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18 aprile 2012

Attraverso Charlottenburg - Robert Musil


Attraverso Charlottenburg
Robert Musil



Cortili sul Kurfürstendamm


«Finora l’unico verde sospeso nelle strade ad altezza d’albero è quello dei semafori, e ha qualcosa di invecchiato, quasi spettrale, quando oscilla vivacemente sopra tre macchine ferme, come se ne giungessero altre cento a gran velocità. Molto autunnali sono pure i cartelli rossi sopra i quali sta scritto, casa per casa, che ci sono appartamenti da affittare. Ma nei cortili dei casermoni dai tetti merlati si nota la primavera dalle screpolature dei muri. A grossi frammenti l’intonaco si è scrostato, sembrava una lebbra divorante e ora il sole splende nelle ferite. Soltanto i camini, fraternamente ritti sul tetto, hanno conservato il loro colore del buon tempo andato e, quando vi splende sopra il sole, si nota dal rosso pallido dei loro mattoni com’è diventato intenso il blu del cielo nelle ultime settimane. Se poi lo sguardo da questo gioco di lontananze discende lungo le pareti, perfino le chiazze scrostate dei muri sono in grado di simulare una vita fiorente che sboccia».

Margini del Tiergarten

«Il colore degli inizi della primavera è il bruno in innumerevoli gradazioni, dal pallore sbiadito dell’erba fino al marrone sfavillante dell’acqua. Solo i nudi rami dei salici piangenti tracciano nella natura precise linee verdi, sottili come fruste. Una macchia rossa dietro radi cespugli – non è altro che l’estremità verniciata di rosso di un picchetto di legno – dà l’illusione di un arbusto in fiore, di un’aiuola di fiori appena sbocciati: il cuore ne resta sgomento e tradisce di essere pieno di un’aspettativa simile a quella del battello che sta «sotto pressione» davanti alla chiusa: la simpatica piccola caffettiera ha ridipinto il suo vecchio scafo e il fumaiolo a fresche strisce bianche e rosse; all’inizio di ogni primavera si prepara, infatti, per un grande viaggio che dura quasi un anno, benché questo viaggio, un anno dopo l’altro, si svolga su e giù soltanto tra Charlottenburg e Stralau».

Castello di Charlottenburg

«Quando gli chiediamo dove dobbiamo scendere, il giovane bigliettaio crede di riconoscere in noi dei forestieri e ci dà l’amichevole consiglio: «Non perdete l’occasione di visitare il mausoleo: il riverbero è bellissimo laggiù, è il più bel riverbero di Berlino!» Credo che in questa informazione sia racchiusa e concentrata al massimo l’essenza di ogni celebrità e curiosità. Tuttavia, non vogliamo rivedere il mausoleo bensì il parco, e dinnanzi a esso è appeso un cartello: «Causa intransitabilità dei sentieri oggi chiuso». Per settimane non c’è stato maltempo e, all’improvviso, ci si sente riportati indietro nell’epoca di un vigile governo che protegge il cittadino dai pericoli che, da qualche parte, stanno in agguato insidiosi attorno a lui, poiché anche l’occhio, fin dove giunge, vede i sentieri nel più bell’ordine. In casi simili l’uomo d’oggi compie un tentativo di aggiramento. Passa dapprima oltre il monumento dell’imperatore Federico, là dove, su panchine di pietra, stanno sedute, una accanto all’altra, persone con le gambe allungate e il viso rivolto al cielo: il tutto come se una mano in uno slancio avesse sparso sulle panchine fiori dai lunghi steli recisi. Più in là si può notare dal sentiero di Tegel che anche l’interno del parco del castello è tanto asciutto quanto pianeggiante, l’attenzione però è ora subito sviata verso l’altro lato ove, in uno stile eclettico-romanico ma pur sempre imponente, si erge minaccioso un tribunale con un motto inciso nella pietra sopra l’ingresso: Suum cuique. Il che significa: A ciascuno il suo, ed è un buon vecchio motto prussiano, quindi assai giusto, ma nel sole primaverile fa venire il dubbio se molta gente non darebbe volentieri il suo per meno, quando questo consista in diversi anni di prigione».




Versione tratta da:
Robert Musil
Romanzi brevi, novelle e aforismi
Traduzioni di Anita Rho e Roberto Olmi
Introduzione di Cesare Cases
Einaudi, 1986

13 aprile 2012

Georg Heym - Ci invitarono i cortili


Georg Heym - Ci invitarono i cortili/ Die Höfe luden uns ein
Via del Vento edizioni (dicembre 2011)

Scheda/ card
Pagina facebook – Georg Heym, Ci invitarono i cortili




Una selezione di poesie del poeta tedesco Georg Heym, curata da Claudia Ciardi per Via del Vento edizioni

Descrizione/ About:
Plaquette di 36 pagine. Volume numero 45, pubblicato nella collana «Acquamarina»
ISBN 978-88-6226-056-5
4,00 €
Catalogo completo «Acquamarina»/ Full catalogue


Un assaggio / Vorgeschmack / Sample:


[Dopo la battaglia]

Nei campi fittamente stanno i corpi,
sul verde pendio, sui fiori, i loro giacigli.
Disperse le armi, le ruote di raggi prive
e ribaltati i ferrei affusti.

