una spiegazione razionale su quelle chiusure totali vergognosamente protratte fino allo scorso aprile. Piuttosto le brevi riaperture estive del 2020 sembravano un buon viatico: distanziamento e dispositivi di protezione individuali avevano ben funzionato con un timido ritorno di pubblico, un po’ di ricadute positive nelle città d’arte, sprazzi di normalità.
Non voglio far polemica, perché già solo l’idea che le frequenti, rovinose contrapposizioni che da anni viviamo, di natura politica, sociale, economica, culturale per l’appunto, siano ora entrate a volto scoperto anche nei luoghi della condivisione, della bellezza, della libertà spirituale per eccellenza mi crea disagio. Le deleterie conseguenze di questa decisione si avvertono fin nei toni infuriati degli ammessi e degli esclusi, e questa rabbia è una sconfitta e ci fa male, ci fa male, ci fa male. Se avvicinarsi al patrimonio artistico è un atto d’amore, un modo per lasciar respirare l’anima, per rinnovare quel legame sacrosanto con le tracce, le testimonianze del passato, come possiamo adesso conservare questa condizione di serenità, di felice vicinanza, di innalzamento quando incontriamo l’arte, sapendo che tali divisioni ci avvelenano, ci abbattono e infine ci distolgono?
Sugli effetti concreti di norme così restrittive nella cultura rimando al circostanziato articolo di Isabella Ruggiero scritto per «Finestre sull’arte». Sui pericoli cui va incontro lo stato di diritto, cito invece la conclusione dell’articolo a firma di Francesco Simeone su «Exibart»: «
Chi può decidere quali individui possono fruire di un servizio, non le modalità ma la stessa ammissibilità? Nel caso specifico, di un servizio considerato unanimemente fondamentale per lo sviluppo dell’identità delle persone e dei popoli. A questo punto, anche il settore della cultura, ispirato ai principi universali della condivisione e dell’orizzontalità dei propri beni, si rende, in un senso o nell’altro, luogo di una “gerarchia”, tra gli ammessi e non ammessi. Solitamente considerato pacificatore – tranne che per certi aspetti comunque specifici nell’ambito della museografia e relativamente recenti, come nel caso del colonialismo o dell’egemonia di genere di certe collezioni – anche il museo diventa lo spazio di una contesa tra schieramenti opposti. Il museo è solo una delle espressioni territoriali dello Stato che, attraverso la sua burocrazia, si faceva garante della possibilità di accesso ai beni in egual misura per tutti. Assisteremo alla trasformazione in uno Stato “erogatore”, cioè in un ente che distribuisce o interdice l’accesso a quegli stessi beni? Ricondurre la questione a una necessità sanitaria e contingente non renderebbe giustizia alla portata enorme del momento che stiamo vivendo, che lascerà tracce profondissime tanto negli ordinamenti giuridici che nella percezione degli individui e nei comportamenti e nelle abitudini collettive, nelle categorie di giudizio delle persone verso le altre persone e della società di oggi e di domani».
Per quanto riguarda l’emergenza sanitaria, che rischia di diventare il paravento di ogni forzatura – e questo non è certo avere a cuore la salute pubblica – mi limito a dire che qualche dubbio viene; sono considerazioni che in parte riprendono quanto puntualmente esposto nel citato articolo di Isabella e che hanno portato il direttore Fabrizio Masucci del museo Sansevero di Napoli a dimettersi.
Due cose su cui varrebbe la pena che la comunità scientifica fosse più chiara e in base alle quali, di conseguenza, bisognerebbe modulare il peso di certe decisioni. La prima riguarda la contagiosità anche fra chi è vaccinato – dunque non è esclusa la circolazione del virus tra persone vaccinate che si ritrovino all’interno di un luogo (e allora come possiamo dire che quest’arma sia l’unica disponibile se non ci garantisce dal fermare il contagio?). Lo ha detto con autorevolezza Antony Fauci pochi giorni fa. Ci è stato annunciato esplicitamente che non possono esistere spazi covid-free.
Secondo punto, tutt’altro che subordinato. Il report ISS n. 3 del 27 luglio 2021 ammette che vi sono ancora pochi studi che hanno valutato l’efficacia dei vaccini, ossia la capacità effettiva, capillare di far argine contro il presentarsi delle varianti: «proprio perché basato su vaccinazioni effettuate fino a metà giugno (e fino a metà maggio per valutare l’impatto su ricoveri, ricoveri in terapia intensiva e decessi) il rapporto non permette neanche di fare valutazioni di impatto sull’attuale diffusione della variante delta, caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, e per la quale ancora ci sono pochi studi che hanno valutato l’efficacia dei vaccini». Naturalmente non è il mio ambito ma se si cerca di misurare le parole, di mettere le dichiarazioni sotto una giusta luce, esce molta incertezza la quale anziché trovare una sponda dialettica, un’integrazione di punti di vista, si manifesta invece in un assoluto rigore decisionale, non mitigato né disposto a includere punti di vista differenti, tutto teso ad andare in velocità, a seminare imposizioni anche contraddittorie se non controproducenti – perché gli esiti economici bisognerà vederli e le ottimistiche proiezioni (toni che si sono sempre ripetuti in questi micidiali anni di stagflazione) vanno osservate alla prova dei fatti. In economia puoi darti a tutti gli annunci che vuoi, poi a un certo punto fai i conti con la realtà.
L’arte dei piccoli pass, compiuti uno dietro l’altro in un’inesorabile frenesia autolesiva, seminando permessi che poi infine alimentano altre interdizioni e conflitti sociali e tensioni, mi lascia perplessa e preoccupata. In generale non è la mia visione politica, men che meno economica. Qui tutto è tristemente avulso dalla poesia né la filosofia dissente né l’arte acquista forza. Bastasse un lasciapassare per risolvere i problemi di cui soffre il nostro patrimonio culturale o la difficoltà dei nostri più giovani ad avere accesso a degni, solidi percorsi formativi o ancora a dare alle nostre aspettative di donne e uomini lo slancio atteso…
L’arte è la scintilla della libertà spirituale dell’uomo, ne è la massima espressione. Dunque è importante che resti libera e liberamente accessibile.
Dante ci ha mostrato che la via breve non esiste. Al tentativo di attraversare la selva si finisce per rinunciare. Il viaggio sarebbe in apparenza più agevole ma anche meno avventuroso. Il viaggio invece vuole impartire i suoi tempi, seminare i propri insegnamenti, comportando un accrescimento morale. Siccome le belve non si possono aggirare, occorre andare altrove, scendere per meritare l’ascesa. E in ciò superare le paure e acquisire conoscenza e, infine, solamente così imparare a pensare e a vivere.     


(Di Claudia Ciardi)

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