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14 aprile 2015

L'esperienza di scrivere e tradurre


GoyaMurió la Verdad - Truth has died 

Desidero segnalare due scritti che mi sono stati recentemente richiesti da persone occupate da anni nella divulgazione culturale, delle quali ho molta stima. 
In uno, prendendo spunto dalla mia ultima pubblicazione dedicata alle prose memoriali di Else Lasker-Schüler, torno a parlare dell’esperienza di tradurre dal tedesco, argomento peraltro già toccato abbastanza diffusamente in occasione dello scambio con Paolo Zignani, al quale accennai non molto tempo fa nel corso di una sua intervista. La poetica schüleriana è anche un ponte per parlare di un altro tema amatissimo, quello della Kindheit nella letteratura tedesca.
Nell’altro ripropongo due mie vecchie prose, la cui stesura risale al 2010, dove ho inteso cimentarmi nel vortice linguistico del Finnegans di Joyce e della sua versione italiana, genialmente condotta dal compianto Luigi Schenoni. L’inaspettato interesse di Alibi Rivista per la scrittura dello Slum pastiche ha fatto sì che ripensassi a quell’esperimento, percorrendo di nuovo le più che bizzarre tappe della sua genesi. Ne do qui un assaggio, per il resto rimandando al numero elettronico. Alibi è una tra le più interessanti officine letterarie in cui mi sia capitato di entrare. Il collettivo, nella persona di Ciro Maiello, sarà presto mio ospite su queste pagine per parlare del progetto.

Su «Helios Magazine» - gennaio 2015 - racconto brevemente la mia esperienza di traduttrice e di come ho iniziato ad avvicinarmi alla letteratura tedesca. Per motivi di spazio non è stato possibile pubblicare tutto il mio intervento che riporto in versione integrale qui di seguito. Grazie a Kreszenzia Daniela Geher, autrice del pezzo, e a Pino Rotta, direttore di Helios, per avermi richiesto questo contributo: 

 «Ho cominciato a occuparmi di cultura tedesca prima di laurearmi in lettere antiche, quindi parliamo circa del 2006. Di formazione sono una classicista ma a metà del mio corso universitario ho avvertito che lo studio del latino e del greco non mi appagava completamente. Mi sono così indirizzata all’ambito storico e antropologico, e in questa ricerca piuttosto eclettica ho coltivato le lingue moderne, soprattutto inglese e tedesco. Mentre l’inglese era per me una via assai più comoda, avendolo frequentato per quasi dieci anni, il tedesco è stato un salto nel vuoto. La sua scoperta è avvenuta precisamente attraverso una prima breve collaborazione con un’equipe internazionale di studiosi, fisici per lo più, che si muovevano tra l’università di Roma e un istituto abruzzese, per i quali ho svolto le mie prime traduzioni, e in seguito nei panni di segretaria di un professore della FU di Berlino. Nei momenti di pausa mi capitava di leggere Schiller, Hölderlin, Novalis, o che mi fossero letti in lingua originale. Si è trattato di una folgorazione. Da allora la mia curiosità per la lingua e la letteratura tedesca non è più venuta meno. Avevo finalmente trovato quello che da tempo stavo cercando e che mi è alquanto difficile spiegare: il tedesco veicolava un insieme di temi, accenti, sottili alchimie che ogni volta rafforzavano, limavano, davano profondità all’italiano. Un ponte era stato gettato e su di esso correva una sintesi culturale che calzava alla perfezione con i miei interessi. Dalle voci di poeti e prosatori dell’Ottocento e Novecento tedesco affioravano stimoli continui al mio percorso di studi e scrittura. Vi sono stati poi diversi viaggi in Germania. Compiuti i corsi linguistici di rito mi sono tuttavia allontanata decisamente, sebbene anche per ragioni indipendenti dalla mia volontà, dai protocolli accademici: il che ha comportato anche qualche problema. Avendo viaggiato in solitaria e per lo più senza incarichi posso fare la seguente riflessione che mi deriva da esperienza diretta: è difficile oggi essere letterati sul campo, cioè comportarsi come gli autori del secolo scorso, dei quali ci stiamo occupando in questa discussione. Queste persone formavano gruppi, avevano luoghi di aggregazione, si confrontavano, anche con animosità, vivevano la letteratura a trecentosessanta gradi. Parigi, Berlino, Monaco erano capitali della cultura perché tutto lì raggiungeva in pochissimi istanti la temperatura di fusione, e molto di quanto vi si faceva e diceva aveva ricadute creative. Adesso, benché si parli ovunque di fermento, e anch’io nei miei interventi in un passato non troppo lontano abbia sostenuto ciò, mi pare che in realtà si abbia molta più propensione al commercio che alla sostanza, pure in ambito artistico, che ci si atteggi a qualcosa prima ancora di esserne veramente investiti e partecipi. Gli spazi – e in una metropoli contemporanea questo diviene lampante – sono destinati a un’immediatezza di fruizione e consumo. Quel che resta nella sfera della cultura è a sua volta inquadrato nella settorialità, nello specialismo accademico, cioè in un meccanismo che è applicazione, che finisce per tradursi fin troppo spesso in uno sguardo parziale, estremamente frantumato. Mentre tale atteggiamento, sebbene solo in maniera limitata, trova ancora in ambito scientifico qualche punto di convergenza funzionale, mi si passi l’espressione, per chi si occupa di discipline umanistiche rappresenta la catastrofe. 
Poco, pochissimo dunque rimane a disposizione del gioco letterario.
Gli autori tedeschi amano e analizzano il tema della Kindheit, in quanto metafora potente della disgregazione del mondo. Da un lato il ricordo di un tutto sensibile e affettivo, un’utopia per certi versi, all’opposto la realtà stringente che in una mano agita il progresso e con l’altra sparge i drammi della storia. E la Germania del primo Novecento è per l’appunto il luogo della deflagrazione. Certo, il clima politico e sociale tedesco, e si consideri in tal senso anche la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, ha contribuito non poco a tenere a battesimo presso i letterati mitteleuropei una simile poetica. Pensiamo a Walter Benjamin nella prosa e a Rainer Maria Rilke in poesia. In entrambi l’infanzia è un polo magnetico, attorno al quale si addensa una vera e propria epica del disincanto.
A livello personale esplorare, letteralmente per mano a questi autori, la faglia che li ha portati a una simile elaborazione, lo ritengo più che necessario. La mia ricerca, condotta nelle difficoltà, perfino nella discontinuità di cui dicevo, è motivata da una sorta di duplice bisogno conoscitivo e creativo. Le due cose non dovrebbero soccombere all’antitesi meccanicistica dei tempi.
La figura di Else Lasker-Schüler, nella cui anima molte sono le fratture che si aprono, ha speso la sua esistenza tentando di recuperare quell’unità di significato che gli eventi le avevano sottratto. E non è un caso che per raggiungere la propria meta abbia scelto due vie, tra loro contigue. La prima, il gioco letterario, perché la letteratura è di per sé giocosa, implica il coinvolgimento di maschere, l’invenzione, la riscrittura di senso che lei spinge talvolta all’estremo, fino a una ridondanza esasperata e disperata insieme. Da questo punto di vista il pittore Franz Marc ne è stato forse l’interprete migliore, e non sorprende che i due abbiano intrecciato un dialogo di profonda sintonia artistica. 
La seconda via, il recupero del volto dell’infanzia trascorsa nella grande casa natale di Elberfeld, circondata dal calore dei familiari, perché lì si sono addensate quelle suggestioni, quelle impercettibili cadenze, quelle fragilità visionarie destinate a divenire il termine di paragone di tutto il suo esercizio poetico».


