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31 agosto 2018

Dal taccuino giapponese (X)


Dal settembre 2017 al gennaio 2018, in viaggio verso la Valle Stura e Paraloup. E poi ancora la primavera in Val Chisone, sempre osservando l’incanto della Bisalta. Omaggio alle Alpi di Cuneo in una serie di schizzi e vedute finiti di elaborare questa estate. Lembi di montagne e storie di paesaggi, esplorando le poetiche del disegno.

(Di Claudia Ciardi)



Sul sentiero per Paraloup, gennaio 2018 



Le Alpi da Paraloup (Cuneo), guardando verso le Alpi marittime, 14 gennaio 2018 - uno schizzo preparatorio



Le Alpi da Paraloup (Cuneo), 14 gennaio 2018



Le Alpi dal Chiot Rosa, gennaio 2018



Le Alpi da Paraloup, 14 gennaio 2018



Le Alpi da Paraloup (Cuneo), 14 gennaio 2018



La Bisalta



La Bisalta (II)



Sul sentiero per Paraloup



L'Alpe dal Chiot Rosa


26 agosto 2018

L'antropologia letteraria di Carlo Levi


Nell’attesa di tornare a scrivere più avanti qualche considerazione sugli aspetti letterari del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, stendo intanto alcune impressioni a caldo, dopo la lettura. Romanzo autobiografico sull’esperienza da confinato, vissuta a Grassano e poi a Gagliano in Basilicata tra il 1935 e il ’36, è da considerare fra le opere maggiormente formative e dense di implicazioni nel panorama novecentesco italiano. Per quanto possa sorprendere è assai poco uno scritto politico ma più che altro un affresco sociale, un documento di ritratti e riflessioni su quel mondo contadino escluso dalla storia, vessato e perciò poverissimo, a sua volta confinato in una dimensione parallela al tempo storico che non riesce a incrociare, di cui tantomeno può sperare di divenire interprete.

Se il fascismo è il facitore del trionfo di uno statalismo piccolo borghese che non sa e non vuole integrare la classe contadina né in alcuna misura emanciparla, Levi esprime notevoli preoccupazioni per quanto sarebbe accaduto in seguito. Le macerie dello statalismo fascista si sarebbero mischiate a quelle liberali con il pericolo di una dittatura ancora più estrema, perché instaurata sottotraccia, nella quale coscientemente si sarebbe continuato a escludere gli ultimi. Qualcuno può obiettare che l’avvento dell’industrializzazione abbia cambiato i rapporti di classe. Non più un mondo contadino da integrare ma un mondo operaio che in parte ha incarnato la forzata trasformazione degli spazi rurali. Le rivendicazioni di tanti uomini avviati alla marginalità si sono trasferite dalle campagne alle città. E non a caso, nell’Italia post bellica, sono proprio tali soggetti i protagonisti dell’opera di Pasolini, in una poetica epopea dei vinti; il ragionamento sociale alla base della letteratura e dell’antropologia pasoliniane prende le mosse, io credo, dalla denuncia di Carlo Levi. Levi incide la prima pietra e intuisce che la mancata integrazione del mondo rurale avrebbe seguitato ad essere un elemento destabilizzante per qualsiasi stagione di governo successiva, come anche non si sarebbe acquisita un’autentica e pienamente rappresentata idea di Stato finché tutte le componenti sociali non vi avessero trovato giusta e degna espressione.
Di fatto le tensioni mai risolte del mondo rurale si sono trasferite solo in parte nelle lotte operaie ed entrambe, quelle scaturite da chi è rimasto impotente ad assistere all’impoverimento delle campagne e quelle veicolate da coloro che hanno cercato altrove un illusorio progresso sociale, sono confluite in un’identica conflittualità, soccombente quanto ostinata, la medesima che lo storico F. Braudel registra nelle sommosse popolari delle civiltà mediterranee tra il Cinquecento e il Seicento. È un conflitto permanente, disperato e proprio per questo longevo, che allora non aveva i connotati della lotta di classe e che solo tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento si configura come tale. Una lotta che non ha abdicato ai caratteri di una durevolezza quasi atemporale, pur essendo ogni volta costretta a tornare sui suoi passi senza che alcuna apertura nelle dirigenze statali abbia saputo sopirne le vertiginose fiammate. Tensione che, riportata ai giorni nostri, si riscopre anche negli attuali schemi politici italiani.

L’interrogativo di Carlo Levi sull’allontanamento dell’intellettuale borghese dalle istanze della massa, e dunque la sua incapacità di parlarle e interpretarne i sussulti senza voler rinunciare alla propria autoreferenzialità, alle letture di un buon senso classista che distolgono dalle possibili soluzioni, è tuttora aperto e all’origine di tanta accesa veemenza anche nelle polemiche odierne tra cosiddetto populismo e visione liberale dello status quo. Categorie che in questo momento appassionano l’intellettuale che crede di parlare al sicuro lontano dalla tempesta, mentre non si accorge che quella corrente di vendicativa esasperazione non solo lo tira dentro il conflitto – forza gravitazionale ineludibile – ma in buona parte ne ha già decretato la fine.

