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21 dicembre 2018

Tre mostre fotografiche per Schellino - Mulas, Gabetti, Regis


«Bisogna affondare dentro il buio radici ben nere». Così Cesare Pavese sembra scrivere qui l’epigrafe perfetta di un territorio. In un anno tanto significativo per le Langhe e per gli intrecci culturali che nel tempo, con una contiguità mai sopita, vi si sono espressi, si sentono scorrere in queste parole tutti gli accenti cristallini e tetri, uniti in una mistica contrastata di spossante bellezza, di cui la provincia è intrisa. Dunque, anche la sua architettura, e ancor più quella che possiamo considerare l’architettura per eccellenza, tra eclettismo e tensioni contrarie, esorbitante e rigorosa, di Giovanni Battista Schellino. In occasione del bicentenario della nascita del grande progettista che seppe cucire nel proprio modus operandi presenze locali e, per dirla con Roberto Gabetti, «emergenze latenti» che guardavano ben al di là di quei confini, tre mostre fotografiche celebrano il suo estro creativo. Un racconto per immagini che è anche lo specchio di un lungo e proficuo percorso di studi che ha visto avvicendarsi due generazioni di architetti e storici del paesaggio a confronto con le tematiche schelliniane, gli interrogativi e le sfide ivi racchiuse.
A partire dal saggio apripista di Andreina Griseri e Roberto Gabetti, pubblicato da Einaudi nel 1973, che consacrò ufficialmente il geometra doglianese tra i grandi architetti degli ultimi due secoli, per giungere agli itinerari del Cuneo gotico di Lorenzo Mamino e Daniele Regis (2016), che a quel testo memorabile si ispirano, collocando il tratto ingegnoso e vien da dire irrisolto di Schellino in uno sfondo sentimentale di richiami che va dai beni faro alle architetture “minime” disseminate nelle campagne. Schellino fu architetto di provincia ma non provinciale, che da autodidatta inquieto alla perenne ricerca di una cadenza, di un passo da armonizzare all’ossatura del territorio col quale si confrontava, la collina, s’inventò una sintassi del tutto peculiare, irriducibile a qualsiasi schema o interpretazione definitiva. Avanzava nei suoi lavori secondo una misura proteiforme, adattandoli, perfino flettendoli di volta in volta agli ingombri, ai limiti segnati dalla tradizione. Eppure quasi sempre aggirando gli ostacoli, con soluzioni innovative, per certi versi inaspettate, quando non addirittura spiazzanti. Tornando alle pagine di Griseri-Gabetti vi si trova pienamente rappresentata questa inventiva sfuggente, colma di tensioni e richiami: «Schellino non ci diede oggetti chiari, conclusi, eleganti, ma contro ogni definizione dell’architettura, vere architetture, oggetti ricchi di contrasti e di spunti, nelle connessioni, negli indirizzi progettuali».

In questa chiave si sono allestite le tre mostre attualmente in corso a Dogliani con la curatela di Daniele Regis. Prendendo le mosse proprio da Ugo Mulas e delle appendici gabettiane dialoganti con alcuni dei prospetti di Schellino, incrociando gli Incanti ordinari di Lorenzo Mamino e Michele Pellegrino (1984), sulle tracce degli ambienti dimessi della periferia rurale monregalese, per approdare alla campagna fotografica del 1997-’98, ricordata da Carla Bartolozzi nel suo puntuale intervento di apertura della seconda sessione al convegno internazionale di Schellino dello scorso 1° dicembre. Quella campagna confluì nel volume di Daniele Regis, Giovanni Battista Schellino a Dogliani, edito da Celid nel 2006, introdotto dalla stessa Bartolozzi che così scriveva: «Una ricerca personale per aggiungere ancora una possibile interpretazione dell’architettura di Schellino, con la capacità nuova di far emergere con grande efficacia i due registri formali sui quali amava confrontarsi lo stesso Schellino: un’architettura fortemente ispirata alla tradizione gotica popolare ed una rivisitazione di temi classici». 