Breve nota allo Slum pastiche su «Alibi Rivista» numero 9, aprile 2015

«Queste due prose risalgono a un periodo di sperimentazione. Era il 2010 e mi stavo avvicinando al Finnegans non senza provare di fronte a quella lingua tortuosa, improbabile eppure perfetta, un senso di confusione, che non è esagerato definire quasi di malessere. Ma a ogni lettura mi capitava anche di assaporare la beatitudine dello stare davanti al prodigio delle parole sorprese nel loro stadio più selvatico. Nel suo ultimo capolavoro Joyce si limita ad assecondarne i capricci musicali, null’altro. Il genio di Schenoni traduttore, purtroppo precocemente scomparso, ne ha fatto una costola meravigliosa, una zattera buttata sulle rapide della creazione verbale e della sua traslazione fantastica. Ma né Joyce né il suo magnifico interprete italiano hanno certo esaurito la materia. Finnegans è una di quelle opere, come Pinocchio, che contengono il principio dell’“uno nessuno centomila”, sfogliarle non è un atto privo di conseguenze; implica una metamorfosi che dal lettore rimbalza nel testo originale.
I miei scritti sono niente più che un divertissement, suggerito dalla volontà ludica – e che altro è la letteratura se non un gioco? – di fissare con immediatezza in che modo il dettato dello scrittore irlandese stava radicandosi dentro di me. Ecco il motivo per cui vi si trovano non solo citazioni dalla ‘tabula’ joyciana ma anche elementi che in maniera più o meno scoperta ammiccano ai miti e alle figure della scomposizione (Osiride, Dioniso, l’asino di Apuleio). Il tutto calato in un impasto linguistico che attinge a fonti tra loro molto lontane (le lingue antiche, i dialetti meridionali, soprattutto il calabrese e il siciliano – ma si dovrebbe pur sempre parlare di lingue – e le lingue moderne), sovrapponendo cadenze, indovinelli semantici, collisioni fonetiche ai limiti del possibile. Da qui il titolo che si può rendere in italiano come “pasticcio catapecchia”».

(Di Claudia Ciardi)


Marginalia on James Joyce's Finnegans

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