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9 settembre 2012

Blockaden


Blockaden
Storia di due assedi

«Sul monte Agu nel Togo vive un feticcio o spirito detto Bagba, che ha la più grande importanza per tutto il paese all’intorno. Gli si attribuisce il potere di dare e di negare la pioggia ed è signore dei venti, compreso l’harmattan, il vento secco e caldo che spira dall’interno. Il suo sacerdote abita in una casetta sulla più alta vetta del monte dove tiene i venti imbottigliati in grandi giare»

Il novantatré
                               
                                                     Per Sarajevo           
                                   
Con sanguinante scalpello arò il novantatré
la sconcia pietra del mondo,
sulle violate coltri l’insensato pugno levò
e tra ghiacciati orci immobile rimase.

Come diaframma di nuvole bruciò il novantatré
sopra il fango e il rame delle fosse,
nella rossa piega del sudario
di là da un mare in lutto.
Ma per l’arsa gola degli assenti
ancora latra la catena
un’agonia di ferro.


In concomitanza con il ventennale dell’inizio dell’assedio di Sarajevo e nell’anniversario del 9 settembre 1948, quando il sindaco di Berlino, Ernst Reuter, si rivolse al mondo per spezzare il blocco della città, altro indecente “assedio” di un luogo e una comunità già violati e prostrati dalla guerra, pubblichiamo alcuni documenti relativi a quei fatti, presentandoli nella lingua originale delle fonti di cui ci siamo serviti.
L’accostamento di questi avvenimenti intende richiamare l’attenzione su due episodi recentissimi della storia europea, in cui la follia omicida-suicida della guerra, uccidendo barbaramente memorie e identità, ha cambiato per sempre il volto di due capitali che si sono macchiate forse della colpa originale di essere patrie del mondo, luoghi di transito e pacifica convivenza di popoli, delle loro idee migliori e dei loro sogni. 
(di Claudia Ciardi)
Leggendaria n. 93 – maggio 2012 – Speciale “Balcanica”

From the Review:

    «In una notte come questa, malgrado tutto, / pensi a quante notti d’amore ti sono rimaste.» È il poeta bosniaco Izet Sarajlić, scomparso nel 2002, a parlare. Sarajlić non ha lasciato Sarajevo durante i quattro lunghi inverni della guerra iniziata nel ’92. I poeti, scrive, devono «fare il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo». Così, sotto il tiro dei cecchini, non maledice nessuno e anzi, continua a comporre versi per gli amici che muoiono, per le strade e le moschee ingoiate dalle granate e per la moglie, adorata musa fin dalla giovinezza. Accanto a lui durante gli anni del conflitto, lei muore appena dopo e tanto la amava Izet, che arriva a rimpiangere l’assedio: «Magari fosse ancora quel terribile,/ quel tante volte maledetto anno 1993!/ Avrei ancora cinque anni pieni/ da poterti guardare/ e da tenerti per mano!».
    Quanta guerra negli ultimi romanzi delle scrittrici albanesi che scrivono nella nostra lingua e che da noi trovano editori e riconoscimenti. La prima pluripremiata è stata Ornela Vorpsi, nata a Tirana, che vive oggi tra l’Italia e Parigi, un’artista e scrittrice che si dedica piuttosto alle guerre interiori dei migranti e dei conflitti tra i sessi. In uno dei suoi romanzi scattanti e dissacranti, La mano che non mordi (2007), racconta di un suo viaggio proprio a Sarajevo. Va a trovare un amico che non esce da casa da mesi, dopo aver vissuto da migrante in Italia. È depresso «perché l’Occidente non capisce le verità di noi altri dell’Est, dell’ex Est».
    È una città dove i ragazzi vogliono vestire Armani e i vecchi sono senza denti. I giovani, dice Ornela, non vogliono ammettere quanta voglia hanno di Europa. «Proprio da questa negazione, nasce quella che oserei chiamare la sindrome dei Balcani, quella di sentirsi al centro della terra», scrive.»