L’attuale esposizione presso il Ritiro della Sacra Famiglia di Dogliani, a ingresso libero fino al 5 gennaio, è stata concepita in quest’ottica. Le passate retrospettive di Mulas e Gabetti ruotano attorno al nucleo centrale delle riproduzioni tratte dall’Atlante del Cuneo gotico, a cura di Daniele Regis, già segnalato per questi scatti su diversi numeri della rivista americana «Black and White». Il visitatore viene idealmente scortato all’interno della cappella neogotica, lo stesso ambiente dove si è dato inizio ai lavori della giornata internazionale di studi con la lectio magistralis di Andrew Graham-Dixon. Qui il percorso culmina nelle sei tavole di grande formato (150x120 cm) da negativi 10x12cm agli alogenuri d’argento virate seppia tra le superfici delle paraste della chiesa in una iconografia di gusto ottocentesco. A confronto (in senso letterale, fronteggiandosi) le declinazioni neoclassiche e neogotiche delle opere di Giovanni Battista Schellino: colonne, guglie e pinnacoli. 

Queste tre mostre accompagnano l’esito delle rinnovate ricerche sull’opera del grande architetto delle Langhe, in virtù della documentazione d’archivio arricchita attraverso la recente preziosa donazione di Elisabetta Gabetti, consentendoci di abbracciare visivamente il passato degli studi su Schellino e di aprire ulteriori vie.  

(Di Claudia Ciardi)



La copertina del Neo-Gothic Cuneo, versione inglese del Cuneo gotico, edita quest'anno con prefazione di Andrew Graham-Dixon. Il volume è stato oggetto di presentazione al Convegno Internazionale di Dogliani il 1° dicembre. La giornata di studi è stata anche l'occasione per il lancio del progetto di un Centro Studi Internazionale sul Neogotico presso il Ritiro della Sacra Famiglia.   



 Una delle sei tavole di Daniele Regis in mostra. Qui lo Schellino "neoclassico" della parrocchiale dei Santi Quirico e Paolo.



Ugo Mulas. Una delle tavole dell'Atlante (Griseri-Gabetti, Einaudi, 1973).
Il Ritiro della Sacra Famiglia in alto sulla collina e la Parrocchiale dei Santi Quirico e Paolo in basso. Idealmente sono qui racchiuse tutte le coordinate dell'immaginario schelliniano.



1° dicembre 2018 - 5 gennaio 2019. A cura di Daniele Regis, presso il Ritiro della Sacra Famiglia di Dogliani.


10 dicembre 2018

La terra buona




Regia: Emanuele Caruso 
Con Lorenzo Pedrotti, Fabrizio Ferracane, Viola Sartoretto, Cristian Di Sante, Giulio Brogi. 
Genere: Drammatico 
Durata: 110 minuti
Produzione: Italia, 2018


