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29 settembre 2021

In morte dei fratelli Lorenzetti

 

Ambrogio Lorenzetti, San Michele Arcangelo nel Trittico di Badia a Rofeno (1337 circa)



Durante le mie perlustrazioni nei rapporti incrociati fra letteratura e arte, ho riscoperto le prose di Paolo Volponi sulla peste del 1348. Scrittore politicamente impegnato, acuto interprete dei divari tracciati dal neocapitalismo nella società italiana fra il dopoguerra e gli anni Settanta, la narrazione del contagio è per lui metafora di una sindrome degenerativa che svuota l’organismo dall’interno privandolo di valori, forza, sentimento.
Quando mi sono avvicinata a quest’opera ho immaginato che avrei letto una vicenda completamente inventata, un’epidemia dai contorni surreali scoppiata in un luogo imprecisato, una peste psicologica alla Camus, il grande affrescatore moderno dell’alienazione e delle volontà malate. Aspetti che ci sono pure qui, tant
è che Volponi cosparge di tale semenza il suo terreno ma lo fa attingendo a un primitivismo descrittivo inconsueto, dove in parte si colloca anche la prosa di Verga, cui non a caso dedicò le sue curiose letture giovanili, elaborandolo in un tratto assolutamente peculiare della propria identità letteraria. Il risultato è una sconcertante sovrapposizione di accenti antichi che si dispongono su una partitura di stampo espressionista. Tetri presagi, strani lampi di luce, sangue di uomini e animali, sembra il crescendo della fosca agonia virgiliana nelle Georgiche (chiusa del libro III), quando un’inspiegabile strage cominciata nel Norico, una Totentanz bestiale, travolse la regione alpina, speculare a un altro contagio, le infauste premonizioni della guerra civile («armorum sonitum toto Germania caelo/ audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes», chiusa del libro I) che avrebbe cambiato per sempre i connotati dellimpero. E il volto ancor più enigmatico di questa scrittura è nel suo repentino precipitarsi in mezzo alle cose, una febbrile caduta nel gorgo della storia, per cui dopo poche frasi ecco aprirsi inaspettatamente davanti a noi la disperata oscurità della stanza in cui i fratelli Lorenzetti, Ambrogio e Pietro, stanno morendo di peste a Siena. Ormai spossati i loro corpi non hanno più la forza di niente, perfino le lenzuola nell’arsura che divora la carne sono gravose. Il lettore si sente come inghiottito, scagliato da un’immagine all’altra. Le poche frasi pronunciate dai due pittori prima della perdita dei sensi sono un canto abbandonato sul precipizio. Non doveva la peste mietere vittime solo fra i più poveri? Si diceva che i derelitti, i malnutriti sarebbero stati preda del contagio, che sarebbe durata poco e soltanto costoro ne avrebbero sofferto. Segue poi il rammarico per le opere non finite e le idee rimaste chiuse nella mente. Segue ancora il silenzio, lo schianto di un albero nell’orto, la morte. Ma non c’è alcuna tregua nella fine, perché subito giungono i monatti e un avido mercante che vorrebbe depredare la casa dei ricchi artisti. Sullo sfondo il fumo continua ad alzarsi dietro le mura cittadine, segno che il morbo non recede. In simili effetti coloristici e nella violenta isteresi dei comportamenti umani aleggia un’allegoria infernale, un girone dei dannati che dunque anche nella resa letteraria cerca i suoi modelli nel medioevo, con un sostanziale tributo ai toni danteschi.
Eppure, lungo le rive del fiume apocalittico che tutto trascina non c’è tempo per pensare. La morte dei pittori sfuma, è già lontana, sovrastata dall’istinto predatorio dei vivi e poi ancora degli animali, i veri padroni incontrastati della scena che subentrano all’uomo e fanno apparire logora, insensata la sua lotta per la sopravvivenza. Simbolo conturbante di disgregazione e catarsi un ariete, la cui forza bruta s’impone su ogni altra, figura sacrificale dai contorni ultraterreni ritualmente predestinata a scandire i momenti parossistici dell’epidemia e, quindi, la sua fine.
Nella prosa successiva e contigua si torna ancora sui temi della grande peste, sul suo potere indiscusso di palingenesi, signora che dà la morte e dà la vita. Al centro la figura di un monatto che non si mostra mai in volto e concentra in sé i più bassi istinti; l’avidità, la lussuria, e ancora una volta la violenza, cardine del racconto di Volponi, che intende così mostrare su quali ostacoli s’infranga l’utopia sociale.