[…]


    «L’Est dell’Europa rinvia al centro un’immagine di essa (dell’essere stesso dell’Europa, fino a ieri occidentale) che rischia di rovesciarla. L’Europa infatti è messa a confronto insieme con se stessa e con l’Altro. L’Altro dell’Europa, cioè il suo Est, mostra ora come non sia altro che l’Altro dello stesso, cioè dell’Europa come si dava a vedere, come essa si autorappresentava. […] Le figure dell’Altro sono molteplici, ma […] sempre soggette ad essere escluse (La balcanizzazione della ragione, p. 19). L’Oriente, l’altro extraeuropeo, ha sempre turbato l’Europa, ma dopo la caduta del muro di Berlino, è venuta alla luce una figura dell’Altro parente della stessa Europa, l’altro intraeuropeo, «una figura ambigua che mette in gioco l’identità dell’intero continente: dov’è il confine tra Oriente e Occidente?...E dov’è la differenza tra l’Est e l’Oriente?» Non si è sicuri che esista. L’Altro europeo solleva la questione dell’Altro asiatico» (La balcanizzazione, p. 20)»


    «L’assedio militare più lungo della storia moderna è durato quarantotto mesi. Sono passati venti anni dall’inizio del blocco anacronistico di una città che era già europea prima di entrare in Europa. Troppi, sia per dare per scontata la conoscenza elementare della cronologia dei fatti, che per cercare di riassumerla qui. L’assedio di Sarajevo e la fine dell’esperienza jugoslava ci riguardano. Non solo perché, com’è stato ripetuto fino alla nausea, ci siamo visti “allo specchio” in una guerra tanto vicina a noi da farci assomigliare sia alle vittime che ai carnefici, ma anche perché alcuni temi che hanno alimentato il pensiero e i crimini dei nazionalismi armati che hanno distrutto quel paese (che fu tra i fondatori delle Nazioni Unite nel 1945) sono tragicamente attuali.
    Cos’è un popolo? Cosa sono i diritti di cittadinanza? Può una minoranza armata imporre la guerra alla maggioranza della popolazione? Quale dovrebbe essere il ruolo della diplomazia internazionale e delle sue forze d’interposizione? L’Onu, a Sarajevo, è morta per cause naturali o è stata assassinata?
    Più che all’esposizione dell’io narrante di decine d’inviati, forse il “ventennale dell’inizio dell’assedio” (ma non si celebrava la fine, piuttosto che l’inizio delle guerre?) avrebbe potuto essere occasione per ragionare su questi contenuti. Intorno a noi il quadro è desolante. Alcuni dei diritti universali sanciti dalla carta delle Nazioni Unite (sui quali si fonda la condivisione del pianeta da parte della nostra specie) sono carta straccia in tutta Europa e annegano assieme ai profughi nel Mediterraneo.
    Spesso proietto foto, commentandole, in luoghi dove mi invitano a farlo. Tra questi, le scuole elementari sono sempre un posto speciale dove affrontare discorsi impegnativi. Gli esempi pratici stimolano l’immedesimazione: provate a pensare a cosa fareste a casa vostra se mancasse la luce, il gas e l’acqua. Non per poche ore, come vi sarà successo, ma per quasi quattro anni. Se non ci fosse benzina per le macchine e i cinema chiudessero e non si potesse più giocare per le strade, né andare a scuola senza correre, per evitare di essere colpiti da un cecchino o da una scheggia di granata. Se nessuno potesse lasciare la città. Di solito, a questo punto, l’attenzione è massima.
    Proietto immagini di una biblioteca bombardata come se fosse un obiettivo militare, con i suoi libri in fiamme. Parlo di oltre metà della popolazione di una nazione, costretta a trasferirsi da una parte all’altra del paese per ritrovarsi in aree più “omogenee” etnicamente, nella ricerca di una purezza mitizzata e totalmente fuori dalla realtà. Scriveva Walter Benjamin, che la violenza più grande che si può fare a un essere umano è quella di costringerlo a lasciare la sua casa, sotto la minaccia delle armi. Mostro foto di combattenti e di profughi, senza dividere le persone per “etnie” (per non fare il gioco dei nazionalisti) ma per ruoli interpretati nel corso degli avvenimenti. Racconto la loro storia come l’ho raccontata, su una linea del fronte immaginaria tra chi la guerra la fa e chi la subisce. Mostro la distruzione delle cose, degli edifici, dei ponti. Poi parlo dell’oggi, della vita che riprende, delle difficoltà, dei nuovi ricchi e dei sempre più poveri, dell’intreccio tra affari e potere e della corruzione (su questo nessuno si sorprende più di tanto). A volte si tratta di memorie contrapposte, ma è meglio così che cercare di costruire una cosiddetta “memoria condivisa” che sa di regime (le istituzioni devono essere condivise, non necessariamente le memorie, che rimangono irriducibilmente private).»

    Testo di Mario Boccia – all’intervento segue uno straordinario reportage fotografico, che l’autore ha realizzato durante i terribili mesi dell’assedio. Boccia è poi tornato a cercare le persone incontrate e ritratte in quei giorni di martirio della città, scoprendo che alcune di loro non ce l’avevano fatta. – pp. 45-53    

Rosen von Sarajevo
        Eine Rose von Sarajevo markiert den Ort, an dem ein Mensch durch einen Mörser starb.