Da pozze fumigano fiati di sangue,
in nere e rosse coltri confondono il sentiero.
E schiuma il ventre dei cavalli morti
che all’alba le loro zampe stirano.

Nel gelo della brezza il lamento ancora agghiaccia
dei morenti, quando alle porte orientali
un bagliore smorto appare, un lume acerbo,
il lieve nastro dell’inattingibile aurora.

                                *  *  *
           
[I silenti]

A Ernst Balcke


Una vecchia barca, nel porto spento
a sera sulla catena oscilla.
Gli amanti sopiti dopo i baci.
Una pietra che a verdi sorgenti nel fondo riposa.

Lo smarrimento di Pizia simile al sonno
che gl’implacabili dèi dopo il banchetto prende.
La pallida candela che sfuma il morto.
Creste di nubi su una valle.

Di uno stolto il riso fatto pietra.
Le coppe impolverate dove ancor vaga l’aroma.
Violini spezzati nell’abbandono dei solai.
L’aria fiacca prima del temporale.

Una vela che all’orizzonte balena.
La fragranza della macchia che le api attira.
L’oro dell’autunno e le foglie incoronate e il tronco.
Il poeta, che sente la follia di chi non l’ama.

                                 *  *  *

[Col capo appuntito viene]

Col capo appuntito viene alto sopra i tetti
e i suoi chiari capelli trascina,
l’incantatore, quieto nelle stanze del cielo si leva
d’innumeri astri sui sentieri dai fiori intrecciati.

Giù tutti gli animali nella selva e tra gli sterpi
giaccion con le frange ben pettinate,
un coro lunare intonando. Ma i bambini
nei lettucci dentro le bianche camicette si fan gomitoli.

L’anima mia mare senza sponda
piano fluisce in lieve corrente.
Verde son io dentro di me e fuori mi sperdo
come un palloncino di vetro.

                                 *  *  *

[Ci invitarono i cortili]

Ci invitarono i cortili con le scarne braccia,
delle nostre animucce l’orlo sdrucito ghermirono.
E per notturni usci noi sgusciammo
verso il tempo stregato di morti giardini.

Dalle grondaie un’acqua scese di piombo,
nubi perenni livide volavano.
E sul rigore di laghi ghiacciati
in secchi germogli pendevan le rose.

Dell’autunno sui trascurati sentieri ci mettemmo
il nostro sguardo incrinarono biglie di vetro
che qualcuno ci offriva sulle dita appuntite
e i nostri pianti ci alzarono di splendore un fuoco.

Lievi svanimmo: nelle vitree stanze
riecheggiò la tristezza e il delicato vetro franse;
or su opalescenti nuvole sediamo senza tempo,
sogno crepuscolare di un fatuo volo di farfalle.

                             *  *  *

[I folli]

Pura è la luce sui nostri giorni,
pallido riverbero del sole.
Come fiori schiusi e nel lieto raggio
che s’inazzurra ci leviamo.

Sedevamo nel fondo di cupe stanze,
e sopra scorreva con le sue nuvolette la vita,
e noi dei tetri cieli sempre in ascolto
dintorno ai nostri sepolcri nell’assonnata landa.

Qualcuno ci ha chiamato, aspettar non potevamo,
le nostre piste a lungo eran state opache.
E i giorni erranti, quelli brevi e quelli duri,
ineffabile il nostro andare avevan reso.

Dietro di noi ancora un suono va e un fragor sordo
come un mondo in acque ferme annegato.
Talvolta le spalle giriamo, intenti,
se un grido come una pietra nella nostra quiete cade.
Ché allegri siamo e di bei panni avvolti,
nella selva campestre cantando sediamo.
Per le nostre contrade avanzar non può
chi ancor con le mani lo steccato arpiona.

Non mancherà molto che alberi saremo,
quali nel mattino del tempo eravamo,
calmi come sogni dormienti nella terra scura,
e nessuno che le nostre vene tocchi.

traduzione / Übersetzung: Claudia Ciardi


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Corriere della Sera/ 17-02-2012

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Sagarana - Dopo la battaglia/ Nach der Schlacht

Musicaos.it di Luciano Pagano 

Andrea Brancolini per Via del Vento/ Lankelot.eu, aprile 2012
E su Words Social Forum 

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11 aprile 2012

Stemma di Berlino


Stemma di Berlino: poesia tedesca della metropoli
di Franco Buono
Edizioni Dedalo, 2000



Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui l'autore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile. A Berlino questi due elementi girano come all’interno di un acceleratore di particelle, liberando una energia che si scopre accresciuta all’inverosimile dai tanti moltiplicatori architettonici, meccanici e pubblicitari, di cui a inizio ‘900 il tessuto metropolitano pare nutrirsi con inaudita frenesia.
«In nova fert animus mutatas dicere formas corpora», l’incipit ovidiano diviene la formula incantatoria con cui la nuova arte cerca di guadagnarsi l’ingresso nel mutevole cosmo urbano. E questo ambiente incorniciato dall’accigliata sagoma delle fabbriche su cui vacillano pallide comete di luci a gas diviene una cosa sola con la materia dove l’incisore imprime il proprio passaggio creativo, inquieta matrice scossa dalla memorabile battaglia di spettri e ombre che si consuma nel sottosuolo. Non è da intendersi come un fatto casuale che l’analisi critica di Franco Buono si indirizzi proprio alle tavole di Frans Masereel, autore di un romanzo per immagini, Die Stadt (La Città), considerato uno dei best seller del periodo espressionista. Né minore risonanza ebbero i disegni di Heinrich Kley, ritrattista di fauni lascivi e fantasmi beffardi, tremendi guardiani a cavalcioni di ponti e palazzi, fatti per ricordare al passante la doppia anima che alberga nella città. Non furono pochi i poeti che da queste rappresentazioni trassero linfa preziosa per alimentare il loro immaginario, uno su tutti Georg Heym, precoce e tragico ingegno della Slesia che al dio della città sacrificò il suo franto e malinconico lirismo.
«Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà facilmente un labirinto. Così fa l’istinto negli episodi che precedono la sua soddisfazione». Walter Benjamin ha ben fotografato il viaggio nella sua tortuosa ricerca di un compimento. Alla fine del percorso resta quel nudo corpo di segni muti che evocano a chi li osserva la tempesta della storia da cui sono stati forgiati. È lo stemma di Kolmar, donna e luogo, straniera eppure più di chiunque altro intima interprete delle proprie radici. All’origine di ogni città, come di ogni forma individuale sta un sacrificio. Una parte del suolo e del sé viene consacrata a qualcosa, e ciò che è a un tempo una lacerazione, uno strappo traumatico ma necessario attorno a cui si organizza la vita della comunità e del singolo non cessa di reclamare nel tempo il proprio rito d’esorcismo. La poesia di Berlino nel primo ventennio del ‘900 nasce da queste membra spezzate e dal bisogno di dar voce all’istinto mai sopito che le chiama continuamente alla metamorfosi.

 Links:

English database on Berlin / database in inglese sulla metropoli come corpo vivente:
Berlin: the city as body, the city as metaphor

Related books:
Walter Benjamin - Enthebe mich der Zeit / Liberami dal tempo

Georg Heym - Die Höfe luden uns ein / Ci invitarono i cortili

7 aprile 2012

La città in versi – Durs Grünbein





Il primo anno. Appunti berlinesi
 
Einaudi, 2004


                                                KANAL IN BERLIN 
                                                                 Erich Heckel
 

Un diario dei dodici mesi iniziali del nuovo millennio, segnati dalla felicità per la nascita della figlia e dai ricordi della propria infanzia a Dresda, in cui la memoria cammina a fianco delle riflessioni sulla poesia. La vita di tutti i giorni è per il poeta tedesco fonte di stimoli inesauribili: le ricerche nel campo della genetica e gli studi sul cervello lo inducono a riflessioni sulla vita e la morte; Berlino e la Germania sono in continua metamorfosi; nelle impressioni di viaggio si riverbera la storia di città del vecchio e del nuovo mondo. Fogli di taccuino che intrecciano pubblico e privato e che sono anche una radiografia mentale del continuo dialogo di un poeta con i grandi del passato, da Baudelaire a Seneca, da Darwin a Cézanne. 

Recentemente pubblicato da Einaudi anche:
Strofe per dopodomani e altre poesie
collezione di poesia
a cura di Anna Maria Carpi
pp. 216
ISBN 9788806197568
anno 2011
€ 12,50

Inferno tedesco. La Nuova antologia di Durs
 



                                                      MAUER AM SÜDSTERN
                                                              Rainer Fetting 
                                                                     1988

6 aprile 2012

Walter Benjamin - Liberami dal tempo


Walter Benjamin - Liberami dal tempo/
Enthebe mich der Zeit
Via del Vento edizioni (ottobre 2011)

Scheda/ card
Pagina facebook - Walter Benjamin Liberami dal tempo




Una selezione di poesie dello scrittore tedesco Walter Benjamin, curata da Claudia Ciardi per Via del Vento edizioni
Other news by Caffè d'Europa/ margininversi 
Descrizione/ About:
Plaquette di 36 pagine. Volume numero 44, pubblicato nella collana «Acquamarina»
ISBN 978-88-6226-052-7
4,00

Un assaggio / Vorgeschmack / Sample:

Walter Benjamin, Liberami dal tempo/ Enthebe mich der Zeit


[Se avessi divinato il tempo]

Se avessi divinato il tempo del tuo morire al mondo
la natura avanti a te nella fine sarebbe precipitata,
con inesorabile misura volgerebbe
l’esserci all’infinito oblio.