Ambientata negli scenari selvaggi della Valle Grande, in Piemonte, estesa riserva naturale a sessanta chilometri dalla Svizzera dove non vi è traccia d’intervento umano, la seconda prova cinematografica di Emanuele Caruso non delude. Centra le aspettative già create col suo precedente lavoro, E fu sera e fu mattina, esordio del 2014 tutto girato nell’Alta Langa, sostenuto da una raccolta fondi di successo, ben compensata dagli ottimi riscontri di pubblico. Una bell’impresa ripetuta con La terra buona, narrazione poetica commovente sui tracciati di Ermanno Olmi e Giorgio Diritti, dai quali il regista attinge per affinare gli accenti della sua espressione, fra i più singolari nel panorama italiano attuale. Prendendo le mosse da una storia vera, il film esorta con delicatezza lo spettatore a riflettere su temi importanti, quali il confronto coi ritmi naturali dell’esistere, il bisogno di recuperare una dimensione spirituale autentica, l’imprescindibile necessità di raccoglimento senza la quale l’essere umano è sbilanciato, incapace di pensare, di farsi e fare del bene.
Nel quadro di un luogo all’apparenza ostico, ma subito accogliente non appena si entra in sintonia col suo respiro, si ritrovano Padre Sergio De Piccoli, monaco benedettino, che in Valle Maira, nel cuneese, ha realmente raccolto sessantamila volumi così da costituire la biblioteca più “alta” d’Europa, un terapeuta che sperimenta cure alternative per malattie terminali, una ragazza in cerca di guarigione e il suo amico d’infanzia che si offre di accompagnarla in questo difficile cammino. Mastro, il medico che non si stanca d’insegnare l’importanza del saper guarire interiormente come primo stadio di ogni terapia, e il suo aiutante Rubio, irascibile quanto concreto e geniale, si sono rifugiati da Padre Sergio perché il loro metodo è stato messo sotto accusa. Sono dei perseguitati, come lo sono, per motivi diversi, Gea e Martino, i due ragazzi che sfiniti e, quasi scacciati dal mondo, arrivano in valle. Gea, a causa della malattia, non ha quasi più risorse fisiche, ma anche la sua mente è indebolita – un rapporto complicato col padre scomparso recentemente e che dunque non è più recuperabile, la consuma anche più del suo male. Martino, che viene pure lui da Roma, come Gea, si sente altrettanto masticato e rigurgitato dalla metropoli dove non ha saputo realizzarsi sul piano economico e dov’è è costretto a guardare in faccia i suoi fallimenti. Fatica però a prendere coscienza di questa condizione, e perfino la sua nevrosi gli sfugge, attribuendola solo a quel che si trova a subire, come fosse qualcosa di esterno alla sua vita. La montagna lo aiuta lentamente a riconoscere se stesso, a riappropriarsi di un dialogo con quella parte della sua persona ammalata che nella fragilità, nel disadattamento continuo alle precedenti situazioni che ha attraversato, avrebbe voluto costringerlo a fermarsi. Ci riusciranno i silenzi e gli sguardi di padre Sergio, l’umile e umana comprensione di Gianmaria, il suo aiutante, il confronto con Mastro e quell’antro meraviglioso pieno di libri e di sogni, fiorito come per incanto in mezzo alle nuvole, in cui si trova all’improvviso catapultato.
È per certi versi una fiaba alchemica orientata alle energie che uomini e cose sono in grado di emanare; una ricerca dubitante nella quale interiore ed esteriore s’intersecano, generando materia vitale e inaspettate trasformazioni. È anche la storia di come i destini di queste persone vengano scossi inevitabilmente dal mondo esterno o estraneo, che non rimane certo quieto, relegato nella sua lontananza, ma risale a cercarli, esigendo da loro una presa di posizione, chi davanti alla vita chi davanti alla morte, marea che incalza e che spinge per cancellare le orme appena impresse. È la storia di un microcosmica comunità di caratteri che, pur diversi e sconosciuti fra loro, riescono per un momento a trovare un equilibrio, un po’ di normalità, e in questo momentaneo amalgamarsi raggiungono un affiatamento insperato. La separazione è un epilogo inevitabile ma non viene rappresentata come un semplice lacerarsi di legami, contiene un augurio più grande e profondo scritto intorno al richiamo essenziale che ognuno ha la sua missione da compiere e perciò si va avanti, si cammina, in cerca di qualcosa che, se anche non ci è chiaro, sa farsi ascoltare tra le fibre del nostro andare, e voltargli le spalle non si può.


(Di Claudia Ciardi)



