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30 maggio 2015

Il racconto dei racconti



Titolo: Il racconto dei racconti
Regia: Matteo Garrone
Interpreti: Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly, Alba Rohrwacher, Massimo Ceccherini, Shirley Henderson, Stacy Martin, Hayley Carmichael, Bebe Cave, Guillaume Delaunay, Christian Lees, Jonah Lees, Laura Pizzirani, Renato Scarpa, Kathryn Hunter, Franco Pistoni 
Genere: fantasy, storico
Durata: 128 min. 
Anno: 2015


«Die ewige Strömung
reißt durch beide Bereiche alle Alter
immer mit sich und übertönt sie in beiden»

«L’eterno fluire
fra i due regni tutte le età trascina
sempre con sé e in rumore li sovrasta».

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Prima elegia


I versi di Rilke si prestano molto bene a introdurre l’affascinante lavoro di Matteo Garrone che porta con merito sullo schermo cinematografico una trama complessa, dove il tempo della fiaba costringe amore e morte a un testa a testa serratissimo, dai risvolti ora macabri ora grotteschi senza che però vada smarrito il legame con la vita. Vi è anzi una corda tesa che intreccia costantemente i due poli del fantastico e del reale – del resto il cammino del funambolo sulla corda compare due volte, e la seconda proprio a conclusione del film, immagine di profonda valenza simbolica che sancisce lo scioglimento della vicenda nei suoi passi e contrappassi. Fonte d’ispirazione è Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, raccolta di cinquanta fiabe sul modello del Decameron boccacciano edite a Napoli tra il 1634 e il ’36. 
La riduzione filmica dell’opera di Basile è tutt’altro che semplice e Garrone esce dalla prova con disinvoltura, preservando la forza narrativa dell’originale e allo stesso tempo restituendo al fantasy italiano una posizione di rilievo sulla scena internazionale. E tuttavia parlare di fantasy tout court potrebbe essere riduttivo, perché il regista ha inteso qui mischiare i generi, giocando sul filo delle citazioni ma pure rivisitando in maniera personale la sintassi del fiabesco. Se da una parte affiorano non poche venature da La strada e Casanova di Fellini, o la caciara comico-paradossale di L’armata Brancaleone di Monicelli, la malinconica sfrenatezza del Pinocchio di Comencini e perfino le ritmiche di certi cortometraggi pasoliniani, Garrone sa imprimere la sua cifra creativa e mostra di tenere insieme la materia senza difficoltà.
Basile, in tal senso, gli offre un assist perfetto. Il filo conduttore è già nella sua scrittura e si dipana per tutte le novelle; un ragionamento sull’amore e la natura dei rapporti umani – filiale, fraterno e d’amicizia – che diviene specchio potente dell’esistenza. In ciò il narratore napoletano è anche straordinario precursore di tutti gli altri grandi che dopo di lui percorreranno il cammino della fiaba, da Perrault ai Grimm. Quanto nel sottotitolo della raccolta si legge “lo trattenemiento de peccerille”, va piuttosto interpretato come formula ampia al riparo della quale troviamo quell’umanità bambina che non cessa di esistere nell’adulto. Che non sia una lettura per i più piccoli, di certo non destinata a loro soltanto, è chiaro dai toni narrativi crudi, quando non di aperta violenza – anche se è vero che nei secoli passati l’atteggiamento dei grandi verso i bambini era assai differente dal nostro. Se si prende una fiaba come Cappuccetto rosso, nella sua versione originale – quella di Perrault per intendersi – ci stupiamo forse che manchi del lieto fine a noi noto; eppure proprio la figura salvifica del cacciatore impedisce al racconto di essere monito contro pericoli.       