Nel cielo resterebbero delicate albe rosse
proprio là nell’ora in cui scivolava la tua veste
le selve tutte dipinse buia pena
la notte su naviglio leggero rivestì il mare.

Da stelle plasma innominabile pianto
l’insegna del tuo sguardo nell’arco celeste
e l’oscurità impedisce con densità di barriere

l’espandersi della nuova primavera,
osserva l’anno nell’immota postura degli astri
dalla cisterna specchiante la tua morte.

                                *  *  * 
     
[Tu mai più sonante nella calura]

Tu mai più sonante nella calura
le verdi chine scendevi stillando
canti di vento portavi sulle ali
ti fece muta l’angelo dei sensi

o voce, lui con la sua mano alzò
l’anima tua all’infinita lucida frescura
dove ora la tua sorgente sull’amena altura
gioioso coraggio per volere divino effonde.

Quando all’alba smorta canto d’uccelli si sveglia
e chiede dove gli amanti hanno dimora,
ti intuisce racchiusa nell’immobile luce

che vividamente investe i faggi,
finché la metà del giorno dove la tua parola s’arrestava
ai muti lacera il corpo e lo spartisce con le ore.

                                 *  *  *

[Una volta delle sue orme era piena la città bianca]

Una volta delle sue orme era piena la città bianca
come una canzone moriva nelle sue finestre,
riflesso il suo sguardo, e il giorno si schermiva
fissandolo da cieli inermi

che ardenti pendevano sull’antico parco
dove al battito d’onda di grazie offerte
lo circuì un torpore il cui verde riflusso slittò via
alla nascita dei soli, quando in segreta forza

angeli lo sottrassero per paesi più distanti
d’imbiancate montagne dove l’anima dell’amica
precipitando volteggiava abiti di lino.

Il giovane un groviglio di schegge luccicanti
l’involse, sul capo stanco si curvò
dallo strale di un’eterna luna la fronte circonfusa.

                                 *  *  *

[Tu assopito ma lanterna al risveglio]

Tu assopito ma lanterna al risveglio
tu affranto ma consolatore degli ultimi
tu costretto al silenzio eppur liberatore d’un grido d’esultanza
dio piangente guaritore del sorriso

scorta agli abbandonati tu stesso dei più solitari
lasciato al bordo della barca dei defunti
dell’amor casto signore e dell’entusiasmo ardente
profeta di bellezza tu spogliato nel bisogno

angelo di pace tagliato dalla spada
fanciullo in fiore giocoso artigiano della morte
redentore che fa cenni dal cuore della distruzione

supplice bandito dalla soglia attonita
di antiche divinità tu portatore d’estasi nuova
liberaci e la nostra colpa slega.

                             *  *  *

[Dentro ogni bellezza]

Dentro ogni bellezza giace un segreto affanno
resta infatti eternamente confusa
due e due volte irrisolta
nascosta all’osservatore e misteriosa

in nulla è simile ai viventi il suo durare
nessun vivente del tutto la prende per vera
una trasparenza le rimane come rugiada e vento tra i capelli
più si avanza più diventa vaga

come Elena sta nella penombra del tramonto
l’accento dei due mondi non le corrisponde
se non svolgendo la sua trama abbagliante

ma non fu dato alla tua bellezza
fiorire né chiamarsi per nome
come morte schiusa dalla tua fresca vita?

traduzione / Übersetzung: Claudia Ciardi


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5 aprile 2012

Espressionismo nella poesia italiana



Espressionismo nella poesia italianaGabriele D’Annunzio, Maia o della Charogne sublime di Antonella Ortolani, in «Pagine», rivista di poesia internazionale, Zona editrice, Anno XXI numero 64, maggio-agosto, 2011, pp. 21-23