Mastro e laiutante Rubio sotto il pergolato



Una scena



Alcuni componenti del cast


26 novembre 2018

Michele Pellegrino - Una parabola fotografica


A considerarlo uno degli eventi culturali di maggior caratura in Italia per l’anno corrente non si sbaglia. Si tratta della mostra sull’opera fotografica di Michele Pellegrino, dedicata all’intera sua attività estesa per un cinquantennio, che si è tenuta a Cuneo da luglio a ottobre, nel complesso monumentale di San Francesco. Questa rassegna non è stata solo l’occasione per presentare al pubblico, in un’esposizione tematica dalle cadenze originali, una delle ricerche di fotografia tra le più articolate che abbiano fatto la loro comparsa nel panorama culturale italiano. Nel nodo di suggestioni e rimandi, configurati nei decenni, e dunque nel divenire della sensibilità di Pellegrino, al di là dell’ambito rurale della provincia da cui il suo lavoro ha preso avvio, occupa uno spazio particolare il riverbero dell’immagine catturata dall’obiettivo sulla monumentalità letteraria di Cesare Pavese. Del grande scrittore delle Langhe ricorrono infatti i centodieci anni dalla nascita, e non a caso l’allestimento è stato concepito come un doppio omaggio all’epica narrativa, l’una intrecciata in parole, l’altra costruita per ritratti, di due grandi interpreti di un mondo ormai scomparso, o quantomeno mutato in profondo. Nell’idea di Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO di Torino, Museo Arti Applicate Oggi, curatore della mostra, le frasi estrapolate dai capolavori di Pavese non dovevano essere semplice commento ma entità vive, presenze dialoganti coi quadri in bianco e nero. I due autori rappresentati hanno peraltro in comune l’esser stati costretti a misurarsi coi limiti di una catalogazione che molto ha tolto alla loro complessità. Da un lato Pellegrino, nella vulgata più superficiale, si è voluto definire “fotografo di provincia”, senza che tale appellativo abbia inteso problematizzare né attualizzare quello stesso concetto di provincia, dall’altro Pavese, nei panni di autore verista o realista, con ciò accettando che gli fosse sottratta la massiccia archetipica poesia che è il più esclusivo portato del suo ragionare sulle cose del mondo. Un occultamento similare lo si riscontra in Carlo Levi, le cui implicazioni vanno in scia a questa epica dei vinti, degli esclusi, di coloro che non fanno storia, pure in una dimensione che esce dalla contingenza politica e produce cerchi concentrici nello stagno delle epoche umane, oltre il tema della storia, perfino oltre il tempo. Anche per Levi, e per la sua produzione pittorica soprattutto, tanto che molti si sorprendono a scoprire le sue tele di cui non sospettavano minimamente l’esistenza, la fama di neorealista ha eluso, se non altro appiattito, il messaggio da lui affidato ai propri esiti creativi.       
Se la provincia non è un cosmo chiuso, quindi neppure statico, la fotografia di Michele Pellegrino diviene tabula synchronica, immersa nel momento dello scatto ma insieme proiettata al di fuori e al di là dei suoi confini spazio-temporali, simulacro aggettante, mutevole, elemento sul quale si addensano le eco delle generazioni e di una proteiforme presenza. L’ambiente di cui parla è dunque soggetto umbratile, sfuggente, figura dai contorni mitologici precipitata nei magli di un processo industriale che le aveva promesso di emanciparsi, progredire, conservarsi nel cammino della storia, per consegnarla invece, crudamente spossessata, a un muto risveglio.