Lavoro di delicato equilibrismo e metamorfosi, si diceva. Garrone tiene fede anche ai risvolti più lugubri e il suo amalgama regge a meraviglia. Il cavo resta teso tra i personaggi, le scene ruotano, trapassano, cambiano pelle – altra sconvolgente metafora tratta da Basile – ma non vi sono sbavature né divagazioni narcisistiche (e il rischio in questo genere è sempre dietro l’angolo). 
Bellezze preraffaelite, atmosfere gotiche, e tanti tributi al mondo circense, altro universo liminale che con la fiaba condivide sfondi e umori. Il merito di Garrone, lo ripetiamo, è stato di svincolarsi dai clichés. Nel bene e nel male il fantastico ha un marchio di fabbrica ben preciso, riconoscibile nei capolavori disneyani. Un fenomeno che ha alimentato una vera e propria letteratura cinematografica ma anche, in conseguenza, un appiattimento del genere. Per fare un esempio, mi viene in mente come Michael Ende, figlio del pittore surrealista tedesco Edgar Ende e autore del celebre libro per ragazzi La storia infinita, disapprovò la pellicola tratta dalla sua opera, cosa che non ha tuttavia impedito al film di divenire un cult degli anni Ottanta. Rientra forse un po’ nel gioco delle parti la polemica tra chi scrive e chi sta dietro la macchina da presa, ma Ende fu effettivamente infastidito dalla resa a suo dire dozzinale, quasi da luna park di Las Vegas, di dettagli a cui desiderava fosse attribuita una rappresentazione più profonda. 
Insomma, difficile dare spazio a un linguaggio personale quando il campo è occupato dalla standardizzazione. Invece, pure su un terreno così insidioso il nostro regista si è mosso bene e il risultato consiste in due ore filate di spettacolo, veloce intenso labirintico che impediscono al pubblico di distrarsi. Star del cinema mondiale in un’ambientazione tutta italiana hanno contribuito all’impresa  (molti castelli da Donnafugata in Sicilia a Roccascalegna in Abruzzo, a Castel del Monte in Puglia – residenza meridionale di Federico II; e alcuni paesaggi di onirico splendore, dal bosco del Sasseto in Lazio agli insediamenti rupestri di Gravina di Petruscio, a Mottola, in Puglia, alle Vie Cave di Grosseto). 
Per concludere, Garrone non si è sottratto alle contaminazioni tematiche e di stile che i racconti orali recano in sé, da cui derivano le fiabe messe per scritto nel corso dei secoli da alcuni tra i più singolari ingegni europei. Non sterilizza per così dire l’oggetto del suo lavoro, ma lascia che si dipani secondo le sue attitudini. Prendendosi i rischi di una scelta simile, rivelatasi felice, il regista fa affiorare davanti ai nostri occhi le profonde stratificazioni che sono alla base di un contenitore così complesso, e ci permette pur attraverso uno strumento moderno, qual è la tecnica cinematografica, di cogliere l’essenzialità primitiva del taglio mitico su cui il film si regge.