Chiunque ha osservato i bambini sa che enorme importanza abbia il rituale nella loro vita […]. Il poeta, si sa, è “il fanciullino”; ma su quest’aspetto del fanciullino credo che Wordsworth e Pascoli non si siano soffermati. D’Annunzio, mi pare, l’illustra bene Mario Praz.
Se il poeta è un fanciullo, del bambino non erediterà soltanto l’atteggiamento ricettivo, creativo e vergine nei confronti del mondo, ma anche le sue angosce, i suoi molti terrori che, come la psicanalisi ci addita, egli esorcizza in gesti e rituali ripetitivi, volti a crearsi difese e sicurezze. […] La casa – tutte le sue case, non solo il Vittoriale, ma anche la casa natale a Pescara, e la Capponcina – è pastiche, cianfrusaglia che Praz si rifiuta di definire Liberty (intendendo egli con questo termine una stilizzazione essenziale delle forme, un tentativo di uscire dal caos e non una proliferazione farraginosa di ornamenti) ma piuttosto un bric-à-brac che ha una funzione ben precisa: quella di rendere la realtà intorno a se emblematica. Il bric-à-brac non è solo per l’occhio. Dagli accostamenti delle cose, come quelli delle parole, il poeta si ripromette illuminazioni, epifanie. […]
Naturalmente, in questo linguaggio (e in questo mondo) “bloccato”, manca il Tempo ed è assente la Storia. Affascinante la descrizione che dell’ossimoro di questo universo dinamicamente cristallizzato ci dà Bigongiari: «la morfologia dannunziana è stregata in partenza da questa enorme, ricchissima, staticità del tutto che essa esperisce volta a volta nella astoricità, che è tale perché adinamica […] Questa sensibilità dolorosa […] è quella stessa cifra che altri indicheranno come memoria veggente, una zona d’ombra nella quale la realtà è restituita in un impasto di segrete apparizioni, nel ritmo della «parola abbandonata al ritmo frantumato della sua originaria purezza.» (Luti)
La qualità allusiva che tocca il suo vertice nell’appunto, nelle brevi annotazioni diaristiche; la capacità di penetrare nell’anima delle cose con l’immediatezza intensa delle sensazioni, dove il flusso idea-parola si compie in una sorta di delirio espressivo […]. Un cortocircuito del piano percettivo: la “zona” espressionistica della visione, dove l’occhio precipita al di qua e al di là della percezione, in un terreno in cui lo sguardo ha poco a che fare con i meccanismi della rètina, e penetra invece nei labirinti della psiche. […] Anche Ezio Raimondi nel rintracciare i segni d’un freudiano complesso ossessivo nel tema dell’animale – in particolare della rondine – connesso con un ricordo infantile di crudeltà e violazione, traccia il percorso di questo “cammino nell’ombra” compiuto dal poeta attraverso l’orchestrazione essenziale di immagini e sensazioni fisiche compenetrate: «la coscienza con i suoi specchi misteriosi scende nei labirinti dei propri sensi, nell’indistinto delle loro germinazioni comuni, a cogliervi il tremore carnale della solitudine. Nelle pagine paratattiche del Notturno Raimondi legge le fluorescenze tutte Jugendstil, ma già toccate da un baudelairiano “sentimento di una vita misteriosa ed enigmatica come la flora di un acquario o le gemme di un museo ‘egizio’ ”, e trova la parola sospesa “nelle ragnatele di un mondo in penombra dove il mostruoso non si discerne dal famigliare e il fiabesco nasconde qualcosa di orrido nella luce crudele di un cristallo”.» C’è tutto un aspetto, nell’arte Liberty, che sconfina in un ambito ammorbato  da suggestioni decadenti, fino a perdere il contatto con i suoi motivi originari per virare decisamente verso approdi espressionisti. […] Scrive Giorgio Cortenova: «tutto quel movimento e quell’intrecciarsi di linee non si discioglie mai in un dinamismo liberatorio, ma in una pulsionalità tendente ad intrecciarsi su se stessa, in una sorta di fibrillazione venata da oscuri presentimenti. Insomma, nel brioso danzare delle linee s’insinua l’allarme dell’anima, nel paesaggio vegetale affiora il mondo animale, in una sorta di latente “mostruosità” mai espressa fino in fondo e tuttavia mai occultata fino alla cancellazione. Il fatto è che […] linguaggio e natura non combaciano più, ed è di lampante evidenza che tra loro esiste solo un falso “accordo”, un piano di appoggio terremotato, in cui la natura vive solo in quanto “idea” e il pensiero naviga in mari senza approdo. […] La metafora Jugendstil si mescola alla dissonanza barocca: si fa smorfia, ghigno. La natura si deforma, beffarda, in antropomorfismi minacciosi.» […] Leggendo le pagine de le “Città terribili” di Maia, sono proprio le allucinate città degli espressionisti che ci vengono alla mente. Così l’alito di morte che percorre La strada della città dannunziana È lo stesso alito di morte che si aggira nella Città morta del poeta espressionista Edlef Köppen. […] Eppure il tragitto verso la coscienza dei compiti dell’arte non è tranquillo. Alla svolta del sentiero incontriamo l’orrore di una carogna. Una carogna sembra esser posta come guardiano sulla via dell’arte moderna. Una carogna di Baudelaire, ben conosciuta e amata da Cézanne («nei suoi ultimi anni Cézanne conosceva a memoria questa poesia – Une Charogne di Baudelaire – e la recitava parola per parola» scrive Rilke in una lettera alla moglie) è una poesia scritta da Baudelaire prima del 1845, dunque una delle prime composte per Les Fleurs du Mal. Alla svolta della strada la carogna è là, e si offre alla vista con le gambe oscenamente spalancate, a dissolversi in una colata putrida di larve nere, e in un ronzio di mosche che le danno una parvenza illustrata di movimento e di vita. […] Prima lo sguardo artistico doveva essersi spinto tanto oltre se stesso, da vedere l’esistente anche nell’orribile, anche in ciò che appare come ripugnante.
Rilke ci indica che l’artista deve spingere il suo sguardo a frugare fin dentro la materia ripugnante, fino a dire l’indicibile, a nominare l’innominabile, perché tutto l’esistente abbia forma: Gottfried Benn, nei suoi saggi, ci avvertirà che spesso il difforme e l’abnorme sono alla radice del “fiore azzurro”. Crediamo che la cifra dell’espressionismo di D’Annunzio sia qui, in questa oltranza della parola che osa spingersi dove è alto il rischio di affondare, dove il patto mimetico tra parola e cosa – che aveva retto ogni rappresentazione in occidente, da Platone in poi – sta per rompersi, affidando alla parola una responsabilità nuova e terribile: compito dell’artista non è più rappresentare il mondo, ma far essere il mondo nelle sue forme proiettando nel mondo stesso l’ombra, la mescolanza di luce e di buio che abita dentro il soggetto.