Anche in contrasto a questa illusione di progresso, dopo gli anni Settanta, Pellegrino sfuma la persona umana, indirizzandosi all’umano del paesaggio o al fenomeno del misticismo: le amate montagne, le “nitide vette”, la Langa, le “ninfe idriadi”, la “madre mediterranea”, parabole spirituali, volontà di ascesi. Simboli, archetipi, sintomi di una natura estrema, inquieta, talora tenebrosa, che nella sua vastità inabitata rimanda pur vagamente a una presenza in riflesso, a una possibilità dell’esserci il cui sguardo su quell’immensità, leopardianamente, si posa e annega. C’è un primitivismo medievale e metafisico fra queste scaglie di luci e ombre, profili gotici, frammenti di allegorie giocati sui ritmi di un’affabulazione altra, diversa dal documento antropologico di Ugo Pellis e già più vicina ai nodi dell’epos paesano di Pepi Merisio.
Lungi dal raccogliere forme statiche, la fotografia di Michele Pellegrino si pone come un caleidoscopio in grado di mostrare quello che Pavese ha definito il «cammino dell’anima». Vibrazioni, sentimenti, scenari spirituali bucano quasi fisicamente lo scatto e, al fondo, ci rivelano l’occhio di un grande maestro.    

(Di Claudia Ciardi)


Catalogo:

Michele Pellegrino. Una parabola fotografica,
introduzioni di Enzo Biffi Gentili e Walter Guadagnini, Skira, 2018


* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra



La miseria infinita



Le cime tenebrose



Dalla serie "Le cime tenebrose"



Dalla serie "La madre mediterranea"



Il CuNeo gotico



I cistercensi - Il CuNeo gotico



Un convegno internazionale per Giovanni Battista Schellino - il 1° dicembre 2018






4 novembre 2018

Lembi di montagne


Proseguendo sulla via tracciata dai “Taccuini giapponesi”. Rughe, tagli, contrasti che affiorano dal monte, avvicinato, ingrandito, scomposto nelle sue articolazioni. Fossili e frammenti come tessere di un mosaico che virano nell’astratto e, allo stesso tempo, pezzo per pezzo rivelano caratteri del paesaggio, perfino della sua personalità, sfuggenti a uno sguardo d’insieme, viziato dalla fretta e dalla distanza, non solo fisica ma anche intesa nella sua essenza psicologica di instabilità che decentra e allontana.

Dai miei diari (30 ottobre 2018): In una tregua del maltempo. Per un attimo il sole ha bucato la coltre di nubi che nascondeva il profilo delle cime. Il vento ha dissolto la foschia e così ho visto. Davanti a me si è aperto il crinale di sud-est. Scarnita, saccheggiata dall’incendio, in quell’istante ho sentito dentro di me il dolore e la desolazione della montagna. Quella schiena brulla e offesa tremava.



Le Alpi Apuane dall'argine di San Sisto (maggio 2018). 
Uno schizzo dove il segno intende evocare, darsi a un minimalismo che lucidamente vuol narrare per vuoti, omissioni, rinuncia al dettaglio. Una via delle possibilità del reale che, eludendo, include dimensioni che non si sono percorse.