        Rosen von Sarajevo nennt man eine bestimmte Form von Gedenkstätten im Straßenbild Sarajevos, der Hauptstadt Bosnien-Herzegowinas, die im Bosnienkrieg mehrere Jahre lang von serbischen Truppen belagert wurde und unter Artilleriebeschuss stand, wobei zahlreiche Zivilisten ums Leben kamen. Im Schnitt schlugen täglich rund 300 Geschosse in Sarajevo ein. Die Einschläge von Granaten haben auf dem Asphalt Spuren hinterlassen, deren Form vage an eine Blume erinnert. Die Bewohner von Sarajevo haben die Krater mit rotem Harz markiert, um daran zu erinnern, dass an dieser Stelle ein Mensch zu Tode kam.
        Quelle:
            Wera Reusch: Die Rosen von Sarajevo. Elf Jahre nach Kriegsende ist das Land noch tief gespalten. In: amnesty journal. November 2006, S. 30–31.
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        The Siege of Sarajevo was the longest siege of a capital city in the history of modern warfare.[7] After being initially besieged by the forces of the Yugoslav People's Army, Sarajevo, the capital of Bosnia and Herzegovina, was besieged by Bosnian Serb forces of the Republika Srpska from 5 April 1992 to 29 February 1996 during the Bosnian War. The siege lasted three times longer than the Siege of Stalingrad and a year longer than the Siege of Leningrad.[8]

        After Bosnia and Herzegovina had declared independence from Yugoslavia, the Serbs—whose strategic goal was to create a new Bosnian Serb State of Republika Srpska (RS) that would include parts of Bosnian territory[9]—encircled Sarajevo with a siege force of 18,000[4] stationed in the surrounding hills. From there they assaulted the city with weapons that included artillery, mortars, tanks, anti-aircraft guns, heavy machine-guns, multiple rocket launchers, rocket-launched aircraft bombs and sniper rifles.[4] From 2 May 1992, the Serbs blockaded the city. The Bosnian government defence forces inside the besieged city were poorly equipped and unable to break the siege.

        It is estimated that nearly 12,000 civilians were killed or went missing in the city, including over 1,500 children. An additional 56,000 people were wounded, including nearly 15,000 children.[6] The 1991 census indicates that before the siege the city and its surrounding areas had a population of 525,980. There are estimates that prior to the siege the population in the city proper was 435,000. The current estimates of the number of persons living in Sarajevo range from between 300,000 to 380,000.[6]

        After the war, the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) convicted three Serb officials for numerous crimes against humanity for the siege. Stanislav Galić[10] and Dragomir Milošević[11] were sentenced to life imprisonment and 29 years imprisonment respectively, while Momčilo Perišić was sentenced to 27 years.[12] One of the 11 indictments against Radovan Karadžić, the former president of the Republika Srpska, is for the siege.[13] In the case against Stanislav Galić, the prosecution alleged in an opening statement that:

            The siege of Sarajevo, as it came to be popularly known, was an episode of such notoriety in the conflict in the former Yugoslavia that one must go back to World War II to find a parallel in European history. Not since then had a professional army conducted a campaign of unrelenting violence against the inhabitants of a European city so as to reduce them to a state of medieval deprivation in which they were in constant fear of death. In the period covered in this Indictment, there was nowhere safe for a Sarajevan, not at home, at school, in a hospital, from deliberate attack.

            — Prosecution Opening Statement, ICTY vs Stanislav Galić, 2003

        wikipedia.en:
        http://en.wikipedia.org/wiki/Siege_of_Sarajevo


               
The Berlin Blockade was an attempt by the Soviet Union to block Allied access to the German city of Berlin in 1948 and 1949. Ultimately, the Berlin Blockade turned out to be a total political failure for the Soviet Union, and the West managed to turn it into a major victory. This event was one of the first major conflicts of the Cold War, and the lessons of the Berlin Blockade were kept in mind during future episodes of tension between the Soviet Union and the Western world.

        After the Second World War, Germany was split up among the Allies, with the French, Americans, British, and Russians each controlling a section of Germany. The city of Berlin was located in East Germany, the section controlled by the Soviet Union, but Berlin was deemed so important politically that it was split into miniature administrative districts, ensuring that the Allies had a presence in Berlin.