L'espressionismo tedesco - Paolo Chiarini




L’espressionismo tedesco
di Paolo Chiarini
Silvy Edizioni, 2011

Nel problematico scenario di inizio Novecento, che in Germania, accanto alla rigida nobiltà feudale degli Junker, vede affermarsi una nuova classe di ricchi, generata dalla rapida espansione capitalistica, l’intellettuale soffre lo spaesamento all’interno di una collettività sganciata dal potere e dalle sue manifeste chiusure culturali. Prima ancora che le contraddizioni esplodano sull’accidentato terreno del confronto storico, l’espressionismo leva un grido di denuncia della malattia, dando voce in maniera seppure scomposta e spesso patetica allo scandalo che trasversalmente investe la società.
Bizzarra proteiforme creatura l’espressionismo, al centro del quale, spazzata da venti contrari, si dibatte la crisi della soggettività; corpo scisso in preda a una demartiniana crisi della presenza, innescata dal senso angosciante di perdita del mondo da parte dell’uomo. L’universo polare espressionista si trova continuamente esposto al rischio di soccombere alle forze delle opposte cariche che lo attraversano. Fermo restando il suo carattere intrinsecamente votato alla lacerazione, la critica ha il compito di rilevarne le dicotomie senza esasperarle, allontanando così il rischio di azzerare quelle molteplici sfumature e zone comunicanti, entro le quali si sovrappongono e trovano alimento proprio le opposizioni all’apparenza più inconciliabili e clamorose. La Stimmung sfuggente dell’espressionismo richiede quindi un’attenzione del tutto particolare che sia in grado di cogliere queste sue ‘attitudini liminali’ sempre sul punto di negare se stesse, qualora si intenda dare di un tale frastagliato arcipelago una rappresentazione il più possibile unitaria. Il richiamo cosciente a una siffatta metodologia di indagine significa, del resto, far battere l’accento sulla irrisolvibile conflittualità tra forma e sostanza, tra riproduzione oggettiva della realtà e immagine interiore, già rilevata dall’arte decadente, e in buona parte confluita nella nuova poetica.
Il denso excursus di fonti collazionate e scelte da Paolo Chiarini per il lettore italiano forma un suggestivo quadro d’insieme, permettendo anche ai non addetti ai lavori di recuperare, attraverso una sintesi piana ed efficace, la complessa trama di un fenomeno d’arti e di pensiero che ha gettato un influsso potente quanto profondo sulle nostre attuali espressioni creative.
Un saggio offerto in elegante veste editoriale dall’attenta casa editrice Silvy, il quale non solo ci invita a entrare in una composita galleria di personaggi, luoghi e temi correlati alla «nebulosa epocale» espressionista ma affronta a viso aperto le molte problematiche ancora irrisolte sul doppio fronte degli studi e, per conseguenza, delle strategie interpretative da elaborare in materia. Questa lettura si pone, dunque, come tessera centrale nel dibattito contemporaneo sull’avanguardia tedesca, schiudendo tuttavia anche un orizzonte più ampio che dalla Germania sposta i confini del processo di messa a fuoco delle diverse ‘rivolte’ artistiche, caratterizzanti il ‘900, all’intera Europa. Dalla trattazione, che condensa l’esperienza di una vita, spesa con passione dall’autore lungo i sentieri della germanistica, si evince l’esortazione a coltivare un simile sguardo inclusivo sulle cose, fatta salva, quale elemento anzi ineludibile, l’analisi storica puntuale e, per così dire, territoriale dei singoli rivi che hanno contribuito ad agitare le acque stagnanti della cultura ufficiale del secolo scorso. 
Claudia Ciardi, marzo 2012

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Silvy/ official site 
segnalato all'interno del sito di Silvy 