Le Alpi da Prali (giugno 2018)



Lembi di montagne II (2018) - Da uno studio sulle Alpi in Valle Stura




Lembi di montagne III (2015) - Lido di Camaiore (Sagoma del Gabberi, dettaglio)



Le Apuane da Viareggio - Un dettaglio (20 giugno 2017)



Lembi di Capraia - Arrivo sull'isola di sera e Corsica sullo sfondo (25 agosto 2017)



Lembi di Capraia II (25 agosto 2017)



Astratto con luce I (31 ottobre 2018)



Vista di Caprona e Monti Pisani sullo sfondo (16 aprile 2016) - Modello per la serie degli "Astratti"


26 ottobre 2018

Cecilia Fasciani - Io prometto



Una produzione indipendente che racconta uno spaccato di vita quotidiana interrotta nelle zone del terremoto, dall’Aquila al cosiddetto cratere sismico di Lazio e Marche. 
Quattro donne si fanno voci narranti e interpreti del dramma che ha mutato il corso delle loro esistenze. Perché sopravvivere al terremoto significa prendere atto di quel mutamento, capire che ciò che si farà dopo verrà inevitabilmente condizionato dal bivio che le circostanze ci hanno messo davanti. È un messaggio che accomuna Antonietta Centofanti, la zia di Davide, uno dei ragazzi portati via dal crollo della casa dello studente all’Aquila, su cui è ancora in corso il processo civile, e Valentina Valleriani, altra donna battagliera del capoluogo abruzzese, che da anni lotta insieme all’associazione donne “terre-mutate”. E poi ancora, Patrizia Vita, l’“ortigiana” di Ussita, e Assunta Perilli, tessitrice a Campotosto. Donne le cui attività erano, per scelta, profondamente radicate nel territorio e nella storia delle loro comunità. Patrizia, che dava ospitalità a decine di visitatori, appassionati di sentieristica in montagna, ispirati da un viaggiare lento e a misura d’uomo, e un orto davanti alle finestre della sua casa coltivato con la tenace devozione di chi sa che solo nella terra si rivelano le nostre radici. Assunta invece aveva riscoperto all’inizio del duemila il telaio di sua nonna, già morta, e da allora, cercando le anziane del paese, aveva provato a riavvicinarsi a quell’arte, dimenticata dalle nuove generazioni ma ancora presente, non fosse altro che per la sopravvivenza degli antichi strumenti. Ne era nato un laboratorio a Campotosto da cui il sisma l’ha costretta ad allontanarsi. Di recente ha ripreso a lavorare in una bottega provvisoria, una casetta in legno dove ha potuto risistemarsi, perché, spiega, la sua è un’attività artigianale che ha senso solo in quel contesto.
Donne da cui passa la resistenza in luoghi che rischiano l’isolamento e un oblio feroce. Che si tratti di borgate, frazioni o città, non fa differenza. Il pericolo non è proporzionale alle dimensioni di uno spazio ma alla resa di una collettività; L’Aquila, in questo senso, ha vissuto e vive una situazione delicata. Antonietta Centofanti dice che l’unica cosa che impedisce di soccombere è proprio il lottare. Almeno non si è accerchiati dal dolore, ci si arrabbia ma si resta vivi. E lei sulle barricate c’è da tanto, è sempre lì a spronare e sferzare la sua comunità, quando vede che si sfalda, che gira le spalle  anche in un’estrema forma di autodifesa  davanti a lutti e vicende che dovrebbero essere condivise. Per ricostruire, infatti, bisogna aver preso coscienza di tutto ciò che è stato, di quello che ha abbattuto e ucciso, oltre e al di là del terremoto. La regista Cecilia Fasciani, squarcia quindi il racconto, riandando all’indietro, ai concitati momenti in cui gli aquilani reclamarono le proprie case, il ritorno simbolico a quel centro storico da troppi mesi isolato, sottratto, abbandonato. Una cittadinanza determinata a fondare ritualmente la città che sarebbe venuta e che perciò cercava un contatto, perfino una consonanza con le macerie lasciate nelle strade. Con quelle macerie bisognava ritrovare un dialogo e da lì recuperare, almeno iniziare un processo di recupero, della propria identità, altrettanto costretta a frantumarsi.  
Così Antonietta ci accompagna per le vie della città-cantiere, anche le sue sono soste quasi rituali, ad ogni angolo, piazza o slargo sorveglia lo spazio, mette un’idea del prima e dell’ora in quegli scorci squassati e non manca di sottolineare quanta bellezza venga da lì, quanta nonostante tutto. Sembra volerci dire: ma non immaginate cos’è stato qui, la forza e la grazia che c’erano ovunque, se la città irradia ancora così tanta intensità? È quel che ho pensato anch’io, sfiorando coi miei passi queste architetture, violate, prostrate ma a loro modo resilienti. È quello, lo capisco ora, che negli anni mi ha fatto pensare parecchie volte ad Antonietta, alle sue battaglie. Anche quando la sua voce si è sentita di meno, ma c’era, c’è sempre stata. Allora, guai voltarsi adesso. Il ritorno alla normalità suona come una formula vuota, che non fa presa su chi si trova spodestato, sradicato dentro e fuori. Ci sarà un’altra normalità, auspicabile, che per un po’ correrà parallela a quella interrotta e poi farà la sua strada. Ma in tutto questo la memoria avrà bisogno di essere salvata e custodita, rifondata, a sua volta, sugli accertamenti delle responsabilità, sulla serenità derivante dal fatto che molte cose hanno infine ritrovato una sistemazione, un senso, una strada per poter essere definite e comprese. “Io prometto” è un’espressione difficile. Ce lo dice Valentina Valleriani, sul filo dei ricordi, dell’essere stata negli anni ostinata, per sé, per la comunità. Siamo persone, immerse nei nostri condizionamenti, nei nostri limiti, eppure qualcosa si può fare, anche solo dall’acquisire questi limiti, provare a guardarli e capirli. Già questa è una promessa a se stessi, in grado di motivare ognuno nella propria quotidianità. Una lezione, quella dell’impegno civile, cui le aree terremotate richiamano con durezza, sia quando è stata disattesa sia quando ha dato la miglior prova di sé, attraverso le reti solidali spontanee e nazionali. Se i morti non hanno un senso, e fermo restando che una vita non si risarcisce, almeno provare a far sbocciare il meglio da queste macerie, almeno avere questa determinazione, è cosa dovuta a chi non c’è più.