Proprio ora che il concetto di massa pare più fluido rispetto a ogni altra epoca, e tralasciarla o considerarla solo come astrazione significa in maggior misura far torto contemporaneamente sia alla sfera individuale sia alle possibilità del comunicarsi individuale nel collettivo. In questo inizio di millennio quelli che “non fanno storia” – i frammenti di una società rurale che ancora abitano le campagne, gli operai in cui essa si è in parte trasformata e infine gli esclusi di questi due mondi che non son riusciti a compiere le loro rivoluzioni e affollano le periferie urbane – vogliono entrare nella corrente della storia, vogliono poter dire qualcosa. Forse adesso, per la prima volta, sono loro i destinati a un tempo storico – non più semplice protesta e fiammata ma volontà di affermazione – mentre chi finora ne è stato attore e narratore rischia l’oblio.

Carlo Levi ha espresso tutto ciò un’ottantina di anni fa, e non lo ha fatto parlando di politica ma descrivendo lo stato miserabile della civiltà contadina. Uno spaccato tra i più alti che siano stati dedicati alla storia d’Italia, volume profondissimo di letteratura e antropologia, che contiene tra l’altro alcune delle pagine migliori mai scritte sulla questione meridionale. Per me il compendio assoluto degli altrettanto preziosi volumi di Ernesto de Martino, studiati durante i miei vent’anni, le cui conclusioni ho qui ritrovato in uno sguardo d’insieme, lucido e potente.  

(Di Claudia Ciardi)


24 agosto 2018

Una dimora per gli spiriti


Se Hokusai ha dedicato alla lunga ritrattistica del Monte Fuji una delle celebrazioni più alte, la sua opera si inserisce in un cammino di arti costellato da capolavori, dal lontano passato al Novecento. Nel moderno il vedutismo alla Hokusai è un inevitabile caposaldo, ma accanto al suo influsso germogliano i caratteri interpretativi di diversi artisti successivi – il più notevole da annoverare è forse Hasui Kawase – a segnare la vitalità profonda nella pittura giapponese di questo fiume sotterraneo e leggendario la cui corrente non ha mai smesso di lambire il sogno della montagna incantata.
Così recitano i versi di un poeta dell’VIII secolo: «Da quando il cielo fu separato dalla Terra, orgoglioso, nobile, divino, troneggiava il monte Fuji». Stando alle numerose pratiche dello Shintō, la religione locale che pone la natura e i suoi ritmi al centro del proprio culto, il Fuji è la dimora degli spiriti, dèi ancestrali della montagna discendenti dalla coppia che originariamente, secondo la mitologia, ha creato l’arcipelago del Giappone.
A partire dal Seicento, in epoca Edo, sotto lo shogunato Tokugawa (1603 – 1868), si sviluppò un movimento detto Fujiko nel quale gruppi di pellegrini scalavano il monte sacro come segno di devozione. Hokusai stesso li ritrae in un suggestivo bianco e nero, in fila con i caratteristici copricapi da viaggio, nella famosa tavola numero cinque delle Cento vedute del Monte Fuji. Non sorprenderà, dunque, che la montagna che poggia sul cuore dell’immaginario giapponese, non smetta di ispirare e di essere il soggetto creativo d’elezione con cui ogni artista desideri cimentarsi.


(Di Claudia Ciardi)




Pittura su rotolo in seta e tessuto - con firma e sigillo 'Kansetsu' 観雪 - "Monte Fuji", dettaglio del cratere - Giappone - ca. 1910-20 



Classico rotolo kakejiku in carta e seta dipinto a mano raffigurante paesaggio di montagna con vista sul monte Fuji. Vintage anni Quaranta in scatola originale di legno paulonia. 



Yoshiko Moon, Pittura Sumi-e del Fuji 



Yokoyama Taikan, Monte Fuji (1940), Adachi Museum of Art



Yokoyama Taikan, Lo spirito divino del Monte Fuji (1952), inchiostro e colori su seta, Yamatane Museum of Art



Hasui Kawase, Vista del Monte Fuji dal fiume (1932)



Hasui Kawase, Il Monte Fuji dal lago Shoji - Anni Trenta



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16 agosto 2018

Dal taccuino giapponese (IX)


Profili della Costa Verde in Corsica tra spiagge lunghissime, abbracciate da una brughiera straniante, e montagne che la sera si accendono di riflessi azzurri, dove riposano piccoli abitati millenari, colmi di storia e poesia. In cammino su rive e sentieri, giorno e notte, a passo lento, seguendo le pulsazioni dell’isola.

«Il viaggiatore più veloce è colui che va a piedi» Henry David Thoreau.




 Montagne corse dalla spiaggia vicino Porto Taverna, 12 agosto 2018




Montagne vicino Porto Taverna. Impressione di sera colori acquarellati su cartone, 13 agosto 2018



Dalla spiaggia vicino Porto Taverna, guardando verso Santa Maria di Poggio, 8 agosto 2018



 Ancora una veduta di Santa Maria di Poggio e le sue montagne, 8 agosto 2018



Montagne corse di sera vicino Vanga di l'Oru, 14 agosto 2018



Montagne vicino Vanga di l'Oru, guardando verso Moriani, 8 agosto 2018



Montagne corse di sera a Vanga di l'Oru - colori acquarellati - schizzo preparatorio, 8 agosto 2018



Dalla spiaggia vicino Porto Taverna, guardando verso Santa Maria di Poggio



Profili di montagne blu da Porto Taverna



Le montagne di sera a Vanga di l'Oru


*Foto di Claudia Ciardi ©