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4 aprile 2012

Peter Gay - La cultura di Weimar




Weimar fu una stagione di grande vitalismo politico e culturale ma anche di tensioni e difficoltà di ordine sociale ed economico che finirono per produrre molte delle fratture esiziali alla sua sopravvivenza. Questa coraggiosa fabbrica dell’alternativa sociale, nata dal dramma della guerra, ebbe un cammino affatto agevole e fece non poca fatica a sfuggire ai bassi tiri del conservatorismo e ai maneggi di certi professionisti della politica e delle arti, il cui unico obiettivo era servire il proprio interesse, flirtando il minimo indispensabile con la repubblica per tirare avanti e aver garantita la propria esistenza all’interno della collettività. 
Più di ogni altra cosa, ad affondare il progetto di Weimar fu proprio l’amore freddo della maggior parte di coloro che vi aderirono. Mai, denuncia Peter Gay, vi fu un coinvolgimento autentico. Per molti si trattò di una scelta per esclusione, altri addirittura la vissero come un obbligo forzoso che gli eventi avevano costretto ad assolvere, una sorta di giogo da portare in attesa di una soluzione. 
Il blando attaccamento, se non l’aperto disprezzo, furono dunque i veri carnefici di Weimar. Ciò che nel decennio repubblicano (1919-1929) si era cercato di esorcizzare, ossia gli spettri del militarismo, dell’antisemitismo, della violenza nel dibattito pubblico, finì per esplodere, facendo a brandelli le istituzioni che erano venute alla luce dopo un parto tanto faticoso. Coloro che ebbero chiara percezione del pericolo e a vario titolo dimostrarono sul campo vigore e decisione nel denunciarlo, e non furono pochi, vennero comunque ridotti alla condizione di outsiders, quando non banditi e duramente estromessi da ogni forma di partecipazione attiva.
Non a caso il titolo originale dell’opera di Gay è proprio The outsider as insider, a significare che la società weimariana fu, dall’inizio, destinata ad articolare una parte cospicua della propria esistenza fuori dai canoni. Fu una cultura che fiorì ed agì trasversalmente, ebbe un imprinting a-convenzionale, si avviò nella clandestinità e proseguì sul proprio cammino di rottura. I suoi artigiani più creativi e affezionati giocarono in realtà fuori campo e tuttavia continuarono, finché ne ebbero facoltà, a gettare i semi preziosissimi della loro opera dentro i fertili solchi improvvisamente aperti tra le ceneri imperialiste.
Quella di Weimar si connotò da subito come una cultura da esuli. La maggior parte dei suoi artisti, intellettuali, ricercatori, alimentarono una schiera di ingegni raffinatissimi e inquieti che in patria ricoprirono la posizione di battitori liberi, spesso nella consapevolezza del rovinoso logoramento al quale mese dopo mese erano sottoposte  idee, istanze e propositi messi al servizio e schierati a presidio della repubblica.  
Thomas Mann, Friedrich Meinecke, Walter Benjamin mostrarono un impegno costante nel rilevare trappole, incongruenze, atteggiamenti in difetto disseminati ovunque nel fragile organismo democratico che si andava costruendo. All’indomani del viaggio attraverso la Germania in preda all’inflazione, nel 1923, Benjamin presentì i rischi pesantissimi corsi dal proprio paese, e la sconfortante visione alimentò, nel corso degli anni, un’amara consapevolezza: «Ciò che rende totale il grottesco isolamento della Germania agli occhi degli altri europei, ciò che porta costoro, in fondo, ad atteggiarsi nei confronti dei tedeschi quasi avessero a che fare con degli ottentotti è la violenza, del tutto incomprensibile a chi sta fuori e per nulla presente alla coscienza dei reclusi, con cui le condizioni di vita, la miseria e la stupidità rendono in questo luogo gli uomini sottomessi alle forze della collettività come solo la vita di un primitivo è condizionata dalle leggi del clan. Il più europeo di tutti i beni, quella più o meno piccata ironia con cui l’esistenza del singolo reclama sempre un corso dissimile dalla vita della collettività nella quale esso si ritrova sbalzato, i tedeschi l’hanno smarrito del tutto» (Da Einbahnstraße, “Kaiserpanorama”). 
Sapeva, lui come altri, che dietro la malmessa facciata avevano continuato a covare le braci di un ingombrante e funesto passato con cui si sarebbe rinvigorito il fuoco di antichi errori. Ernst Toller, che proprio nel compromesso aveva colto la fine, e perciò scelse di aderire alla repubblica sovietica, cosa che gli costò cinque anni di detenzione, ebbe modo di sperimentare, anche lui tra i primi amanti illusi e traditi, l’inesorabile avanzarsi della minaccia.
Questa tragica esperienza occupa le pagine della sua autobiografia, Eine Jugend in Deutschland (Una giovinezza in Germania), cominciata il giorno del rogo dei libri sulla Babelstraße, quando ormai la deriva aveva chiaramente assunto il suo aspetto più fosco. Il meccanismo, quello stesso che aveva fornito l’oppiaceo alle giovani generazioni per annullarle, era da tempo in funzione. La giovinezza d’Europa, cui Toller rivolgeva l’estremo commosso appello, era stata ingannata e svenduta al nuovo padrone, senza che nessuno si battesse per strappargliela. Per due volte i padri furono ciechi al sacrificio dei figli; la prima guerra mondiale non era stata un dramma sufficientemente atroce da far comprendere la lezione.
