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17 ottobre 2022

Dante nel racconto di Pupi Avati

 



Riprese iniziate nel 2021 dopo un’attesa di anni – ben diciotto – prima che il progetto vedesse finalmente la luce. Un copione in prima bozza a lungo tenuto in un cassetto. Pupi Avati nel frattempo si dedica a molto altro ma continua a sentire l’urgenza di quella scrittura. Un’incubazione protratta nel tempo e mai accantonata che non deve sorprendere, perché il cinema di Avati è fatto di delicata poesia, di tracce poetiche scomparse, violate o esiliate dai cambiamenti sociali, dal distacco che l’uomo contemporaneo sembra essersi imposto verso tutto ciò che è richiamo sentimentale, intimità, evocazione. Diceva lo scrittore Hermann Broch che c’era forse da temere che l’umanità fosse caduta in una fase di psicopatia – lui si riferiva all’ascesa dei totalitarismi e alla conseguente carneficina della seconda guerra mondiale. E in effetti la scomparsa – o quasi – dell’anima poetica, presa al laccio della comunicazione istantanea, delle pubblicità patinate che chiudono fuori dalla porta un mondo impoverito e belligerante, dei tam-tam mediatici, della svendita di valori, identità, radici, del prevalere dell’urlo, della polemica, della parola superficiale sulla pacatezza e la profondità del dire, innegabilmente s’intreccia con una decadenza della nostra epoca – in generale di ogni epoca umana che abbia deciso di non “cantare”. La poesia, si sa, ha bisogno di cuore e di tempo, è un rito con cui la smemorata frenesia dell’oggi mal si concilia – dunque di ancor più tempo ha forse bisogno la sua traslazione in immagini. Recitarla, o meglio recitare una vita in poesia com’è stata quella di Dante, significa saper tornare a raccogliersi, saper trovare accenti sommessi, recuperare la chiave di un racconto, anzi una sonorità, che adesso tende a sfuggirci. Del resto, il nostro sommo poeta fu vittima di odi sociali, di un ostracismo verso la poesia e i suoi rappresentanti, di quella psicopatia sterile e violenta di cui si è detto, che già secoli fa allignava nel collettivo. In sottotraccia questo parallelo tra lo smarrimento e l’ignoranza di ieri e di oggi che comporta la messa al bando dei poeti, è qualcosa che il regista ci addita come un monito, specchio di maniacalità e conflitti ovunque accesi in ogni tempo.
E forse proprio per la difficoltà a tornare a una purezza di sguardo che un film sulla poesia comporta, così da far risuonare la poesia prima di tutto in noi, sgombrando il campo dal rumore di fondo che lo invade, non sono molti i lavori cinematografici che la raccontano, sorprendentemente pochi i tributi del cinema italiano ai nostri letterati. Pensiamo al Leopardi di Martone. Solo nel 2014 abbiamo avuto un film sul nostro grande. Ma Pupi Avati ha nella propria narrazione la capacità di recuperare quell’animo perturbato e commosso che ci manca. C’è poesia nel cinema di Avati – quanto mi ha incantata la sua Festa di laurea, protagonista un intenso Carlo Delle Piane, ritratto di un’impoetica e svuotata borghesia contro la spontaneità sentimentale di chi ha poco o nulla, da un punto di vista materiale, ma può ancora contare su una straordinaria ricchezza emotiva.