Un versante che l’autore aveva percorso fin dalla gioventù con una precoce iniziazione fra le campagne dell’Appennino. L’incontro con Adriano Olivetti nel 1949, grazie alla intermediazione di Franco Fortini, allora presidente dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)-CASAS (Comitato Amministrativo di Soccorso ai Senza tetto), aveva infatti generato da subito nella sua quotidianità molti cambiamenti, innescando esperienze in luoghi significativi per la sua maturazione letteraria. Olivetti lo assunse con il compito di svolgere inchieste nel Mezzogiorno, in Abruzzo, Basilicata – dove conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro – Calabria e Sicilia. All’inizio degli anni Cinquanta venne inviato negli Appennini a coordinare, da Roccaraso a Cassino, le inchieste sulle condizioni sociali delle campagne e dei paesi devastati dalla guerra.
Successivi furono gli incarichi aziendali a Ivrea e a Torino, che gli diedero modo di sperimentare da un altro punto di vista, quello della vita di fabbrica con le relative tensioni politiche ed economiche, crisi e strappi nei quali si dilaniava la città e più latamente l’Italia, e che finirono per coinvolgere anche lui. Assunto dapprima con l’incarico di amministratore delegato in Fiat venne espulso per aver dichiarato il suo appoggio al partito comunista, che peraltro in quello stesso periodo (amministrative del 1975) ebbe una fortissima affermazione.
Che simili conflitti siano affiorati nelle sue stesure degli anni Settanta non stupisce. La peste è una compagna antica e insieme presente. Una volta passata l’epidemia, come lava vulcanica che incendia, dissecca e bonifica la terra, anche qui alla morte subentra la bellezza, dal dolore, dal sangue versato scaturisce una scintilla di vita. È la lezione, l’essenza di tutto il mito greco che lo scrittore estrae perché scorra nelle vene di una storia moderna in cui ha scelto uno spartiacque incredibile della modernità, la peste nera del ’48. Anno zero nella storia dell’arte perché molti talenti furono falcidiati e, secondo alcuni storici, vero inizio dell’umanesimo. Un riassetto fulminante, un dérapage di equilibri, uno spostamento di ricchezze che rimescolò la società. Da lì in poi nulla fu come prima. Un episodio che ci dice come il vero nuovo inizio passi per un brutale scuotimento perfino delle forze creative. Quale incredibile eco del nostro tempo e come si avverte vacua in queste pagine la retorica del vecchio potere che pretende per sé la vittoria e la possibilità di officiare la rinascita, senza accorgersi che è già stato superato dagli eventi.
Questo squarcio biografico rappresenta infine un punto di vista certo inusuale ma anche molto affascinante, per stimolarci a riscoprire l’opera dei Lorenzetti, che una volta incontrata ha un potere davvero ipnotico. Allora, grazie Paolo Volponi, che nel dramma di queste tue prose ci hai ricordato pure uno sfolgorante prodigio nell’arte, la sfortunata vicenda dei due fratelli geniali che pur così malamente sorpresi, quando vengono raggiunti dalla peste hanno già donato al mondo i loro capolavori.

(Di Claudia Ciardi)       




Edizione di riferimento:

Paolo Volponi, La pestilenza, a cura di Marco Rustioni, Via del Vento edizioni, collana Ocra gialla, 2002    


In copertina: xilografia di Lorenzo Viani

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