Ma a Weimar mancò anche la pazienza e la piena coscienza della necessità di agire razionalmente per poter rimuovere gli ostacoli incontrati dalla vita pubblica e i bisogni espressi dalla collettività. Tutto ciò avrebbe richiesto uno sforzo non indifferente, e tuttavia il raggiungimento di un equilibrio nella vita pubblica avrebbe infine dato credibilità e giovamento al percorso istituzionale intrapreso.
«Certo tutto pareva andare parecchio meglio su ogni fronte durante questo primo lustro dorato degli anni Venti. La disoccupazione si era ridotta, il potere d’acquisto dei salari risollevato, l’estremismo politico pareva ormai fuori gioco, la repubblica di Weimar, insomma, si stava rivelando un buon posto per vivere. Per gradi, proprio in quegli anni, la Germania stava anche ponendo fine al suo isolamento per ricongiungersi alla comunità delle nazioni. La politica estera di Stresemann, ma, in definitiva, il puro e semplice trascorrere del tempo stavano dando il loro frutto» (Gay, p. 177). Il processo di lenta risalita non fu accompagnato dalla giusta pacatezza e neppure da un senso di misura che molto avrebbe contribuito a mantenere saldi i valori democratici e gli obiettivi ad essi ispirati.
Nel 1928, pochi anni prima del baratro, molti erano ormai i nodi venuti al pettine, nonostante la buona volontà di più d’uno avesse continuato a spingere perché il lavoro cominciato non si guastasse. La disoccupazione dei giovani e il loro massiccio reclutamento all’ideologia di estrema destra, l’arrivismo di imprenditori della politica che concentrarono nelle proprie mani ricchezza e mezzi di comunicazione, diffondendo messaggi conservatori e adulterando il confronto politico, lasciarono poco spazio agli slanci e agli entusiasmi della prima Weimar.
«La Weimar di quegli anni era però come la società sulla montagna incantata e le guance rubiconde mascheravano sintomi insidiosi. Di questi la cartellizzazione della cultura, sul modello della cartellizzazione dell’industria, fu uno dei più preoccupanti. Alfred Hugenberg, membro di primo piano della corrente di destra del già di destra partito nazionale tedesco, grosso industriale con ambizioni politiche e su posizioni irrimediabilmente reazionarie, costruì un impero nel campo dell’industria dei mezzi di comunicazione e divenne la voce stridente della controrivoluzione esercitando un’influenza enorme. Gli ufficiali, si disse, leggevano soltanto la sua stampa. Hugenberg riuscì a concentrare nelle sue mani dozzine di giornali in tutto il paese, acquistò il Berliner Lokalanzeiger, popolare quotidiano della capitale e fu proprietario di un’agenzia di informazioni dai numerosi abbonati fra cui poté propagare le «sue» notizie. Nel 1927 salvò dalla bancarotta l’UFA e la trasformò nella maggiore fabbrica di sogni a occhi aperti di tutto il paese. Personalmente insignificante, Hugenberg fu animato da insaziabili passioni politiche e odi mascherati da convinzioni e poté contare su smisurate risorse finanziarie» (Gay, pp. 177-178).
In questa breve riflessione ci premeva rilevare che l’ascesa e il declino weimariani si presentano come un cantiere ideale per cogliere molti fenomeni che hanno continuato ad affollare il concitato panorama storico e sociale del ‘900, compreso questo decennio, confuso e per molti versi regressivo, di inizio XXI secolo.
Buona parte dello spirito dell’Europa contemporanea risiede nelle istituzioni e negli uomini di Weimar. La dettagliata e appassionata analisi di Peter Gay si pone come un contributo ancor più prezioso, alla luce delle tante questioni che oggi occupano i tavoli della diplomazia internazionale e le cancellerie di Stato. Se vogliamo procedere a una soluzione serena e obiettiva dei problemi che proprio in queste ore agitano il vecchio continente, e non solo, mettendo alla prova le sue classi dirigenti, bisogna ripercorrere le tracce di questo fondamentale capitolo di storia.

(Di Claudia Ciardi )


Peter Gay, La cultura di Weimar, introduzione di Cesare Cases, Dedalo Libri, 1978


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Inauguriamo un nuovo spazio dedicato ai margini, intesi in senso fisico come periferie, luoghi di attriti o assenze, spesso descritti come privi di fisionomia e, dunque, mancanti di identità. Linquietudine del non luogo, in crescita peraltro nelluomo contemporaneo, migrante e apolide, intride fatalmente le poetiche individuali e collettive. Tuttavia è proprio nei margini che si sviluppa da sempre la più commovente allegoria dellesistenza.
Le nostre vogliono quindi essere riflessioni marginali, timidi fiori di quella creatività sbocciata nelle crepe e nelle brecce che si aprono sul confine, proprio perché crediamo che attraverso le opere e le personalità frutto di crisi e scissioni si colga la più autentica cifra della cultura del nostro tempo in grado di traghettarci altrove.