(Di Claudia Ciardi)




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      «Leggendaria» 

numero 87, Donne che 
hanno fatto l’Italia, maggio 2011, nel ricordo di Bia Sarasini, recentemente scomparsa. Bia si era dedicata fin da subito a divulgare e sostenere il movimento delle "Terre-Mutate", un’associazione spontanea di donne colpite dal sisma in cerca di nuove forme di aggregazione sociale, per superare insieme l’emergenza. L’ho incontrata nel 2013, durante le giornate romane che la Sil dedicò alla poesia della Bachmann. La ringrazio per le parole che mi riservò: “se stai con noi, io sono contenta”. Non si riferiva solo alla Sil, ma a qualcosa di più grande, a un impegno ancora più vasto e capillare nella mia vita, che seppe racchiudere in quelle poche parole. Ora ne capisco pienamente il senso.




«Leggendaria» numero 95, Donne in città, settembre 2012. Le Terre-Mutate dell’Aquila incontrano le donne di Mirandola dopo il sisma in Emilia.





















Su «Montagne 360», marzo 2018, la mostra Sequenza sismica, per ripercorrere nelle immagini il dolore e la memoria dei luoghi colpiti dal sisma del centro Italia nel 2012 e nel 2016.



18 ottobre 2018

Marc Augé - Saper toccare


Un discorso sulla definizione sensoriale, antropologica e filosofica del tatto nella cultura umana. Questo breve saggio di Marc Augé, impegnato negli ultimi trent’anni a esplorare dinamiche e derive della globalizzazione in rapporto alle relazioni fra individui, riflette su alcuni dei temi che più hanno orientato la sua attività di studioso. La fisicità respingente dei nonluoghi, dove nulla o quasi viene trattenuto o trasmesso delle vite di coloro che quotidianamente li attraversano, il paradosso della frequentazione di massa di spazi condivisi senza acquisirne alcuna esperienza collettiva, l’uso di tecnologie che se da una parte facilitano la comunicazione, rendendola praticamente istantanea, dall’altra rischiano di inibire il confronto con la realtà. Su tali argomenti Augé si è esercitato a lungo, firmando contributi che hanno innovato in modo sostanziale il dibattito all’interno delle discipline sociali. Se l’essere umano ricava la misura della propria esistenza dal relazionarsi con l’altro, dandosi contemporaneamente come un insieme di “singolare-plurale”, nel momento in cui il contesto dov’è inserito lo obbliga a un’esperienza frettolosa e straniante dei suoi simili, un’esperienza che nega ogni passaggio dialettico al comporsi di una pluralità come fondamento necessario al senso sociale, è chiaro che ad entrare in crisi sia pure il suo autodeterminarsi come singolo attore e partecipe di quella stessa società. L’uomo, in quanto entità duale, avvertendo in sé questa scissione si ritrova in bilico su una frattura alienante e, senza vie d’uscita apparenti, è consegnato alla solitudine.
Il ragionamento sul toccare l’altro, dunque, s’inserisce nella constatazione che i rapporti tra le persone si stanno indirizzando all’estraneità piuttosto che alla ricerca di indispensabili punti di contatto. Un atto, il toccare, che attiene a due sfere. Quella intellettuale, ossia l’aspirazione che ha ogni artista di muovere attraverso l’opera chi vi posa lo sguardo o legge o ascolta. E quella strettamente fisica, quando attraverso un gesto s’intende comunicare col corpo di qualcuno. Gesto che nel tempo è stato investito di qualità sacrali e perfino magiche; pensiamo all’imposizione delle mani dei re taumaturghi oggetto del celebre studio di Marc Bloch. È questo infatti un ambito che dal corpo rimanda all’emotività e viceversa. Toccare qualcuno implica varcare una frontiera che sta tra noi e la personalità di chi abbiamo davanti. Augé parla anche di una sorta di possessione mistica inversa, rifacendosi alle vite dei santi. Se tali racconti sono tutti incentrati sulla sublimazione fisica – che cos’è l’estasi se non un’altissima manifestazione d’amore, un sentire, anche nelle sue pose erotiche, dove il contatto è solo, seppur vividamente, evocato? Se quindi l’ascesi spirituale si percepisce in un’elevazione continua del corpo che tende al divino, pure la carnalità non è affatto occultata. Quando San Tommaso affonda il dito nella piaga del Cristo – Augé si riferisce qui alla famosa tela di Caravaggio – lo fa perché ha bisogno di trovare conferma all’esperienza della fede e del trapasso nell’unico modo possibile: toccarne le ferite. E a tale proposito pensiamo ancora alle crude immagini del martirio dei santi, alla centralità che la tortura dei corpi riveste nelle narrazioni agiografiche, dove la superiorità spirituale prende forza dal resistere al dolore.
La funzione tattile è anche depositaria di una peculiare capacità di memoria, forse tra le più sviluppate nei sensi umani. Ad esempio curare un corpo, da una semplice fasciatura a un’operazione chirurgica, alleviarne le sofferenze, implica una memorizzazione durevole di quei gesti, tanto che saremmo in grado di ripeterli anche a distanza di anni. Ma non solo. Ci fa ricordare dettagliatamente dei modi e delle situazioni in cui siamo entrati in contatto con l’altro, che in una cosa essenziale com’è il prestargli delle cure si colloca fra le più elevate esperienze di empatia e scambio. Il tatto educa all’altro, fa uscire quella parte di umanità generica che è in noi, mettendola a disposizione del collettivo. Rompe l’isolamento, crea conoscenza. E sì, è vero, come dice Augé l’educazione salverà il mondo e, aggiungo io, anche la condivisione.

(Di Claudia Ciardi)   


Edizione consultata:

Marc Augé, Saper toccare, a cura di Francesca Nodaro, 
Mimesis, Collana Chicchidoro, 2017