(Di Claudia Ciardi)





24 maggio 2015

Dal Karakorum a Sarajevo



Non è un’avventura conosciuta dal largo pubblico, eppure ha avuto un notevole valore tanto che ancora oggi chi per motivi di ricerca si addentra nell’Asia profonda, non può prescindere dalle monumentali relazioni frutto di quell’esperienza. Si tratta della missione guidata attraverso l’Himalaya da Filippo De Filippi, medico torinese ma soprattutto esploratore, con lo scopo di provvedere alla mappatura di valli, vette, ghiacciai tra l’altopiano del Tibet, l’impenetrabile Karakorum e il Turkestan cinese (oggi Xinjiang). 
Nel 2013, in concomitanza con la seconda mostra organizzata dalla Società di studi geografici di Firenze, presso cui è raccolta la maggior parte del materiale riportato dal viaggio, la casa editrice Corbaccio ha pubblicato un testo importante che ne ripercorre le tappe a cento anni dal compimento.  
Potendo contare su un finanziamento di 250.000 lire, cifra affatto indifferente per i tempi, messa a disposizione dal re e da istituti come l’Accademia dei Lincei, la Reale Società Geografica, il Governo dell’India, e la Royal Society di Londra, ente pionieristico nelle campagne di esplorazione del globo, De Filippi si imbarca a Marsiglia con la sua «compagna picciola» composta da colleghi italiani e britannici, direzione Bombay (Mumbai). Valendosi del supporto di tecnici indiani e portatori locali, questo eclettico studioso che aveva già al suo attivo importanti successi al fianco di Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, insieme al quale aveva quasi raggiunto il K2 e si era spinto fino in Alaska, ha dato vita a una vera e propria impresa. La sua è oggi considerata la prima e più grande spedizione organizzata dall’Italia. Seguiti da 200-250 portatori che dovevano sovrintendere al trasporto di 235 casse, di cui una settantina contenenti solo strumentazione scientifica, dall’agosto del 1913 al dicembre ’14, De Filippi e i suoi percorrono duemila chilometri, spesso in condizioni estreme. Il serpentone di uomini e mezzi si snodava lunghissimo nel silenzio delle valli. Durante le tappe però, la carovana sovente si divide in gruppi per motivi logistici, soprattutto per attraversare in maniera più agevole un territorio così difficile e insidioso. Gli incidenti non mancano ma anche in virtù della perizia di due guide alpine valdostane che scortavano il gruppo non vi sono perdite umane. 
Mi è capitato di vedere una volta in un documentario – e ancora mi interrogo su come l’operatore abbia saputo districarsi con la telecamera in una situazione simile – in che modo queste popolazioni attraversano i fiumi ghiacciati. In quel caso era un padre che insegnava al figlio a riconoscere, aiutandosi con indizi visivi e perfino attraverso l’olfatto, se il ghiaccio potesse tenere: il padre metteva al corrente il figlio del pericolo mortale legato a una caduta, e il ragazzino imparava a muovere con lentezza i suoi primi passi. Ora, immaginarsi come questi uomini siano riusciti, appesantiti dal bagaglio, a fare i medesimi movimenti, dà la misura della loro straordinaria tenacia.
Ma una prova ancora più difficile li attendeva, una prova che avrebbe colto tutti di sorpresa, sparigliando le carte di un progetto che stava procedendo al meglio e sembrava destinato a un clamoroso successo. È il 16 agosto del 1914, un bel pomeriggio sull’altopiano del Depsang (Tibet), De Filippi sta gustando un tè insieme ai colleghi. Nell’accampamento l’atmosfera è serena, tutto scorre secondo i piani, un’occhiata a mappe e appunti, il tempo per distendersi e ridere di qualche disavventura. Sono sulla via del ritorno e credono che la parte più complicata del viaggio sia ormai alle spalle. All’improvviso vedono avvicinarsi cinque messaggeri a cavallo, incaricati di recapitare al gruppo la corrispondenza. Le buste non promettono nulla di buono: dispacci dai comandi militari. Che diavolo sta accadendo? Le dita corrono veloci sulla carta, i gesti si fanno stranamente concitati. In Europa è scoppiata la guerra. L’Italia non è ancora coinvolta ma gli ufficiali vengono richiamati; sebbene manchino pochissime tappe alla conclusione dei lavori, i britannici devono abbandonare.
Anche tra le cime e le nevi perenni dell’Himalaya, per quanto in ritardo, è giunto l’eco degli spari di Sarajevo. Il clima tra i presenti volge al peggio, si rompe qualcosa. Questa la notazione di De Filippi: «Da ora in poi, tutto fu cambiato per noi. Privi di qualunque notizia per mesi interi, vivemmo col pensiero assillante di quello che poteva accadere nelle nostre patrie».
Il resto è la cronaca di un rientro complicato, tra sospetti, controlli di frontiera inaspriti dall’evento bellico, e un morale estremamente basso. Raggiunto il Turkestan Orientale, dove gli esploratori erano arrivati nell’autunno del ’14, il governo locale vuole controllare in maniera scrupolosa tutto il bagaglio, esigendo spiegazioni dettagliate circa gli strumenti e non mancando di chiedere se vi fosse qualcosa in grado di prevedere il destino del vecchio continente.   
La vera sfida fu in effetti rientrare in Europa. I pericoli corsi sulle vette tibetane al confronto sembravano cose da nulla. Nel Turkestan russo De Filippi è costretto a lasciare parte dei propri materiali scientifici, essendo la Russia un paese già coinvolto nelle ostilità. Non senza momenti di apprensione, attraverso Odessa, via Balcani, alla fine i nostri rimpatriano.
Ma le vicissitudini non sono ancora esaurite. Complice la lunghezza della Grande Guerra, essendo completamente cambiate le priorità del paese in quegli anni di sforzi ed enormi sacrifici, fu impossibile richiamare l’attenzione sui risultati raggiunti in Asia. Ci è voluto un secolo esatto per tirare fuori dall’oblio tutti i dati legati alle scoperte fatte lungo quell’incredibile cammino, la documentazione fotografica (circa quattromila scatti eseguiti da Cesare Antilli) e i diari di De Filippi. Dal 2008 al 2013 si può dire che sia stato finalmente reso l’onore dovuto a quegli incoscienti sognatori. 