L’opera su Dante è ambientata nel settembre 1350, alla soglia del trentesimo anniversario della sua morte, e mette in scena un serrato raffronto fra Boccaccio, narratore dotto e affezionatissimo a quello che considera un padre, e il poeta della Commedia. Il primo studioso del poema dantesco, celebre anche per aver inaugurato le letture pubbliche a Firenze in cui ne recitava e commentava i canti, riceve l
incarico dalla propria città di portare alla figlia, monaca a Ravenna, un compenso in denaro a titolo di risarcimento tardivo per le sofferenze inflitte al padre e alla sua famiglia. Ne scaturisce una sorta di dialogo a distanza fra i due letterati, mentre Boccaccio calca fisicamente le orme del maestro, ripercorrendo i luoghi dell’esilio, raccogliendo testimonianze durante il tragitto che si legano anche alla storia di Firenze, prima e dopo la presenza dell’Alighieri. Con un evento spartiacque: la peste nera del 1348 che contribuì a sedare le faide, perché i lutti in ogni famiglia furono così numerosi che l’odio antico venne assorbito da una tragedia immensamente più grande. La torre del “guardamorto”, dove erano esposti i cadaveri che non si erano potuti riconoscere, si staglia in questa ricostruzione come una sorta di girone infernale; una specie di luogo dell’azzeramento che mostra tutta la nullità dell’essere umano, spazzato via nella sua ridicola superbia da forze che non è neppure in grado di immaginare. Anche qui, linee parallele con quanto abbiamo vissuto e stiamo vivendo.
Ad Alessandro Sperduti che abbiamo già visto in diversi lavori a carattere storico dove ha messo in luce tutta la sua bravura – Torneranno i prati di Olmi e poi le serie sui Medici e Leonardo da Vinci è toccato il compito non semplice di interpretare gli anni giovanili di Dante. Sia lui che il veterano Castellitto, nei panni di Boccaccio e recentemente anche in quelli di D’Annunzio, ci regalano belle sequenze di recitazione. È un Dante carnale fuori dagli stereotipi, a dimostrazione che la verità poetica – come scrissi parlando di Ungaretti – sta nel sangue e nel fango della materia. La poesia è tanto più profonda quanto più affonda le unghie nella pelle e immerge lo sguardo nelle bassezze della vita. Per Ungaretti fu la trincea, per Dante fu ugualmente la guerra, e poi la lordura della politica, la violenza del rovesciamento delle sorti, la povertà, la paura della continua persecuzione. Ma ebbe sempre dentro il dio della poesia a sollevarlo, provava cose che lo innalzavano oltre tutto il dolore, e che nell’intensità di quel dono lo riscattavano. Se una tregua c’è stata in questa vita, è proprio nell’immensità della parola poetica. È un qualcosa che il regista fa affiorare nell’intera rappresentazione, testimonianza di un bene che travalica ogni cattiveria.

La stessa diafania di Beatrice – talento e bellezza di Carlotta Gamba – si sbilancia continuamente tra carnalità e ritratto gotico. È stilnovista e angelica solo perché bionda e con gli occhi azzurri. Ma per il resto un carattere fuori dai canoni – una sorta di baccante rassegnata al suo sacrificio, consapevole di tutto e della morte soprattutto. Le donne di Dante – anche quelle che ebbe durante l’esilio, prostitute comprese, a quel che se ne sa amava e molto il gentil sesso – sono qui tutt’altro che madonne indecifrabili. Condividono l’amore e il dolore del poeta, ne mordono il cuore.
Insomma Pupi Avati ha fatto piazza pulita di molti cliché che diversamente avrebbero allontanato e reso soporosa una lectura Dantis. Quindi non è condivisibile a mio parere chi vede nel film uno scivolamento didascalico. Mentre affermo che, proprio in osservanza della rottura degli stereotipi, per l’aspetto di Dante si poteva evitare quello del naso enorme e adunco; attenendosi piuttosto a quanto ci rivela l’affresco del Bargello, forse la sua più verosimile “fotografia”.

Questa breve riflessione sul meritorio e coraggioso impegno di Avati su Dante – perché portare adesso la poesia in sala e raccontare un poeta che ha letteralmente plasmato la nostra lingua richiede una certa dose di temerarietà – non può che concludersi con una dichiarazione rilasciata dal regista all’inizio delle riprese: «Attendi tanto. Diciotto anni prima che ti sia concesso di realizzare un film. Lo avevi nitido nel 2003 quando hai scritto la prima versione del soggetto. Nel frattempo hai fatto altro, molto altro, ma quell’impegno con Dante ti è rimasto dentro, tampellante, facendoti avvertire come una colpa il trascorrere del tempo. Poi, finalmente, incontri chi ti ascolta e non rimanda, chi apprezza l’idea e ti trovi “impreparato” a quell’assenso, a quell’accoglienza. Questo il mio stato d’animo di oggi, a poche ore dall’inizio delle riprese. Che si realizzi nell’Italia di oggi in cui le gerarchie di cosa e di chi conti sono dettate da ben altro, un film sulla vita di Dante Alighieri, ha dell’inverosimile. Non oso ancora crederci».»
E noi non possiamo che dire grazie.


(Di Claudia Ciardi)

 

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