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10 ottobre 2018

Simbolismi ai confini dell'impero asburgico



La storia del simbolismo nell’arte all’interno dei paesi di cultura tedesca – Germania e impero asburgico – è un tema vasto che implica l’analisi dei contatti tra Francia e Mitteleuropa durante almeno gli ultimi tre decenni del XIX secolo. Da una parte la pittura francese aveva avviato un ripensamento dell’impressionismo attraverso un lungo processo di mediazione e superamento che dalla scuola di Barbizon, passando per Pont-Aven e la personalità di Paul Gauguin arriva ai Nabis, dove a imporsi sono soprattutto le lezioni del decano Sérusier e del poco più giovane Maurice Denis, dall’altra nei territori tedeschi si assiste a una conquista in parallelo delle nuove istanze simboliste, filtrate dal sintetismo Jugendstil e dalle Secessioni di Monaco (1892), Vienna (1897) e Berlino (1898). Intreccio di caratteri e influssi che se ci si sposta nelle periferie dell’impero appare ancora più complesso, a tratti addirittura indecifrabile. Se infatti il centro per eccellenza deputato al soggiorno artistico era indiscutibilmente Parigi, e ciò fino agli anni ’70-’80 dell’Ottocento, sotto il crescente martellare delle avanguardie sono molti i giovani che dalle province imperiali scelgono di stabilirsi per un periodo più o meno esteso nel tempo a Vienna, Monaco, Berlino o anche Milano. In tal senso si possono dire accantonati pure gli attriti politici e le diverse appartenenze culturali di trentini e non solo; a riprova dell’arte quale bacino di condivisione e immaginifica “comune” volta al superamento delle diversità. Del resto, affinché la frontiera assolva il compito di cinghia di trasmissione di culture e saperi, dev’esser chiara a chi l’attraversa la sua essenza, la sua spazialità incisa nei luoghi e ancor più nell’idea che quei confini possano divenire passaggio, ma solo in virtù della loro certa definizione come tracciati fra aree dai differenti connotati.
Al bivio del simbolismo internazionale di matrice tedesca, o più ampiamente nordica, che va da Böcklin a Klinger, da Munch a Hodler e Kubin, incrociando la corrente paesaggista di Corinth e Leistikow, che arriva a lambire la colonia di Worpswede, con una netta predilezione per le scene autunnali e i tramonti intrisi di una Stimmung malinconica e assorta, si colloca buona parte della pittura frontaliera trentina e altoatesina di fine secolo. In quello stato di “torbida latenza”, per citare i curatori di una recente rassegna pittorica su questi temi, che di lì a poco avrebbe svelato tutti gli inganni della realtà. Con l’aggiunta di un nume solitario e ingovernabile, Giovanni Segantini. Fabbro di un linguaggio che non si lascia assimilare ad alcuna corrente, interprete di un simbolismo panteista sui generis, ha affascinato molti tra i pittori italiani e stranieri coevi. Restando alla porzione geografica qui esplorata, possiamo senzaltro dire che il tirolese Alfons Siber (1860-1919) sia uno dei più assidui nel cogliere e rafforzare la sua ricerca.
Punto nodale d’interlocuzione fra tutti gli artisti operanti in questa parte d’Europa nel medesimo scorcio storico, è il bisogno di esprimere la ritrovata armonia fra uomo e natura. I laghi, gli stagni, i boschi, i pascoli alpini sono i luoghi dell’idillio, ambienti risparmiati dal tempo dove tanti pittori scelgono peraltro di trasferirsi per sfuggire ai condizionamenti sociali e civili delle metropoli. Ecco cosa annotava Artur Nikodem quando si metteva al lavoro: «ora in piena estate le betulle… se si incide un quadrato nella corteccia con un coltello appuntito, si ha la pelle bianca, sotto la quale fa mostra di sé uno splendido verde, da cui goccia il dolce succo». Da qui passa anche una sensibilità nuova per la quale il colore diventa esso stesso soggetto, marca simbolica di cui viene eclissata la funzione descrittiva a favore delle sue qualità evocatrici. La propensione allusiva dell’arte del secondo Ottocento, rivelatrice di nervature magiche e mistiche con cui disegnare l’invisibile che è nel mondo, la contiguità sempre più necessaria con l’universo simbolico, si diffondono dalla Francia verso est come risposta al naturalismo d’origine impressionista, convogliando queste istanze in una corrente creativa che va ben oltre le discipline figurative. Si tratta di un cosmo variegato e per alcuni aspetti sfuggente, nella misura in cui sperimenta, mischia, gioca, e in apparenza rinnega, salvo poi recuperare entro di sé alcuni di quegli stessi motivi formalmente discussi. Seguirne esiti e mutazioni significa approdare alle soglie dell’espressionismo e fino all’astrattismo e alla metafisica degli anni Venti del Novecento. Un arcipelago in buona parte ancora sommerso, dove sono custoditi i sogni di quasi tutte le successive avanguardie.

(Di Claudia Ciardi) 


Catalogo consultato:

Sulle tracce di Maurice Denis. Simbolismi ai confini dellimpero asburgico.
Auf den Spuren von Maurice Denis. Symbolismus an den Grenzen des Habsburger Reichs.
Skira, 2007




Alexander Koester, Canneto al tramonto vicino Bressanone, 1895



Alexander Koester, I salici dorati, 1900



Alfons Siber, Risveglio di primavera, 1900



Max von Esterle, Giornata invernale di sole in Tirolo, 1911



Alfons Walde, Impressione di primavera, 1911



Alfons Walde, Impressione serale, 1911



Artur Nikodem, Sentiero nello Stubaita, 1919-1920



Max Klinger, L'ora blu, 1890