(Di Claudia Ciardi)




Bibliography
:

Filippo De Filippi, Der Forschungreise S.K.H. des Prinzen Ludwig Amadeus von Savoyen, herzogs der Abruzzen, nach dem Eliasberge in Alaska im Jahre 1897, J. J. Weber, Leipzig, 1900.

Filippo De Filippi, I viaggiatori italiani in Asia, con proemio di Giovanni Gentile, Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma, 1934.

Filippo De Filippi, Storia della spedizione scientifica italiana in Himalaya, Karakorum, Turkestan cinese (1913 - 1914), Bologna, Nicola Zanichelli, 1924

Stefano Ardito, La grande avventura. Filippo de Filippi e la sua spedizione attraverso le montagne dell’Asia (1913-1914), Corbaccio, 2013

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Press:

  • “Karakorum. Che ci faccio io qua?” di Jacopo Pasotti su «Focus», n. 97, novembre 2014, pp. 56-61
  • “Cent’anni fa la Grande Guerra cambiò il mondo”. Supplemento di sedici pagine su «La Stampa», 16 gennaio 2014
  • “Cent’anni fa l’Italia entrava in guerra”. Speciale su «La Stampa», 24 maggio 2015 

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11 maggio 2015

Naufragio di guerra #3




La guerra da che mondo è mondo si combatte anche e soprattutto con mezzi che nulla o quasi hanno in comune con i campi di battaglia. Un giro di soldi e informazioni, se ben organizzato, è in grado di cambiare le sorti di un conflitto. La questione dello spionaggio durante la prima guerra mondiale è tutt’altro che secondaria e si può dire che l’Italia si affacci impreparata sullo scacchiere europeo anche sotto questo aspetto. Gravava sull’organizzazione la mancanza di mezzi economici oltre all’incertezza, protratta fin troppo a lungo, su chi avremmo dovuto appoggiare e chi, in conseguenza, sarebbe divenuto nostro nemico. Il giolittismo si era fatto in qualche modo garante degli interessi tedeschi in Italia, che erano estesi e ben radicati. Molti soggetti economici e quadri dirigenziali avevano remore a entrare in guerra contro la Germania per i legami con i finanziatori d’oltralpe. Prima ancora che al fronte, si combatteva con gli appalti. In un paese arretrato quale era appunto l’Italia appena unificata, gli investimenti stranieri erano vitali per sviluppare le nostre infrastrutture. La Francia aveva acquistato partecipazioni nelle società ferroviarie, investendo nel settore dei trasporti urbani e in quello immobiliare, mettendo sul tavolo un capitale di un miliardo e quattrocentotrenta milioni di franchi circa. E tuttavia è la Banca Commerciale tedesca, nata nel 1895, a veicolare una presenza assai più sostenuta e diversificata. Pensiamo che ancora nel 1914 a Roma l’appalto dei medicinali per tutti gli ospedali se lo aggiudica la società tedesca Mariland e che sempre i tedeschi ottengono concessioni per esplorare i giacimenti di mercurio del Monte Amiata. Una rete di soldi e presenze da cui sarà difficile svincolarsi anche negli anni di guerra. Più limitata, ma comunque abbastanza incisiva, l’azione economica degli austriaci, operanti nel nord Italia e sull’Adriatico per ragioni storiche. È chiaro tuttavia che gli attriti sulle terre irredente avevano fatto montare un clima sfavorevole nei confronti delle imprese di Vienna. 
Il sistema creditizio messo in piedi dai tedeschi è estremamente funzionale in quanto permette ai nostri “partner commerciali” di controllare capillarmente le attività cui si indirizza l’economia italiana. L’Istituto di credito, infatti, concede finanziamenti solo alle aziende della penisola che si impegnano a comprare materiale dalle società tedesche. Ciò comporta l’obbligo di compilazione di schede informative sugli affari societari, dati che con tutta probabilità finiscono a Berlino. La Germania non avrebbe avuto alcun motivo di entrare in guerra. La sua situazione era già assai rosea, dal punto di vista delle relazioni economiche e della sua massiccia presenza finanziaria nel Mediterraneo; le velleità coloniali di Guglielmo II, ossessionato dall’impero inglese, hanno finito per tradursi in una scelta del tutto controproducente: quello per cui si struggeva così tanto, in buona parte già lo aveva.