        However, being surrounded by East Germany left the Western-occupied sections of Berlin very vulnerable. In June 1948, Allied efforts to produce a unified currency for West Germany triggered alarm in the Soviet Union, and officials decided to block all access to Berlin, in the hopes of forcing the Allies to give them more control of the city. Essentially, the Soviet Union planned to starve the city in order to coerce the West into capitulating.
        Berlin appelliert an die Welt
        Stimmung zuversichtlich, aber Unterstützung notwendig

        Berlin - Die Berliner sind - wenn gleich nach der Einführung der Deutschen Mark in den Westsektoren etwas zuversichtlicher - doch der Überzeugung, daß das Schicksal ihrer Stadt von der Unterstützung abhängt, die die westliche Welt in der nächsten Zeit Berlin gewähren wird. Der Magistrat hat dementsprechend am 25. Juni beschlossen, die Vereinten Nationen um eine Stellungnahme zur Situation in Berlin zu bitten. Exponenten der Stadtverwaltung äußerten hierzu, die gegenwärtige Lage in Berlin sei als so ernst anzusehen, daß der Magistrat zu diesem letzten ihm zur Verfügung stehenden Mittel habe greifen müssen. Der Appell an die UN soll am 28. Juni formuliert und, wie DPD berichtet, durch "eine auswärtige Macht" nach Lake Succes weitergeleitet werden. Außerdem erließ die stärkste Partei Berlins, die SPD, einen "Aufruf an die Welt" in dem es heißt: "Eisern und entschlossen steht die Berliner Bevölkerung seit drei Jahren als Abwehrwall gegen den neuen Totalitarismus". Nunmehr könnte der Zeitpunkt kommen, wo der Wille und die Kraft der Berliner nicht mehr ausreichen. "Die Freiheit und das nackte Leben hängen Jet von der aktiven Unterstützung der demokratischen Welt ab."

        Maßgebende Berliner Politiker äußerten am Wochenende, daß sich die entscheidenden Auseinandersetzungen über das Schicksal Berlins nunmehr wahrscheinlich auf eine höhere Ebene - zum Beispiel auf einem Notenaustausch zwischen Washington und Moskau - verlagern würden. Die bisherigen Versuche der SED und der sowjetischen Besatzungsmacht, die Bevölkerung durch Schikanen und Drangsalierungen umzustimmen, seien als gescheitert anzusehen. Die nächsten Wochen würden, so meint man in diesem Kreisen, eine endgültige Klärung bringen.

        Auf der SPD-Kundgebung im französischen Sektor vor 70 000 Berlinern, auf der der "Aufruf an die Welt" verkündet wurde, wies Berlins gewählter, durch ein sowjetisches Veto aber nicht bestätigter Oberbürgermeister, Professor Ernst Reuter, darauf hin, daß die Durchführung des sowjetischen Befehls, ganz Berlin in die Ostwährungsreform einzubeziehen, andere einseitige Anordnungen dieser Macht nach sich ziehen würde. "Dann gibt es auf der schiefen Ebene kein Halten mehr. Dann gibt es nur noch Befehlen und Gehorchen, und im Hintergrund stehen wieder unsere alten Bekannten" Gefängnisse und KZ's." Was durch die Rollkommandos der Kommunisten, die - wie bereits berichtet - die Sitzung des Berliner Parlaments am 23. Juni störten, nicht habe erreicht werden können werden können, sollte jetzt durch die gegen alle Berliner in Anwendung gebrachte sowjetische Hungerpeitsche erzwungen werden. Die Sperrung der Elektrizitätsversorgung und der Lebensmitteltransporte für die Westsektoren sei der erste Schritt des brutalen Machtwillens der SED und der hinter ihr stehenden Kräfte.

        Erich Ollenhauer, der für den erkrankten Vorsitzenden der SPD, Dr. Kurt Schumacher, in Berlin weilte, betonte, daß Berlin Beweise des Vertrauens der demokratischen Welt durch Taten brauche. Es sei ein "hoher Einsatz der Alliierten für diese Stadt notwendig". Nach seiner Rückkehr in die Westzonen meinte Ollenhauer, daß das, was sich gegenwärtig in Berlin abspiele, das entscheidendste und einschneidendste Ereignis seit dem Zusammenbruch sei. Es müsse deutlich gesagt werden, daß diese Ereignisse nicht nur einen Kampf um Berlin, sondern einen Kampf um ganz Deutschland darstellen. Ollenhauer hob die vorbildliche Haltung der Berliner hervor, die entschlossen seien, für ihre demokratischen und freiheitlichen Ideale die größten Opfer zu bringen. Er sei auf Grund seiner Unterredungen mit maßgeblichen britischen und amerikanischen Stellen überzeugt, daß "die Westmächte alles unternehmen werden, um Berlin zu halten".

        Nach Auffassung unbeteiligter politischer Beobachter verdient die Haltung der Berliner Stadtverordneten gegenüber dem kommunistischen Mob in der letzten Stadtverordnetensitzung besondere Beachtung. Obwohl die Abgeordneten tätlich angegriffen wurden, hätten sie keinen Augenblick ihre Haltung verloren. Verschiedene Stadtverordnete wurden unter Rufen wie "Volksverräter", "du mußt nochmal ins KZ, du hast nichts hinzugelernt", mißhandelt und an der Abfahrt gehindert. Trotzdem machten die Abgeordneten nicht den Versuch, die auf Befehl ihrer kommunistischen Vorgesetzten passive Polizei zum Vorgehen gegen die Demonstranten zu veranlassen.

        Am nächsten Tage schrieb dann das Zentralorgan der SED, "Neues Deutschland", zu den Angriffen des organisierten Pöbels: "Das war Demokratie!"

        Quelle: Die Neue Zeitung
        Schlagwörter: Verkehr, Geschichte, Politik, Teilung, Sektor, Blockade, Appell, Reuter, UN, Vereinten Nationen, Verkehrswerkstatt, Berlin, Deutschland
        Aktualisiert am: 06.02.2006
        Zeitungsartikel URL

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Blockade und Luftbrücke
1948/ 1949

Hans-Norbert Burkert, Christoph Hamann (Hrsg.)
BIL (Berliner Institut für Lehrerfort und weiterbildung und Schulentwicklung)
Druckhaus Hentrich, Berlin 1998

Ernst Reuter während der Rede vor dem Reichstag ©

Rede auf der Protestkundebung vor dem Reichstagsgebäude am 9. September 1948 gegen  die Vertribung der Stadtverordnetenversammlung aus dem Ostsektor (Auszug)

«Wenn wir darum heute in dieser Stunde die Welt rufen, so tun wir es, weil wir wissen, daß die Kraft unseres Volkes der Boden ist, auf dem wir groß geworden sind und größer und stärker werden, bis die Macht der Finsternis zerbrochen und zerschlagen sein wird. Und diesen Tag werden wir an dieser Stelle, vor unserem alten Reichstag mit seiner stolzen Inschrift “Dem Deutschen Volke”, erleben und werden ihn feiern mit dem stolzen Bewußtsein, daß wir ihn in Kümmernissen und Nöten, in Mühsal und Elend, aber mit standhafter Ausdauer herbeigeführt haben. Wenn dieser Tag zu uns kommen wird, der Tag des Sieges, der Tag der Freiheit, an dem die Welt erkennen wird, daß dieses deutsche Volk neu geworden, neu gewandelt und neu gewachsen, ein freies, mündiges, stolzes, seines Wertes und seiner Kraft bewußtes Volk geworden ist, das im Bunde gleicher und freier Völker das Recht hat, sein Wort mitzusprechen, dann werden unsere Züge wieder fahren nicht nur nach Helmstedt, sie werden fahren nach München, nach Frankurt, Dresden, Leipzig, sie werden fahren nach Breslau und Stettin.»

(Beifall)

[…]


«Ihr Völker der Welt, ihr Völker in Amerika, in England, in Frankreich, in Italien! Schaut auf diese Stadt und erkennt, daß ihr diese Stadt und dieses Volk nicht preisgeben dürft und nicht preisgeben könnt! Es gibt nur eine Möglischkeit für uns alle: gemeinsam so lange zusammenzustehen, bis dieser Kampf gewonnen, bis dieser Kampf endlich durch den Sieg über die Feinde, durch den Sieg über die Macht der Finsternis besiegelt ist.
Das Volk von Berlin hat gesprochen. Wir haben unsere Pflicht getan, und wir werden unsere Pflicht weiter tun. Völker der Welt! Tut auch ihr eure Pflicht und helft uns in der Zeit, die vor uns steht, nicht nur mit dem Dröhnen eurer Flugzeuge, nicht nur mit den Transportmöglichkeiten, die hier hierschafft, sondern mit dem stadhaften und unzerstörbaren Einstehen für die gemeinsamen Ideale, die allein unsere Zukunft und die auch allein eure Zukunft sichern können. Völker der Welt, schaut auf Berlin! Und Volk von Berlin, sei dessen gewiß, diesen Kampf, den wollen, diesen Kampf, den wollen, diesen Kampf, den werden wir gewinnen!»

Blockade und Luftbrücke cover ©

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