Da questa premessa si capisce forse un po’ meglio una delle tante vicende oscure d’Italia, che alcuni storici hanno definito il primo mistero della nostra storia nazionale. A settantadue ore dall’attentato di Sarajevo, il generale delle nostre forze armate, Alberto Pollio, viene trovato morto in una camera d’albergo a Torino. La ricostruzione è sempre stata piuttosto fumosa, accompagnata da rapporti censurati che non hanno fugato del tutto le numerose contraddizioni gravanti sulla vicenda, a partire dalle cure somministrate al generale la sera del supposto malore. Pollio soffriva di miocardite, è vero, ma il suo stato di salute non ha mai destato preoccupazione. In più, il suo accompagnatore in quella fatale circostanza, l’ufficiale Vincenzo Traniello, da allora sparisce di scena, la sua carriera è di fatto troncata. Allontanamento di un testimone scomodo?
Le frequentazioni viennesi di Pollio gli avevano causato noie e richiami da parte dei nostri vertici. In qualità di attaché militare, compito simile a quello di un agente segreto, avrebbe dovuto limitare i suoi exploits mondani ma il proprio ascendente naturale glielo impediva. Pollio a corte piaceva, così da entrare nelle grazie dello stesso Francesco Giuseppe. Tanto fa che tra un ricevimento e l’altro vi trova moglie, la giovane baronessa Eleonora Gormasz, appartenente a una delle cinquanta famiglie ebree a cui l’imperatore ha concesso il titolo nobiliare. Sebbene l’Italia rilasci subito i documenti per il nulla osta al matrimonio – non vi sono leggi che impediscano l’unione di un nostro ufficiale con una straniera, a differenza dell’Austria dove vige il divieto – le malignità contro Pollio aumentano a dismisura. La sua posizione precipita. La moglie viene additata come spia austriaca e sarà tenuta sotto controllo sempre, anche durante la guerra, quando già vedova si sospettava che continuasse a tenere relazioni con ufficiali dell’esercito austriaco – e in effetti i frequenti viaggi in Svizzera e le permanenze in alberghi di lusso di una donna che sosteneva di non avere redditi sufficienti per mantenersi, suscitano qualche dubbio. Cadorna odiava Pollio, si sentiva in competizione con lui evidentemente, e quando Giolitti, che a sua volta non nutriva alcuna fiducia in Cadorna, gli preferisce il brillante ufficiale napoletano con ottime credenziali presso gli Asburgo, il vecchio generale non riesce a trattenere la sua acredine.
Insomma, Pollio era scomodo e al momento dell’entrata in guerra sono in molti a volerlo togliere di mezzo. Come potrebbe darsi un capo di Stato Maggiore di un esercito in guerra con gli imperi centrali, sposato a un’austriaca per giunta sospettata di spionaggio? Dunque, guerra tra spie si diceva all’inizio. E l’Austria felix in ciò era molto più avanti di noi, con l’Evidenzbureau, il proprio servizio segreto che aveva avuto tutto il tempo di affinare i suoi metodi nella vasta congerie dei territori che facevano parte dell’impero. L'istituzione prende il nome dal modo di dire “Etwas in Evidenz halten” (tenere qualcosa sott’occhio), viene inaugurata nel 1850 e in Italia dimostra la sua efficacia durante le guerre di Indipendenza. La sconfitta del generale La Mamora a Custoza è in buona parte dovuta alla capacità austriaca di far circolare informazioni sballate fra i nostri. 
Ai primi di agosto del ’14, gli austriaci predispongono il rafforzamento di spie in Italia, perché sospettano la nostra adesione all’Intesa. Noi, invece, prendiamo tempo senza organizzarci, per il controspionaggio ci appoggiamo a una sezione della polizia statale, e sebbene i nostri agenti siano piuttosto solerti, mancano di pratica e finiscono per esagerare nei sospetti, creando confusione.

(Di Claudia Ciardi) 


Alcuni riferimenti citati in questa sintesi sono tratti da Roberto Giardina, 1914. La Grande Guerra. L’Italia neutrale spinta verso il conflitto, Imprimatur, 2014. Al reportage dello storico palermitano, residente dal 1986 in Germania, testo che in modo accattivante intreccia cronaca e analisi storica, dedicheremo uno dei prossimi articoli. 


In dormiveglia

Valloncello di Cima Quattro* il 6 agosto 1916

Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come le lumache nel loro guscio

Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
delle mie strade
ed io l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia 

Giuseppe Ungaretti da L’Allegria (sezione Il Porto Sepolto)

* Corrisponde all’incirca all’abitato di Poggio Terza Armata (Sdraussine in friulano, Zdravšcine in sloveno), frazione del comune di Sagrado (Gorizia), nella regione Friuli-Venezia Giulia. Si trova tra Sagrado e Savogna d’Isonzo.

Ninna nanna della guerra  (di Trilussa)

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello [*]
Farfarello e Gujermone [**]
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe [***]
che se regge co le zeppe,
co le zeppe dun impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;

che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo dassassini
che c'insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.

Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

Note:

* Uno dei diavoli dell’inferno dantesco
** Guglielmo II, l’imperatore tedesco
*** Francesco Giuseppe imperatore d’Austria





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3 maggio 2015

La via dell'arte tra oriente e occidente




Dio greco del vento, da Hadda (Gandhara, attuale Afghanistan), II secolo - Dio del vento, Grotte Kizil (Bacino del Tarim, Xinjiang, Cina), VII secolo - Fujin, Dio giapponese del vento, XVII secolo.

Prendo spunto dalla monografia La via dell’arte tra oriente e occidente a cura di Mario Bussagli per tornare a un argomento di grande rilevanza culturale, le contaminazioni che per due millenni hanno contribuito a unire due parti di mondo, di cui troppo spesso, a livello di alcune analisi desolatamente banalizzanti, si sono volute evidenziare le differenze.
Un tema che oggi peraltro, in conseguenza dell’imporsi di un punto di vista semplificato per non dire falsato, che certo finisce per essere anche il più rassicurante in virtù della sua maggiore accessibilità, vive una stagione quanto mai impopolare, ciò annidandosi proprio nella radicata inconsapevolezza delle persone, dove la politica degli etnocentrismi e dei separatismi ha buon gioco. Nel medioevo, gloriosa stagione per tutto il Mediterraneo, pur tra tensioni e conflitti, furono aperti straordinari sentieri di dialogo che per quanto riguarda l’arte italiana hanno fruttificato in esempi di rara perfezione come il romanico pisano, con le sue citazioni moresche, la cappella palatina di Palermo dipinta da artisti fatimiti, la basilica di S. Marco a Venezia, così sfacciatamente bizantina.   
Ma il Mare nostrum di allora fu anche quel bacino da cui salparono commercianti, avventurieri, esploratori diretti nella penisola anatolica, sulle vie carovaniere dell’Iran e del sud-est asiatico fino ad approdare in Cina. La paura dell’altro si accompagnava alla volontà, più forte, di mettere in contatto due mondi. L’amicizia tra Kublai Khan e Marco Polo, divenuto suo fedelissimo cortigiano, ha un valore enorme, non solo come esperienza personale che ha unito due grandi protagonisti della storia, ma come dono fatto all’umanità che in loro trova una testimonianza di durevole scambio, comprensione e fiducia incondizionata, nonostante o forse grazie alle loro differenti culture. E che dire del gesuita milanese Giuseppe Castiglione (1688-1766), alias Lang Shih-ning, considerato ancora ai giorni nostri il più grande ritrattista cinese?
Ad avvicinarsi a questi personaggi, che secoli or sono hanno messo in discussione le loro origini per abbracciare la storia di altri, si è presi da ammirazione ma anche quasi da sconcerto, ed è proprio in questo declinarsi delle nostre sensazioni che secondo me si affaccia il tarlo della cultura in cui siamo immersi, una cultura belligerante, da barricata, esclusivista, eurocentrica – nel senso peggiore e peggiorativo, che esaspera cioè e stravolge i valori occidentali e che, inevitabilmente, ci condanna all’ignoranza.
Proprio in queste stesse settimane in cui ho ripreso in mano la pubblicazione di Bussagli, mi capita di trovare altrettante interessanti considerazioni su questi temi nel bel libro L’ipocrisia dell’occidente di Franco Cardini, medievista ed esperto di cultura araba e orientale, appena uscito per Laterza. Cardini affronta il problema del fondamentalismo islamico, sgombrando il campo da non poche letture di comodo che si sono accumulate, ma sarebbe più giusto dire ingolfate, negli ultimi quindici anni (dopo l’11 settembre). Si tratta di pregiudiziali pesanti, sbandierate anche per soldi da molti cosiddetti analisti  – è apprezzabile il fatto che lo storico denunci questi meccanismi senza mezze parole e soprattutto non perdendo di vista il passato, in un confronto costante tra oggi e ciò che fu secoli fa. Le cose vengono allora riportate alle giuste proporzioni, che non sono né belle né brutte, né buone né cattive, sono quelle del tempo, dell’incontro e dello scontro che però seppe tenere vivo il fuoco della conoscenza reciproca che si scopre di natura assai diversa dalla nostra paralisi culturale. Ne riparleremo in seguito.
Quel che mi preme sottolineare è che nella storia le avventure migliori, i passi più esaltanti sono in genere accompagnati anche dalle minori limitazioni verso il mondo esterno. Nel mondo antico viene da sé guardare al progetto di Alessandro Magno che fece capitolare il Gran Re, spingendosi fino alla valle dell’Indo, sposò un principessa dell’Afghanistan (satrapia nota all’epoca col nome di Battriana) e pure dai suoi ufficiali pretese che si unissero a donne locali: si tratta delle famose nozze collettive di Susa del 324 a. C. Era guerra, certo, ma c’era anche, anzi direi soprattutto, l’idea di mischiare usi e culture. E se la vita di Alessandro Magno fosse stata più lunga? Di quali incredibili sincretismi si sarebbe fatto promotore, se già nel suo brevissimo passaggio l’ellenismo da lui diffuso è riuscito a radicarsi in maniera tanto sbalorditiva?
Sfido qualsiasi appassionato a negare di essersi posto simili domande dopo aver letto questa storia. 
Ma c’è anche il rovescio della medaglia, il fosco epilogo della spedizione di Crasso, immobiliarista ante litteram, venale, malato di potere che sfidò, lui militarmente impreparato, il modernissimo esercito dei Parti, ostinandosi a muovere le legioni romane contro le temibili formazioni di arcieri persiani, la cui tecnica di combattimento era avanti di secoli, già proiettata al medioevo. Sulla fine di Crasso pende l’orribile sentenza aurum sitisti… risuonata nelle orecchie di generazioni di studenti. 
Personalmente ammetto di aver tifato anche per Antonio e Cleopatra, e prima ancora (ma meno) per Cesare. L’apertura all’Egitto, cercata dal già anziano condottiero romano, sebbene in termini per lui strettamente utilitaristici – l’Egitto era il granaio del Mediterraneo – diviene con Antonio vero e proprio progetto politico e culturale. La vittoria di Antonio avrebbe significato spostare Roma a oriente e forse instaurare un potere più forte, più contaminato, più disponibile agli influssi esterni, più inclusivo e animato da complicità a livello di rappresentanza, di quanto non fu quello augusteo (per quanto si parli di pax e floruit letterario, ma ricordiamoci che Augusto mandò in esilio il suo poeta migliore, Ovidio, e che la sua pax fu più propaganda che realtà).
Insomma, la monografia di Bussagli incentrata sulla via dell’arte tra est e ovest, ha il merito di far riaffiorare nel lettore molti di quei momenti storici nei quali la bilancia sembrava pendere a oriente, senza che ciò significasse una preminenza di tale universo culturale sull’altra parte, bensì il pungolo a sviluppare quelle potenzialità politiche e culturali che un occidente altrimenti chiuso e ripiegato su se stesso rischiava di volgere contro di sé. Leggere il resoconto di questo storico dell’arte mi ha permesso di colmare diverse lacune e anche di tornare a interrogarmi su temi che mi hanno sempre affascinata. Considerando che la rivista in questione ha visto la luce nel 1986 fa un certo effetto trovarsi sotto gli occhi, subito dietro l’introduzione, l’immagine dei Buddha di Bamiyan, che ci guardano nelle loro millenaria perfezione investiti dal riverbero del tramonto, sotto una corona di monti innevati. La distruzione fondamentalista, dentro quello scatto, è ancora di là da venire. Adesso le foto stanno lì, anche con un certo piglio accusatorio, per noi che ora sappiamo e che, nei nostri rapporti con quel mondo, abbiamo troppo sbrigativamente abbandonato le vie millenarie che ci avevano schiuso una comunicazione, una conoscenza. Ci siamo comportati giocando a campana con la storia ma a forza di salti siamo inciampati e mentre ci rialzavamo le caselle avevano mutato di posto, non erano più le stesse.

(Di Claudia Ciardi)


La via dell’arte tra oriente e occidente. Due millenni di storia.
a cura di Mario Bussagli,
«ArteDossier», Giunti, 1986 

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